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Quando fu certo che gli americani avevano lasciato Brasilia, Stephen Oberg si imbarcò su un volo della SUDAM destinato a raggiungere direttamente Pau Seco.

Gli bastò far vedere il tesserino dell’Organizzazione. In genere, la SUDAM e il governo brasiliano erano sempre disposti a collaborare. In teoria, secondo il documento, Oberg era un impiegato civile della DEA, ma considerate le vistose fusioni di agenzie federali negli anni Trenta, ogni distinzione era diventata ormai priva di senso. Il suo immediato superiore era un burocrate della NSA, momentaneamente impiegato nel settore sicurezza, e di fronte all’Ambasciata era lui che rispondeva delle sue azioni.

Il velivolo era affollato di guardie di pace in uniforme verde pisello, che parlavano tra loro con l’accento dell’Ariguaia Valley e sembravano non far caso all’oceano di foreste sotto di loro. Oberg appoggiò la testa sul cuscino e fece finta di dormire. Pesava quasi novanta chili; il vestito grigio gli conferiva un aspetto massiccio e lui era un pensatore lento ma metodico. Non era solito alle crisi di nervi, ma doveva ammettere che il Brasile lo rendeva un po’ inquieto.

Avrebbero dovuto esserci dei cambiamenti. Aveva già tentato di farlo presente alle alte sfere dell’Organizzazione e ai funzionari di governo a cui era stato presentato nel suo breve periodo di permanenza in loco. Per anni, l’estrazione delle pietre di Pau Seco era stata una faccenda relativamente casuale; il contrabbando si verificava soprattutto negli istituti di ricerca americani e negli stati asiatici, dove la tentazione di duplicare gli oneiroliti era più facile da soddisfare. Il contrabbando a Pau Seco era di per sé problematico, e per un bel po’ di tempo non c’erano state buone ragioni per tentarlo. Il Blocco Orientale aveva fatto sentire periodicamente la propria presenza, ma questo era prevedibile; e anche tollerato, entro certi limiti. Esigenze dell’equilibrio di potere. Ma i tempi erano cambiati.

Oberg era stato negli istituti di ricerca governativi in Virginia, quando vi erano giunti i primi esemplari delle nuove pietre, l’anno precedente. Da un punto di vista tecnico, gli aveva detto il capo della squadra di ricerca, le nuove pietre erano più "raggiungibili", si interfacciavano meglio con i programmi criptoanalitici contenuti nei cervelli elettronici del laboratorio. — Stiamo decodificando una quantità di materiale — aveva continuato lo studioso. — Ci si trova di tutto, basta chiedere. È come un’enciclopedia. Un’enciclopedia infinita. Ma gli effetti sui volontari umani…

— Sono diverse? — aveva chiesto Oberg.

— Generano forti idiosincrasie. È molto strano. Dovreste vedere di persona.

E così Oberg, l’inviato dell’Organizzazione, aveva seguito il loquace studioso lungo un corridoio fino alle stanze dalle pareti color pastello dov’erano alloggiati i volontari umani. Anche questo aspetto era essenziale per le ricerche, aveva detto la sua guida, e Oberg se n’era sentito vagamente nauseato. C’erano dei dati, purtroppo, a cui non era possibile accedere tramite i computer, ma solo attraverso la mente umana. Tutto ciò che si sapeva sugli Esotici aveva seguito quel particolare percorso. Era gente dalla pelle azzurra che abitava, o aveva abitato, un piccolo pianeta di una stella lontana. Con l’aiuto dei volontari umani si era raggiunta una conoscenza schematica del loro linguaggio e della loro antropologia. Ma erano testimonianze sporadiche, spesso contraddittorie, inquinate da sogni e desideri. Le escrescenze di una mente umana.

Il suo volontario era un uomo di nome Tavitch. Come la maggior parte delle cavie, proveniva dalla prigione federale di Vacaville. Era un uomo di mezza età che parlava in tono pacato, che aveva ucciso la moglie e i due figli una settimana dopo aver perso il proprio lavoro come direttore di un archivio elettronico. Aveva scelto il volontariato nei laboratori della Virginia, in alternativa all’amigdalectomia. I suoi occhi erano umidi e grandi, l’espressione leggermente insolente. Teneva in mano uno dei nuovi oneiroliti di profondità.

— La prima volta che l’ha toccato è praticamente caduto in stato comatoso — spiegò il capo della squadra di ricerca. — Con rotazione oculare e una specie di ipermnesia traumatica. Ma adesso è relativamente lucido.

Oberg incrociò le braccia in atteggiamento paziente: — Signor Tavitch? Mi sentite?

L’uomo alzò lo sguardo, ma la sua espressione era preoccupata.

— Che cosa state vedendo, signor Tavitch?

Ci fu una lunga pausa. — Il tempo — rispose alla fine. — La storia.

Era innaturale, inquietante. Oberg guardò il capo della squadra di ricerca, che si strinse nelle spalle e gli fece cenno di continuare.

Oberg sospirò tra sé. — La storia — ripeté. — La nostra storia?

— Sì, la nostra — confermò Tavitch. — E anche la loro. La nostra è più recente. Oh, come splende! Dovreste vederla. È come un fiume. Un fiume dorato di vite. Milioni e milioni, che svaniscono negli anni. — I suoi occhi erano vitrei e pazienti. — Sono tutti là dentro…

— Chi?

— Tutti — rispose Tavitch.

— Tutti?

— I morti — precisò l’altro con calma. — Vite intrecciate come stringhe. Ci sono anche i vivi, più simili a delle micce accese.

