I brasiliani tennero in custodia Ng per tre giorni prima che Oberg ne avesse notizia. Lo venne a sapere per caso, ascoltando un commento di una delle guardie di pace più giovani del maggiore Andreazza, e si precipitò subito nel suo ufficio per chiedere spiegazioni. — Dovevate dirmelo — protestò.
Andreazza lasciò vagare lo sguardo per la stanza prima di fissarlo, brevemente, sul suo interlocutore. — Dirvi che cosa? — chiese, simulando una vaga sorpresa.
— Di Ng. — Cristo, pensò Oberg.
— Il vietnamita è stato arrestato — dichiarò il maggiore.
— Lo so. Lo so che è stato arrestato. Voglio interrogarlo.
— Lo stanno interrogando proprio ora, signor Oberg.
— Volete dire che il massacro è già cominciato? Che lo avete già fatto morire?
I lineamenti di Andreazza si indurirono impercettibilmente. Il maggiore guardò il suo interlocutore con grande freddezza. — Non credo che voi siate nella posizione di sollevare critiche.
— E invece sì — replicò Oberg, sostenendo lo sguardo.
— Ho parlato con la SUDAM e con i miei superiori. Per quello che ci riguarda, voi siete un semplice osservatore. E vi consiglio di ricordarlo, quando vi rivolgete a me… Sempre che vi interessi la nostra collaborazione.
Oberg trattenne la risposta che aveva sulla punta della lingua. Il significato di tutta quella farsa, pensò tristemente, era che se li erano lasciati scappare. La pietra aveva preso il volo, e con lei gli americani. Nelle loro mani era rimasto solo Ng. Ed era una ben magra consolazione.
Provò un’ondata di rabbia nei confronti di Andreazza e dei suoi soldati, che lasciavano Pau Seco in balia della più disgustosa anarchia. Non aveva mai visto un ambiente così primitivo, e questo l’aveva colpito fin dall’inizio. Era una conseguenza evolutiva, naturalmente, il risultato della lunga serie di compromessi diplomatici che avevano concluso la guerra in terra brasiliana. Ma loro non sapevano, pensò Oberg, quasi con disperazione. Non sapevano come fosse importante quella faccenda. Non lo sapeva la SUDAM e nemmeno il governo civile, o forse non gliene importava. C’era da chiedersi se persino l’Organizzazione capisse veramente l’importanza di ciò che aveva scoperto.
Oberg sì, lo sapeva. L’aveva sperimentato di persona. Ne afferrava in pieno il significato.
Il peso di quell’evoluzione era ricaduto su di lui. E non era ancora finita. Forse Andreazza aveva rovinato tutto. Ma c’era ancora il tempo di rimediare.
— Mi dispiace di avervi offeso — disse, scegliendo con cura le parole. — Perdonatemi, non intendevo farlo. Desideravo solo vedere di persona il prigioniero.
Il maggiore gli concesse un breve sorriso. — Forse si può fare. Vi dispiace attendere?
E i secondi cominciarono a passare. Secondi, pensò Oberg. Poi minuti, ore, giorni. E intanto il contagio minacciava di diffondersi.
Ng non era più molto lucido quando lo condussero alla presenza dell’uomo dell’Organizzazione, Stephen Oberg.
Era prevedibile, dopo gli interrogatori da parte degli inquisitori militari. Lo avevano intercettato mentre tentava di forzare un blocco in una delle strade a est di Pau Seco, e lo avevano riportato indietro, in quell’edificio color cenere che serviva da prigione. Lo avevano messo in una cella troppo calda di giorno e troppo fredda di notte, e per due pomeriggi consecutivi lo avevano torturato.
La tortura era stata maldestra. Lo avevano spaventato più per come l’eseguivano che per ciò che gli facevano. Gli avevano infilato la testa in un sacchetto di plastica come per soffocarlo e lui si era preoccupato che fossero tanto stupidi o inesperti da non sapere quando era il momento di toglierlo. Oltre che maldestra, la tortura era anche antiquata. Giocavano la farsa dell’amico-nemico. C’era un alto sertao di origine indiana, con l’uniforme militare stracciata, che faceva la parte del buono parlandogli tra una sessione di tortura e l’altra e promettendogli clemenza. «Non lascerò che questi bastardi ti tocchino» gli diceva. A patto, si capisce, che Ng confessasse quello che sapeva sul furto dell’oneirolita. Il vietnamita fu attento a mostrarsi molto tentato dall’offerta, in modo da prolungare quei momenti di respiro. Ma non confessò nulla.
