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Dal balcone della sua balsa, la zattera ormeggiata nel cuore del groviglio di abitazioni e industrie galleggianti cresciuto nella parte di costa a est di Santa Barbara, Teresa Rafael guardò una vecchia che si avvicinava su un ponte mobile. Mise da parte la matita e pensò: una cliente.

Spense la matita elettrica e ne ascoltò l’impercettibile ronzio dissolversi nel nulla. Era un’artista. Una decina di anni prima aveva cominciato a vendere le sue sculture alle gallerie sull’Autostrada numero Uno. Erano fatte con materiale di scarto, vecchi pignoni a gabbia saldati con ossiacetilene ad antichi alberi a camme, tavole patchwork fissate con i chiodi su fogli di alluminio. Poi, dopo che Byron Ostler le aveva fatto conoscere le pietre dei sogni, aveva cominciato a lavorare con materiali più agevoli. Al momento stava eseguendo una pittura su cristallo, una lastra trasparente spessa circa due centimetri. Creava ombre e forma nella sua struttura laminare con una matita a interferenza fabbricata in casa. Il quadro, un paesaggio, era ormai finito. Campi verdi si stendevano a perdita d’occhio fino all’orizzonte. Il cielo era di un azzurro gessoso, e dalle sue profondità scendeva un gruppo di uomini con ali simili a ragnatele, leggermente più azzurre del cielo, che si dirigevano a una pagoda di legno sul bordo di un canale di irrigazione.

Era qualcosa che lei aveva visto in trance, usando una delle pietre.

Alzò lo sguardo dal lavoro quando il campanello, un vecchio campanaccio per le mucche montato su una carrucola, cominciò a suonare. Teresa sospirò, camminò con passo felpato fino alla porta e l’aprì.

La faccia della vecchia le era familiare. — Signora Gupta — le disse. L’incontrava di tanto in tanto davanti alle bancarelle della frutta e della verdura al mercato sul canale. Quell’impressione di familiarità distrusse la speranza di potersi sbarazzare in fretta di lei. — Entrate — aggiunse, in tono rassegnato.

La signora Gupta si trascinò dentro, fragile nel suo sari giallo ormai sbiadito. — Non vorrei disturbarvi. — Aveva una voce fievole, con le inflessioni quasi interamente cancellate da anni di permanenza nella Città Galleggiante. — È solo che ho saputo… dicono che voi ritroviate i ricordi.

— Sì. A volte.

— Vorreste provare? Per me? — Fissò Teresa attraverso le lenti montate in metallo. — Posso pagarvi.

— Va bene… non è necessario che paghiate.

— Mi fa piacere — commentò placidamente l’altra.

Entrarono nello studio. La vecchia guardò con invidia il pavimento di legno e le lunghe finestre piombate che Byron aveva recuperato in un magazzino per il grano, nel porto della vecchia città. Il primo piano era circondato da una balconata e Teresa aveva appeso grappoli di felci lungo il lato esposto a ovest; le felci rinfrescavano l’aria e filtravano la luce del pomeriggio. Nella Città Galleggiante il suo studio rappresentava un lusso, in termini di spazio e di aria. Lei l’aveva pagato in contanti, con il ricavato delle sue vendite: i suoi lavori avevano avuto molto successo nelle ultime stagioni.

Poteva indovinare molte cose sulla signora Gupta, anche soltanto guardandola. Era quasi certamente una rifugiata. Magari una profuga arrivata fin lì in aereo dopo l’incidente al reattore di Madras, molti decenni prima. Dall’epoca delle rivolte dei disoccupati, negli anni Venti, la Città Galleggiante era diventata a tutti gli effetti uno stato senza confini, un asilo per rifugiati di ogni genere, un bacino di raccolta per emarginati che non sarebbero mai riusciti a sopravvivere nel fragoroso affollamento delle città sulla costa. Un rifugio per gente come la signora Gupta, pensò Teresa.

Gente come me.

— Posso vedere la pietra? — chiese la donna.

Teresa la tolse dal cassetto di una vecchia scrivania di vimini. Non era una pietra originale, ma una copia, cresciuta nel laboratorio surriscaldato di Byron. Tecnicamente, il possesso della pietra era una violazione delle leggi federali e dello stato. Ma nella Città Galleggiante le leggi venivano osservate di rado e nessuno pensava a farle rispettare.

