Descrissero un arco oltre la curvatura della Terra in un volo istantaneo, brevemente orbitante, della AeroBrazil. Ma la parte impegnativa del viaggio non era quella, pensò Keller, quanto piuttosto il trasferimento verso l’interno, verso il cuore del Bacino e la miniera di Pau Seco, verso il passato. Seguendo la traiettoria di atterraggio si chiese se non fosse stata qualche spinta latente a condurlo fin lì, magari proprio l’antico ossessivo scavare della mente negli abissi della memoria.
La ruota, aveva detto Byron. Era un pensiero sgradito e persistente.
L’aereo si inclinò in virata verso le piste galleggianti della Baia di Guanabara, oltre la statua logora e solitaria del Cristo Salvatore, sulla montagna del Corcovado. L’ultima volta che era stato da quelle parti, Keller era un coscritto di diciannove anni e guidava un mezzo di trasporto militare. La statua che dominava la cima della montagna era stato il primo segnale dell’ingresso in un territorio straniero. Il Cristo, esposto alle intemperie, aveva occhi di granito dall’espressione assente e le mani alzate a benedire in silenzio una città grande come il cerchio dell’orizzonte. Vedendola di nuovo, Keller sentì le dita irrigidirsi sui braccioli del sedile. Un tempo aveva giurato che se fosse riuscito ad andarsene da quel paese non vi avrebbe mai più rimesso piede… Un’antica e fervida promessa che echeggiava, carica d’ironia, nel rombo del velivolo che li trasportava.
— Vi sentite bene? — chiese Teresa, e lui si sforzò di an’nuire.
— Benissimo — rispose, pensando al wu-nien, astraendosi, ritirandosi nei meandri gelidi della sua volontaria indifferenza, per trovare un rifugio.
Dovettero attendere la notte per il volo di collegamento con la capitale. Byron, molto prodigo grazie alle carte di credito di Wexler, aveva prenotato una suite in uno degli alberghi color avorio che si affacciavano sulla baia. — Solo il meglio — disse. Ma Keller aveva fissato la propria attenzione sul profilo di Teresa, che guardava avanti attraverso il finestrino dell’autobus.
L’immagine si avvolgeva nella memoria AV, ma sarebbe stata in gran parte inutilizzabile per l’esito finale: troppo banale e scarsamente drammatica. Inoltre, nell’ultima versione, Teresa sarebbe diventata una sconosciuta, con i lineamenti alterati per impedire il riconoscimento e proteggere le fonti d’informazione. A modo suo, Keller era un giornalista silenzioso, e capiva la necessità di interpretare, di estrarre il reale significato dalla miniera dell’esperienza diretta. Eppure, il prodotto finito non mancava mai di sorprenderlo. Gli era successo anche l’ultima volta che aveva lavorato per la Rete, all’epoca del reportage sul sottosuolo della droga. Aveva passato tre mesi negli ospedali, nelle baracche, nei buchi più squallidi della Città Galleggiante. Aveva imparato a conoscere quei disgraziati, per lo più maschi e veterani di guerra, che avevano sconvolto i centri più profondi del proprio cervello e che ora si consumavano lentamente, come candele di cera, ai margini della città. Pensava spesso che la fase finale di quella terribile dipendenza, che lui aveva visto da vicino, avrebbe sicuramente fuso i fili che aveva in testa, sovraccaricato i circuiti o fatto saltare la memoria. In realtà aveva solo verificato i limiti del suo wu-nien, l’allenamento insegnatogli dall’esercito. Forse si era preoccupato troppo per quella gente la cui morte era ormai inevitabile.
Il documentario era stato successivamente programmato in tempo reale, registrando una buona percentuale di ascolto in tutte le città costiere del Pacifico. Venne inserito tra statistiche, interviste e commenti pietosi. Non fu usato a fini di lucro e Keller ne era rimasto abbastanza soddisfatto. Tuttavia si era accorto di come gli avvenimenti vissuti perdessero la loro forza drammatica, una volta inscatolati in uno schermo. Persino i decessi di cui era stato testimone, registrati in esperienza diretta ma intensificati e ripuliti per il taglio finale, diventavano squallidi e in qualche modo inevitabili, una conseguenza logica dello schematico fluire degli eventi.
Il fatto aveva messo a dura prova la sua fede. Fede non era un termine eccessivo, pensò. Lui credeva in ciò che faceva, non era cinico a proposito del proprio lavoro. Il documentario aveva dato nuovo vigore alla richiesta di cliniche per la riabilitazione sovvenzionate dallo stato, e la loro realizzazione aveva salvato parecchie vite umane. Keller credeva nella propria obiettività, nella propria capacità di diventare un testimone spassionato. E credeva che questo fosse importante.
E poi, di fronte a simili orrori, non diventava mostruosa anche l’assoluta obiettività?