Il giorno seguente gli legarono polsi e caviglie a un marchingegno chiamato "due-per-quattro" che poi sospesero con una corda alle travi del soffitto. Cominciarono a colpirlo con dei manici di scopa, facendolo girare come una trottola. Ng vomitò e loro presero a colpirlo più forte. Alla fine lui svenne. Senza aver confessato ancora nulla.
Nel momento più freddo della notte, incapace di dormire per il dolore delle ferite, Ng se ne chiese il perché. Perché non confessare, dopotutto? Non si trattava certo di una questione di principio. Era implicato in un furto, non in una rivoluzione. Non era un partigiano, e neppure un martire. Perlomeno, non aveva alcun desiderio di diventarlo.
Eppure continuava a resistere. In parte, era un fatto di costituzione. Del modo in cui era fatto il suo corpo, alla lettera. Ng era soldato dalla nascita. Il suo corpo era fatto per l’aggressione, non certo per la paura. Dunque non era spaventato, e il dolore, sebbene terribile, diventa più sopportabile in assenza di paura. La morte lo spaventava, almeno in questo era umano; ma lui sapeva che sarebbe stato ucciso in ogni caso, dunque la confessione poteva servirgli solo per abbreviare il dolore. Sarebbe giunto anche a quel punto, si capisce. Ma era ancora presto.
Eppure, c’era qualcosa in lui che non risaliva all’educazione militare impartitagli a Danang. Un’ostinazione per la quale era stato spesso punito. «È il rischio che si corre con le alterazioni chimiche», gli aveva detto un giorno un esperto di genetica khmer. L’aggressività confina con la ribellione. Lui era testardo. Gliel’avevano detto spesso a Danang. Lo avevano anche picchiato, per correggerlo.
Aveva combattuto lealmente nelle offensive sull’Anello del Pacifico e aveva ucciso un buon numero di posseiros. Non poteva onestamente dire che era stata la ripulsa morale a fargli abbandonare l’esercito dopo la guerra. Solo in parte, forse. Ma Ng sospettava che la sensibilità spirituale fosse poco sviluppata in lui, quasi come la capacità di sentire paura. Ciò che provava era più personale. Il Brasile lo affascinava. Era immenso, da qualunque punto di vista. Lui non aveva mai sospettato che una singola nazione potesse comprendere una così ampia varietà di ricchezze, di miserie, di paesaggi. Avvertiva un mondo sconfinato dietro gli esigui margini che era stato allenato a riconoscere. Alla fine, si era chiesto se non ci fosse posto anche per lui in quel paese, un posto che gli offrisse un destino meno scontato della carriera militare in Tailandia, nelle Filippine o nella Manciuria occupata. Scomparve durante una licenza a San Paolo, una settimana dopo la firma del trattato di pace, ed entrò nella clandestinità.
Come clandestino non aveva diritti e viveva costantemente sotto la minaccia di un arresto, eppure fu in grado di assicurarsi una serie di lavori nel campo del commercio del legname che lo portarono sempre più vicino alla frontiera e in seguito fino a Pau Seco. La miniera degli oneiroliti colpì la sua immaginazione. Lo affascinavano le grandi possibilità che offriva, la stranezza dei ritrovamenti, il selvaggio contrasto tra povertà e fortuna. Se aveva un compito da svolgere nella vita, pensò, sicuramente lo avrebbe trovato lì.
Bene. Era stata un’intuizione infelice. A meno che, naturalmente, non fosse proprio quello il suo compito. Svolgere senza volere la funzione di vittima e martire. Restare appeso a una forca, come monito, nella collina che dominava la città vecchia.
In ogni caso, non aveva nulla da rimproverare a se stesso o agli americani. Gli era stata offerta una strabiliante somma di denaro, che lui aveva anche posseduto, per un brevissimo periodo. Considerata la posizione in cui si trovava, sembrava banale dirlo, ma erano solo le riflessioni di un condannato a morte: quel denaro avrebbe potuto permettergli di cambiare vita e se fosse ritornato indietro avrebbe preso le stesse decisioni. Aveva puntato e perduto.
Un errore di calcolo, dunque. Tutto lì?
No. C’era dell’altro.