La signora Gupta tenne per un attimo la pietra nel palmo della mano bruna e artritica. La pietra era stata ripulita, ma non sfaccettata. Si presentava come un ottaedro irregolare, delle dimensioni di un grappolo d’uva. La struttura particolare delle sue molecole lasciava che l’occhio giungesse a vedere molto in profondità. La vecchia la fissò.

— Si dice che vengono da molto lontano — osservò.

— Dal Brasile — disse Teresa.

— Dal cielo — insisté la signora Gupta.

— Be’, sì. È vero. Dal cielo.

La vecchia annuì e le restituì la pietra. — Che cosa devo fare?

— Niente, per ora. — Teresa si sistemò su una sedia di fronte a lei. — Volete ricordare?

La signora Gupta annuì di nuovo. I suoi occhi, simili a quelli di una tartaruga, fissarono Teresa con espressione grave. — È passato tanto tempo. Allora ero sposata. Prima dell’incidente di Madras. Lui si chiamava Jawarhalal. Morì durante il Grande Evento. Lo ricordo ancora, passo molto tempo a ricordare. Ma gli anni volano. — Scrollò la testa. — I ricordi si annebbiano.

— Farò quello che posso — assicurò Teresa. — Ma non vi prometto niente. Mi capite?

— Sì.

Teresa chiuse la pietra nel pugno.

Non lo faceva molto spesso. Assomigliava troppo a un trucco da salotto, a qualcosa che molti ciarlatani avrebbero fatto per denaro. Nella Città Galleggiante si era sparsa la voce che lei avesse quel dono e così, una o due volte alla settimana, gente come la signora Gupta arrivava a bussare alla sua porta. Soprattutto vecchi. Aiutatemi a ricordare. E lei salvava minuscoli frammenti della loro vita dalla risacca famelica dell’oblio. Le loro ragioni erano sincere e spesso commoventi, tanto che lei non riusciva a rifiutarsi.

C’era una terribile ironia, in tutto ciò.

Tenendo la pietra chiusa nella mano sinistra, Teresa strinse con la destra le dita ossute della signora Gupta.

Chiuse gli occhi.

Le immagini sgorgarono all’istante. Erano nitide e piene di colore. Se non avesse dovuto descriverle alla vecchia donna, avrebbe cercato di renderle ancora più reali nel disegno, nel suono e negli odori.

— Una spiaggia pietrosa — disse. La vedeva da una posizione sopraelevata. — Ci sono delle persone tra le onde. Dei bambini. Le rocce formano una specie di muraglia. Alle spalle della spiaggia c’è un grande edificio di pietra. Un tempio, direi.

Si udì una specie di rantolo, mentre la vecchia tratteneva il fiato. — La spiaggia di Mahabalipuram. — Poi, più debolmente, aggiunse: — Eravamo andati là, sì… Teresa non vide la signora Gupta, ma sentì la sua presenza, come se si fosse trattato di se stessa. — Voi siete là — continuò. — Indossate un sari azzurro. Sembra seta pura, è molto bello. Portate i capelli raccolti indietro, e gli occhiali. E il disegno sulla fronte, il…

Tika. - Fu solo un bisbiglio.

— Il vento soffia verso l’oceano — continuò lei. — Il cielo è terso e luminoso. Fa caldo. I bambini ridono. Voi avete uno scialle…

Non sapeva da dove venissero, e come arrivassero fino a lei, ma continuò a pescare nei ricordi per quasi un’ora. La spiaggia di Mahabalipuram, il charpoy familiare, un giorno di vacanza a New Delhi. Il tutto sbiadì, alla fine, nell’unica, agghiacciante visione della cupola spaccata e annerita del reattore di Madras, seminascosta da un soldato che brandiva il calcio del proprio fucile. Teresa tenne l’immagine per sé. — Mi spiace — concluse. — Questo è tutto.

La signora Gupta annuì e si alzò in piedi. Non sembrava commossa, ma Teresa percepì la sua gratitudine.

Ormai alla porta, la vecchia si volse. — È vero ciò che dicono di voi? — chiese.

Teresa rimase cautamente ferma nell’atrio. — Che cosa dicono?