Ne aveva parlato con Byron, dopo la trasmissione del documentario. — Le hai dato una nuova dignità — aveva commentato l’amico — con tutte quelle belle parole. La faccenda dello Zen degli Angeli che ti hanno insegnato a Santarem, eccetera. Ma forse non è così. Forse è un effetto secondario dell’imbrigliamento cerebrale. Un effetto di appiattimento. Forse non sai più come si fa a provare interesse per qualcuno o qualcosa. Puoi solo pisciare, lamentandoti perché non sai se ti fa piacere. O forse si tratta d’altro.
— Di che cosa?
Byron aveva esitato. — Di paura — aveva detto, alla fine. — Vigliaccheria.
No, pensò Keller.
Avrebbe tenuto testa anche a quello, ed era l’importante. Il guaio era che alcune cose sembravano addirittura troppo terribili da sopportare. Bisognava distogliere lo sguardo, ecco la verità. E se non era possibile, bisognava imparare a guardare in modo assolutamente automatico.
Vedere senza desiderare. Lo specchio perfetto.
Salirono in ascensore fino alla loro camera e Byron premette il pollice contro la serratura. Attraverso la finestra Keller dovette confrontarsi ancora una volta con l’immagine del Cristo sulla montagna, stagliata contro uno spicchio azzurro di mare.
Questo paese ti ha generato, sembrava dire la statua. Questo paese è tuo padre e tua madre.
Teresa si avvicinò alla finestra, togliendogli la visuale. — Stiamo perdendo tempo — commentò. — Avremmo dovuto partire subito per la capitale.
— Siamo turisti — replicò Byron. — Che importa un giorno o due di ritardo?
— Lo sento — disse lei, con lo sguardo remoto. — Sembra assurdo, vero? Ma sento che Pau Seco si trova laggiù. Il luogo da dove provengono le pietre. Il luogo dove sono rimaste sepolte per tutti questi secoli. — Tradì un brivido lieve e involontario. — Voglio andarci.
— Verrai accontentata anche troppo presto — ribatté Byron.
Keller annuì, un po’ a disagio suo malgrado. Anche troppo presto, pensò.
Presero un volo nazionale fino a Brasilia.
Finalmente erano nell’interno, nella vecchia città bianca come i pezzi di una scacchiera, battuta dai venti del planalto, disposta come un’isola in un mare di povertà e di foresta. Da due decenni un fiume di valuta forte si riversava sulla capitale, e benché non fosse servito in alcun modo ad alleviare lo squallore dei quartieri malfamati e delle città dormitorio, aveva almeno fruttato il restauro e la pulizia dell’antico paesaggio, testimone della visione severa che il secolo passato aveva del futuro. L’industria principale di Brasilia era il governo: tutti gli edifici erano edifici governativi.
Per alcuni giorni vissero come turisti in un altro grande albergo. Colazione nella Continental Lounge e bagni di sole nei giardini della terrazza all’ultimo piano. Keller, pur senza volere, si scoprì spesso a guardare Teresa. Lei passava molto tempo in piscina, come se le ricordasse la sua casa nella Città Galleggiante o chissà dove oltre l’oceano. Si muoveva nell’acqua con grazia distratta. Eppure c’era in lei qualcosa di vigile, di cupo e ardente. Lui pensò a tutto il tempo che doveva aver passato con gli oneiroliti, prodotti di un mondo lontano e sconosciuto. Forse un po’ del loro mistero aveva contagiato anche lei.
La guardò. Sapeva bene che anche Byron la stava guardando.
Il terzo giorno presero un autobus per andare in centro e salirono in ascensore lungo la bianca torre di vetro del palazzo SUDAM, la monolitica Sovrintendenza del Rio delle Amazzoni, l’organismo che controllava lo sviluppo dell’immenso entroterra brasiliano. Byron aveva ottenuto da Cruz Wexler il nome di un burocrate della SUDAM suo amico, un certo Augusto Oliveira. La segretaria di Oliveira caricò i loro documenti di identità nell’elaboratore elettronico e in un inglese privo di inflessioni chiese se, per favore, potevano attendere. Il signor Oliveira era in riunione.
Attesero per quasi tutta la mattina, in quell’ufficio elegante e implacabilmente luminoso. Durante la guerra Keller aveva imparato ad arrangiarsi con il portoghese, così passò un po’ di tempo a decifrare la targhetta sulla porta. Per quel che riuscì a capire, quello era il DIPARTIMENTO CARTOGRAFICO, MINERARIO E DOCUMENTALE. Oliveira si decise a riceverli poco dopo mezzogiorno. Il suo ufficio personale era un santuario di vetri a parete e di schedari metallici grandi e piatti. Fuori, una schiera di nuvole cumuliformi incrociava al largo delle antenne paraboliche sparse sulla cima dei vecchi edifici candidi.
Oliveira li invitò a sedere con un cenno della mano e li fissò con distacco. Byron si schiarì la gola. — Ci manda Cruz Wexler — disse. — Ha detto che voi potreste farci avere…
Oliveira prese un’aria afflitta. — Per favore — lo interruppe. — Non fate quel nome qui. Non ho nessun contatto con Cruz Wexler. — Poi aggiunse: — So bene chi siete.
— Vogliamo andare a Pau Seco — tagliò corto Byron. — Il resto non ci interessa.