Negli anni successivi alla guerra aveva maturato un profondo disgusto per gli uomini che controllavano Pau Seco, per Andreazza con i suoi brutali soldati e per i garimpeiros come Claudio che sfruttavano i loro operai. E nel breve periodo in cui l’aveva frequentata aveva scoperto di provare una cauta simpatia per la donna americana, Teresa, che era così straordinariamente sincera da sembrare quasi la rappresentante di un altro universo. Era una sensazione primitiva come la paura, ma quasi altrettanto forte. E forse anche questa l’aveva spinto a deludere le aspettative dei suoi torturatori. Aveva imparato a odiarli.
Con Oberg la questione era diversa. Lui odiava già quell’uomo. Continuava a odiarlo da anni.
Ng avvertiva la pressione dello sguardo di Oberg, mentre veniva spinto rudemente nella stanza degli interrogatori. All’interno c’erano due guardie di pace in uniforme grigia e il maggiore Andreazza. La tensione tra Ng e Oberg divampò subito, palese e immediata.
Ma io ho un vantaggio, pensò il vietnamita. Lui non sa chi sono io. Mentre io so tutto di lui.
Le guardie lo fecero sedere su una sedia di legno dallo schienale dolorosamente dritto. Ng gemette e quasi svenne per il dolore. Quella mattina aveva orinato sangue, e cominciava a temere che le ferite fossero più serie di quel che pensava.
Forse quella gente l’aveva già ucciso. Magari stava soltanto aspettando di morire.
Respirò a fondo, tra i denti, finché il cuore parve quietarsi e la testa accettò di sollevarsi. Qualcosa di nero gli oscurò la vista. Guardò Oberg e gli sembrò di vederlo in piedi alla fine di un tunnel, estraneo e lontano.
Oberg cominciò a parlare.
Disse molte cose prevedibili. Affermò di conoscere gli accordi che Ng aveva preso con Cruz Wexler e il complotto per rubare l’oneirolita. I testimoni, dichiarò, avevano confermato che lo scambio era avvenuto in un bar della città vecchia. Sapeva che gli americani avevano lasciato Pau Seco e voleva che Ng gli dicesse come avevano fatto ad eclissarsi e dove erano diretti.
Pronunciò tutto il discorso con una voce contenuta e suadente che Ng paragonò al rumore delle pompe idrauliche della miniera. Chiuse gli occhi e immaginò che lo stesso Oberg fosse una macchina, un ammasso fischiante di tubi e di leve, di filo spinato e di vapori bollenti. Una macchina fornita di ganasce, pensò. Ganasce di ferro e occhi fotoelettrici.
Una guardia lo colpì con il fucile per fargli aprire gli occhi.
Oberg era più vicino, adesso. Scrutava la sua faccia. Era così vicino che Ng sentiva il suo fiato caldo e profumato di menta. Capì di colpo, esaminando l’uomo con freddezza come se l’avesse guardato non da quella sedia ma da un altro posto più alto e pulito. Capì di colpo che Oberg era una menzogna. Il suo colletto inamidato era una menzogna. La tensione trattenuta a fatica e il lieve fremito all’angolo della bocca tradivano una moltitudine di menzogne. Oberg era una menzogna fatta di carne.
— Non ti farò del male — disse l’americano con calma. — Mi capisci? Non sono qui per farti del male.
E questa era una menzogna che si aggiungeva alle altre.
— Ti conosco — bisbigliò Ng.
— Mi dispiace — disse Oberg. — Non riesco a sentirti.
— Ti conosco.
L’altro si accigliò.
Ng parlò a dispetto di se stesso. Un fiume di verità nel vuoto delle menzogne di Oberg. — So chi sei. — Chiuse gli occhi e sperò che la guardia non lo colpisse di nuovo. — Marciavamo attraverso il Rio Branco — continuò senza riprendere fiato. — Nei villaggi a ovest di Rio Branco. Era la primavera dell’87, poco dopo l’offensiva di aprile. Tu eri famoso. Lo sapevi? Tra i vietnamiti eri molto noto.
Oberg reagì. Afferrò i lunghi capelli di Ng e gli rovesciò indietro la testa contro il bordo dello schienale, per farlo tacere. Ma l’omino continuava a parlare, come avesse perso il controllo di se stesso.
— Ci macchiammo di azioni terribili. Uccidemmo molta gente. Posseiros. Per la maggior parte soldati. Uomini cenciosi, ma almeno erano armati. Così era meno facile sentirsi in colpa. Eravamo macchine, capisci? Macchine per uccidere, ma riuscivamo ancora a provare dei sensi di colpa. Molti di noi, almeno.