— Che siete sbucata dal fuoco, una dozzina di anni fa. Che non ricordate niente della vostra infanzia.

Lei annuì lentamente. — Sì. È vero.

— Non potete fare per voi quello che avete fatto per me… usare la pietra per ricordare?

— No — rispose Teresa.

La signora Gupta dondolò la testa avanti e indietro, accettando quella strana verità. — Posso tornare? — domandò. — Ci sono altre cose, altre volte…

— Tornate, se vi fa piacere. Ma vi avverto. Andrò via per un po’.

E chiuse la porta.


Quella notte fu assalita dall’inquietudine.

Per sua scelta viveva sola. E, sempre per scelta, abitava nella Città Galleggiante. Dopo il successo di vendite alle mostre avrebbe potuto trasferirsi sulla costa, comperare un appartamento e vivere nel lusso. Ma la città delle barche la rasserenava. Era un barrio bajo, un quartiere povero e malfamato, ma era anche el otro barrio, un mondo a sé. A dispetto o forse proprio a causa della sua miseria, la Città Galleggiante manteneva una certa signorilità a buon mercato di cui lei sentiva la mancanza quando visitava la terraferma. Il mondo della terraferma cambiava spesso e con rapidità, e gli abitanti che avevano più succcesso erano quasi sempre i più voraci, i predatori. Qui, invece, la sensazione del fallimento generale agiva da livellatore.

E poi, le piaceva la vicinanza dell’oceano. Tutta quell’acqua era stata imprigionata nelle immense darsene di marea e lei era quindi riparata dagli eccessi del mare, pur godendo della sua positiva influenza. Nei giorni di pioggia andava a passeggiare lungo i margini di cemento della diga e guardava le nuvole che si presentavano a ovest, sull’orizzonte. L’oceano le parlava. A volte, ma non quella notte, la calmava permettendole di addormentarsi.

E allora perché parti?

Stesa sul letto, Teresa cercò di trovare una risposta.

Il viaggio che si riproponeva poteva essere pericoloso. Lei lo sapeva. Wexler le aveva detto che sarebbe stata una vacanza ben meritata, e solo incidentalmente anche un’occasione di lavoro. Ma Byron si era mostrato più scettico. Avrebbero affrontato un mondo in cui onesti e criminali erano diventati ormai indistinguibili gli uni dagli altri. Danaro conquistato a fatica, aveva detto Byron. E gente dura. Per anni le pietre esotiche erano state i cardini del progresso, l’unica e più preziosa risorsa esistente al mondo. Avevano rovesciato la sovranità delle nazioni e la supremazia dei maggiori imperi corporativi. Per loro si era addirittura combattuta una lunga guerra. In quelle condizioni il contrabbando, anche quello progettato da Cruz Wexler, diventava una faccenda molto più che rischiosa.

Ma doveva andare, pensò Teresa. Ne sentiva l’urgenza. Non poteva continuare a fare per gente come la signora Gupta ciò che non poteva fare per sé. In quegli ultimi tre anni aveva ritrovato una parte di se stessa, e ne era felice. Ma non bastava.

Impazziva dalla voglia di partire. Nella Città Galleggiante c’era chi la definiva pazza, forse a causa dei suoi lavori oppure per il misterioso legame con le pietre dei sogni. Teresa la Pazza, dicevano.

Voleva essere solo una frase scherzosa. Ma quella sera, stesa sul letto senza riuscire a dormire, mentre i pallidi raggi della luna delineavano l’ombra delle falci sul pavimento di legno, lei si chiese se non avessero ragione.


Quando finalmente si addormentò sognò di nuovo la bambina.

Non poteva avere più di dieci anni. Era cenciosa e denutrita, indossava una vecchia tuta strappata e scarpe da tennis legate con uno spago. I capelli erano tagliati a scodella. Sembrava in piedi in un luogo indefinito, illuminata da un riflettore. Aveva braccia e gambe magrissime. Ma erano gli occhi che lei non avrebbe mai dimenticato.

Erano immensi, da vecchia, terribilmente acuti.

Teresa, nel sogno, si sentiva intrappolata dalla potenza di quello sguardo. Voleva abbassare gli occhi, ma non poteva.