— Tutti vogliono andare a Pau Seco. Si capisce. Pau Seco.
— È possibile?
— Forse. — Oliveira incrociò le mani dietro la schiena. — Volete la proprietà di un lotto, è così? Volete scavare nel fango? Diventare garimpeiros?
— Vogliamo solo visitare il posto — precisò Byron, rigido.
— Le visite sono rare a Pau Seco. I giornalisti sono interdetti. Gli stranieri sono pochissimi. Chiedete davvero molto.
— Wexler ci aveva detto… — Byron si interruppe, arrossendo. — Ci è stato detto che era possibile.
— Possibile, ma pericoloso.
Oliveira si agitò dietro la scrivania, schiacciò il pulsante dell’interfono e disse qualcosa alla segretaria, in portoghese. Nella stanza scese un silenzio di tomba. Byron incrociò le braccia e si appoggiò all’indietro, con espressione torva. Oliveira si guardò intorno con calma. Keller capì che il burocrate stava gustando il loro disagio. Di rimando, lo fissò intensamente: la ripresa sarebbe senz’altro servita alla Rete, come supporto a qualche servizio sulla corruzione di ufficiali governativi.
Oliveira continuò a guardarli in silenzio finché la segretaria non li raggiunse con il cafezinho: caffè denso e fragrante in una tazzina poco più grande di un ditale. Lui la bevve d’un fiato.
— Che cosa sapete di Pau Seco? — chiese infine.
— È la miniera da dove provengono gli oneiroliti — rispose Teresa
— È un buco nella giungla — la corresse Oliveira. — Un buco dove trentamila uomini stanno cercando di arricchirsi. È anche un’area protetta dal servizio di sicurezza nazionale e retta dai militari. Vi convivono anarchia e legge marziale. Ecco, guardate.
Schiacciò un tasto. Keller si sporse in avanti: la superficie della scrivania era diventata una cartina topografica, con linee di contorno nere in un campo azzurro elettrico.
— La miniera di Pau Seco — disse Oliveira.
La scala era immensa.
— Funziona come funzionavano le vecchie miniere d’oro della Sierra Pelada. Negli anni Venti le potenze straniere riuscirono rapidamente a intromettersi, capite? La terra venne accuratamente studiata e si fecero interferografie sofisticate del suolo. Ma alla fine il Brasile prevalse, grazie alle antiche leggi sui diritti minerari. — La luce dello schermo a cristalli liquidi giocò sulle curve poco marcate del viso del funzionario. Con espressione assorta, lui passò la mano sul piano della scrivania. — Questa è la zona dove compaiono i depositi esotici. Tutta questa, vedete? Venticinque chilometri quadrati di fango e argilla, progressivamente meno ricchi a partire dal cuore del deposito, che si trova qui. Il governo distribuisce la terra in lotti di quattro metri quadrati. Per un breve periodo, molti anni fa, i lotti si vendevano a buon mercato. Ora sono messi all’asta. Nessuno può acquistarne più di uno e il lotto deve essere lavorato direttamente dal proprietario. È possibile che non produca nulla ma, in compenso, anche una pietra minuscola vale almeno trecento milioni di cruzeiros. — Si strinse nelle spalle. — Un giorno, tutto questo potrebbe finire. Magari si riuscirà a decifrare il decifrabile da questi oggetti. I segreti dell’universo, chissà. E allora Pau Seco tornerà a far parte della giungla, e i garimpeiros se ne andranno tutti a casa. Forse quel giorno è vicino. Ma non è ancora arrivato. Ogni pietra dissepolta diffonde una nuova luce, rivela un particolare in più del mosaico. Naturalmente, una volta che i dati sono stati estratti, la pietra perde il suo enorme valore; può essere duplicata e magari rivenduta al mercato nero come droga. — Guardò Byron e sorrise. — Ma io non voglio saperne nulla. A Pau Seco il governo compera le pietre dai garimpeiros e trattiene una percentuale sul loro valore di mercato. Gli oneiroliti non possono essere venduti o commerciati privatamente. Il prezzo che offriamo è competitivo e… ci sono i militari a impedire il contrabbando.
Gli occhi di Teresa erano fissi sulla cartina. — Abbiamo bisogno di un permesso per entrare — disse in tono contrito.
— Per entrare! Se andate a Pau Seco avrete bisogno di un permesso per mangiare, per dormire e anche per pisciare…
— Potete procurarci questi permessi?
Oliveira diventò quasi arrogante. — È già tutto a posto. — Agitò una mano, per dire che era una sciocchezza. — Ma voglio che siate preparati. Non ci sono alberghi, a Pau Seco, è chiaro? Ci sono solo fango, merda e malattie. Sono parole che conoscete? Potreste sporcarvi.
— Non sarebbe la prima volta — commentò Byron.
Oliveira spense la cartina sulla scrivania. L’azzurro elettrico svanì. — No — replicò. — Lo avevo immaginato.
All’uscita, la segretaria consegnò loro i documenti, fascicoli spessi di carta marrone con lo stemma della SUDAM sbalzato su ciascun foglio.
— Grazie per la vostra pazienza — disse in tono educato.