Oberg gli fece scricchiolare il collo contro la spalliera e lui ebbe paura di svenire. Il che lo rese infelice, perché si stava in un certo senso godendo l’unica vendetta che gli era rimasta. Fu Andreazza a intervenire, con il suo inglese curato. — Non vogliamo che muoia subito, signor Oberg — disse. E l’americano fu costretto a mollare leggermente la presa.
Ng aprì gli occhi, li fissò in quelli di Oberg e capì che l’americano lo odiava per ciò che sapeva. — Marciavamo attraverso il Rio Branco — continuò — per eliminare i focolai di guerriglia superstiti, dopo il tuo passaggio. Ma tu avevi lasciato tracce ben peggiori. — Il ricordo era vivido e Ng, ormai perso in quel viaggio a ritroso, divenne più solenne. — C’erano corpi dappertutto. Corpi di donne e di bambini. Ci nausearono. Era incredibile, che nauseassero persino noi. Però, in qualche modo, ci fecero sentire meglio. Noi eravamo macchine, ma non mostri. Fosti tu a dimostrarcelo. Tu eri la nostra consolazione. Qualunque cosa fossimo diventati, c’era qualcuno che era peggio di noi. — Guardò l’americano e, dal profondo della sedia, sorrise. — Tu ci hai fatto sentire di nuovo esseri umani.
Oberg bisbigliò qualcosa tra i denti, parole incomprensibili. Ng avvertì una breve, nitida ondata di felicità. Era la sua rivincita. — Se ne sono andati ormai da parecchio tempo — disse, riferendosi ai tre americani. Sentì svanire parte della sua lucidità, ma ormai non aveva più importanza. Aveva detto tutto ciò che voleva dire. — Non li troverai. È troppo tardi per trovarli.
Chiuse gli occhi e respirò a fondo, cercando di ignorare il dolore.
Oberg si girò verso Andreazza. — Uccidetelo — comandò a denti stretti. — Uccidete questo figlio di puttana dagli occhi a mandorla.
— C’è tempo — rispose Andreazza.
La sera prima di lasciare Pau Seco, Oberg raggiunse a piedi la collina che dominava la città vecchia, dove Ng era stato appeso a una forca come monito per le formigas.
C’era vento e il cielo era coperto di nubi. Il corpo di Ng girava su se stesso, appeso al proprio perno di corda. La morte lo aveva reso gonfio e Oberg riconosceva a stento in quella carcassa deforme l’uomo che gli aveva tenuto testa nella stanza degli interrogatori. Si lasciò sfuggire un mormorio di soddisfazione, un brivido di trionfo.
Il vietnamita aveva tenuto duro altri tre giorni, prima di confessare. E la confessione che aveva reso era risultata del tutto inutile. Oberg aveva saputo il nome della formiga che aveva fornito la pietra, Morelles o Meirelles, ma costui si era volatizzato insieme al denaro e ormai si trovava al sicuro in chissà quale quartiere industriale. Impossibile rintracciarlo. Raymond Keller, Byron Ostler e la donna di nome Teresa Rafael erano arrivati a Sinop su un furgone dell’eletronorte, così aveva affermato Ng. Dopodiché erano scomparsi. In direzione est, sospettava Oberg. Ma non c’era modo di confermare quei sospetti, a meno che loro non cedessero alla tentazione di usare le carte di credito per pagare chi li avesse aiutati a uscire dal paese.
Fino a quel momento, l’unico mezzo per trovarli era l’inseguimento. Bisognava partire da Sinop e seguire le loro tracce, dovunque portassero. Un compito noioso e poco gratificante, ma Oberg non era tipo da lasciarsi spaventare.
La collina desolata, con il suo carico di morte, lo fece sentire a disagio. Guardò la faccia insolente di Ng e fu di colpo assalito dalla paura che quegli occhi potessero aprirsi di nuovo e che quella bocca ricominciasse a parlare; che Ng si liberasse con un salto per sputargli addosso, qualche nuova odiosa accusa.
Era assurdo, naturalmente. I morti non dicono ciò che sanno. Doveva averlo detto qualcuno. Qualcuno che non gli importava ricordare.
Il cadavere continuava a muoversi, nel mare di vento proveniente dal Mato Grosso. Oberg rabbrividì e volse la schiena. Era disgustoso, pensò. Primitivo e incivile. Avrebbero dovuto seppellire i morti. Se non altro, per un minimo di decenza.