— Trovami — diceva la bambina. — Aiutami. Trovami.

Lei si svegliò in un bagno di sudore. L’oscurità sembrava dilatarsi. Si raggomitolò con le ginocchia vicino al séno. Era in momenti come quelli che sentiva più profonda la solitudine.

— Va bene — disse nell’oscurità.

La balsa dondolava dolcemente con il crescere della marea. Il vento proveniente dal mare sollevava cortine di garza simili ad ali.

— Va bene. — Era solo un bisbiglio. — Farò ciò che vuoi. Ma, per favore, lasciami sola.


La mattina, Byron arrivò su una motolancia dai meandri del mercato galleggiante affollato di gente, in compagnia dello straniero, l’uomo che veniva dalla terraferma. Il nome dello straniero era Raymond Keller.

Teresa aveva accettato che una terza persona compisse il viaggio con loro. Tuttavia, si era mantenuta il diritto di veto sulla scelta di Byron. E in quel momento fu lieta della propria prudenza. Guardando Raymond Keller, non era affatto sicura di voler passare molto tempo in sua compagnia.

Condusse entrambi gli uomini sulla stretta balconata che circondava il suo studio, dove aveva sistemato delle poltroncine di vimini. Byron fece le presentazioni, lei portò fuori alcune bottiglie di birra messicana ghiacciata, poi si sedettero. Una strana compagnia, pensò Teresa. Byron, si capisce, sembrava fuori posto in qualunque luogo normale. Ci teneva molto alla propria immagine di chimico oneirolita fuorilegge, di feroce veterano della Guerra Brasiliana con tanto di cicatrici e tatuaggi, impenetrabile dietro le sue lenti a forma di luna piena.

Anche l’altro uomo, a quanto aveva detto Byron, era un veterano. Indossava una vecchia giacca militare, portava un equipaggiamento logoro e sembrava perfettamente intonato al suo ruolo. Forse anche troppo. Teresa diffidava dell’apparente opacità dei suoi pallidi occhi azzurri, del modo in cui la guardava quando si credeva inosservato. Aveva visto molte persone di quel genere alle mostre, operatori urbani con un occhio sempre fisso ai propri interessi. Uscivano dai sobborghi asciutti della Valle come da una catena di montaggio, levigati e inespressivi.

Parlarono della guerra in termini generici. Byron era stato l’Angelo del plotone di Keller, raccontò, e poi Keller era diventato a sua volta un Angelo. A differenza di Byron, aveva mantenuto l’impianto. Keller lavorava per la Rete e avrebbe registrato il viaggio per intero.

Byron le aveva già accennato qualcosa in precedenza. — Ray cura la redazione personalmente — aveva detto. — Desidera soprattutto il reportage su Pau Seco. Se appariremo nel materiale da consegnare alla Rete, i nostri nomi e le facce verranno sistematicamente alterati. Non abbiamo nulla da temere.

— Non capisco perché dovremmo aver bisogno di lui — aveva ribattuto Teresa.

— Perché è già stato laggiù — rispose Byron. — Perché conosce la zona. E poi, per venire al punto, perché mi fido di lui.

— Pensi che Wexler ci abbia mentito?

— Penso che anche lui può fare degli sbagli — aveva replicato Byron.

E ora quell’uomo, quell’Angelo in attività, era seduto e la guardava con i suoi remoti occhi azzurri. Era strano, a pensarci.

Teresa si scusò e andò nello studio a prendere un album da disegno e un carboncino. Li porse a Keller.

— Ray — disse. — Mi fareste un favore?

Lui esitò, poi annuì.

— Fate un disegno — gli chiese lei. — Mentre parliamo. Vi dispiace?

— Non sono un pittore.

— Non importa.

Keller corrugò le sopracciglia di fronte alla pagina bianca. — Che cosa devo disegnare?

— Voi stesso.

Lui le rivolse una lunga occhiata, ma fece cenno di sì.

— Immagino che Byron vi abbia messo al corrente dei nostri piani — continuò Teresa.

— In modo sommario. Mi ha detto che scenderemo all’interno. E che porteremo via una delle nuove pietre.

Lei annuì. — È un po’ più complicato, naturalmente. Il finanziatore del viaggio è Cruz Wexler. Conoscete Wexler?

— Dirige non so bene quale istituto, lassù a Carmel.

— Investe denaro nel traffico degli oneiroliti già da molto tempo — disse Byron. — Ma ora c’è una novità. Pare che dalla miniera di Pau Seco stiano uscendo degli oneiroliti di un genere nuovo. Si pensa che l’astroblema di Pau Seco sia stato un unico deposito di raccolta intensiva dati, e che i campioni rimasti vicini al nucleo centrale, quelli che vengono estratti adesso, si siano conservati meglio nel corso dei secoli. Wexler ha cercato di acquistarne uno nei luoghi dove si pratica tradizionalmente il mercato nero, e cioè le porte sul retro dei laboratori governativi, ma i controlli sono diventati molto rigidi. Così ha organizzato l’acquisto a Pau Seco, direttamente alla fonte. Noi siamo i suoi corrieri.

— Pagati — precisò Keller.

— Nel mio caso, sì — confermò Byron. — Sono nella posizione di pretendere denaro. Professionalmente parlando.

— Io mi sono offerta volontaria — disse Teresa.

Keller si voltò a guardarla. — Vi importa dunque tanto?

Lei l’osservò muovere il carboncino sul foglio in modo distratto. Annuì. — Sì. Mi importa.

— Byron dice che siete dedita all’uso della pietra dei sogni.

— Dedita, forse, non è la parola adatta. Sapete? Per molti non si tratta di una droga molto piacevole.

— Genera delle visioni — replicò Keller.

— Genera molto di più. L’avevate mai provata, Ray?

Lui fece cenno di no con la testa.

— È potente — spiegò lei. — Interagisce con la mente, in modo diretto. La chimica non c’entra, e infatti non si verifica nessuna alterazione chimica. I tecnici di laboratorio non riescono a spiegare il fenomeno. Ma quando si tocca una pietra, all’improvviso si aprono mondi interi… Riuscite a capirmi?

— Non lo so. — Keller si strinse nelle spalle. — Forse.

Almeno, era una risposta onesta. Teresa aveva incontrato eserciti di chimici oneiroliti nella Città Galleggiante, e una moltitudine di commercianti, tutti interessati alle pietre da un punto di vista esclusivamente economico. Per loro quella era una droga, un articolo da contrabbando, una variante più esoterica dei neuropeptidi Modello Uno che erano diventati così popolari nelle città costiere. La singolarità delle pietre consisteva proprio in quello, pensò Teresa: rappresentavano qualcosa di diverso per ciascuno. Per i tecnici erano simili alla Stele di Rosetta, una specie di magazzino dati proveniente dalle stelle, decodificatole e immensamente utile; per i chimici e i loro clienti urbani erano semplicemente una nuova droga, una diversione visionaria…

E per me?

Una strada, pensò. Una destinazione.

Si chiese se Raymond Keller fosse in grado di capirlo.

— Non sopporto l’idea di fare questo viaggio con qualcuno di cui non mi fido — dichiarò. — Byron dice che siete un buon diavolo, Ray. Ma io non posso saperlo davvero. Giusto? Posso solo indovinarlo. L’unica arma che ho a disposizione è l’intuito, capite?

Lui annuì.

— Dunque, mostratemi il vostro disegno.

Keller abbassò lo sguardo sul foglio, come se la cosa gli fosse del tutto sfuggita di mente. Disegno? Le sue mani avevano comunque lavorato, ed era questo che lei voleva.

Teresa prese l’album e se lo tenne sulle ginocchia. Rimase sorpresa, constatando che il disegno dimostrava un certo talento. Era un ritratto a mezzo busto, rozzo ma completo. Molto rivelatore, pensò lei. Keller aveva definito i contorni con linee dure e angolose; le sopracciglia erano tratti unici, la bocca una sagoma compatta e priva di emozioni. Nel complesso, un insieme inespressivo. Ma gli occhi riscattavano tutto. Le linee si erano addolcite, le pupille risultavano profonde e piene di vita, l’espressione era quasi addolorata.

Non è quello che crede di essere, pensò. Un uomo duro, certamente. Ma lei guardò quegli occhi e si rassicurò. Recuperabile, si disse.

Le bastava.

— Partiamo fra un paio di giorni — annunciò.

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