Oberg non aveva potuto fare a meno di rabbrividire. Era la repulsione istintiva e inevitabile che avvertiva per quella stanza. Un senso di contaminazione. La gente credeva che gli oneiroliti fossero stati addomesticati, che la loro natura aliena fosse stata vinta dalla familiarità. Lui non condivideva l’idea. Le pietre erano il prodotto di un’intelligenza profondamente lontana e dissonante rispetto a quella umana: per capirlo bastava guardare il loro splendore oleoso, l’illusione della profondità. Apparecchi di pietra, pensò. Vita minerale. Lo facevano sentire a disagio.

— Ci sono anche loro - continuò Tavitch, e la sua voce discese di un tono.

— Chi, signor Tavitch?

— Alma. Peter. Angela. — La faccia del galeotto parve come sgonfiarsi dall’interno. Oberg ne rimase sbalordito. Per un attimo temette che l’uomo si mettesse a piangere. Tavitch l’assassino, che non aveva mai mostrato il minimo rimorso. — Vogliono capire — proseguì il volontario — ma non ci riescono… non possono…

Oberg abbandonò la stanza, disgustato.

Alma, Peter, Angela.

Erano la famiglia di Tavitch. Le persone che aveva ucciso.


Più tardi, mentre pranzavano nella mensa asettica del personale, il capo della squadra di ricerca cercò di spazzar via la brutta impressione lasciata dall’episodio. — Voi capite, qui lavoriamo con soggetti particolari. Criminali. Assassini, come Tavitch. Di conseguenza il lavoro presenta un certo vizio di forma. La ricerca convenzionale non ci ha ancora fornito le risposte che cerchiamo; in pratica, non siamo più vicini a comprendere chi siano i cosiddetti Esotici, o in che modo gli oneiroliti interagiscano con la mente, di quanto non lo fossimo quindici anni fa.

— È assurdo — commentò Oberg. — Mostruoso.

Lo studioso sbatté le ciglia. — Capisco la vostra delusione, signor Oberg. Suggerisco solo un po’ di tolleranza. Di pazienza. Considerate le cose dal nostro punto di vista: quello che ci interessa sopra ogni cosa è la comunicazione. E la comunicazione è esattamente ciò che si è verificato, in un modo o nell’altro, in quella stanza con Tavitch. Esiste un pregiudizio contro ciò che viene chiamata "l’interfaccia umana", l’effetto dell’oneirolita sulla mente dell’uomo. Ebbene, è ovvio che si tratta di uno studio difficile. L’effetto è soggettivo, non si può misurarlo o calibrarlo. È per questo che conduciamo ricerche limitate, e che siamo costretti a contendere i fondi a gruppi di studio che ottengono maggiori e più tangibili risultati. Capite dove voglio arrivare? So bene che avete riportato un’impressione negativa di ciò che è successo oggi, ma non vorrei che questo influenzasse negativamente il proseguimento del nostro lavoro.

Dunque, tutto si riduceva a quello, pensò Oberg. La carriera di quell’uomo. — Non sono io a decidere la destinazione dei fondi.

— Voi avete influenza.

— Poca.

— Sentite, io sono convinto che stiamo svolgendo un lavoro importante, se non addirittura vitale, con queste nuove pietre. Nessuno vuole prendere in considerazione la cosa, signor Oberg, ma forse il messaggio che questi Esotici volevano lasciarci non è strettamente linguistico. Forse è preverbale. Forse opera a livello dell’intuizione, dell’emozione… o della memoria.

La memoria. Che cosa aveva detto Tavitch? Qualcosa a proposito della storia. E il capo della squadra di ricerca aveva parlato di ipermnesia, un involontario ripescamento del passato. Per Oberg tutto ciò aveva un’aria sinistra. Il passato era passato, fungeva da sepolcro, da tomba degli eventi, ed era meglio così. Ciò che si era fatto rimaneva dietro le spalle. L’ipermnesia, pensò, la "storia" di Tavitch, era solo una luce proiettata su luoghi che, di diritto, avrebbero dovuto essere oscuri, nascosti, sepolti.

Per un attimo, sperimentò un’ondata di ciò che gli psicologi dell’esercito chiamavano "depersonalizzazione", un senso di distacco da se stesso, una frattura. Per una frazione di secondo capì che l’orrore provato per le pietre aliene poteva essere puramente personale, una patologia, un disgusto di sé così profondo come quello dimostrato da Tavitch poche ore prima. Una fobia della memoria. Fissò il volto pallido e mite dell’uomo che gli sedeva di fronte e pensò: se tu avessi visto ciò che ho visto io… se tu avessi fatto le cose che ho fatto io…

Ma era una progressione logica che non poteva permettersi, e la scacciò dalla mente. Gli oneiroliti erano il Male. Non esisteva altra possibilità.

— Tentavo solo di chiarire la nostra posizione — disse il capo della squadra di ricerca.

— Capisco — replicò Oberg.


Emerse dal ricordo come da un brutto sogno.

In quel momento l’aereo descriveva un ampio cerchio, mentre il cielo cominciava a schiarirsi. Le guardie di pace erano quasi tutte addormentate. Oberg ebbe la sensazione di sentirla avvicinare, come la fonte di un virus, il centro di un’infezione. L’analogia gli sembrava molto appropriata. Prosperava come un virus, si insinuava nel corpo, o meglio nella mente, proprio come un virus. E, sempre come un virus, aveva i propri scopi. Che contrastavano con quelli umani.

Sbirciò fuori dal finestrino e osservò la polvere di Pau Seco, un velo pallido nella luce del mattino, alzarsi da un canyon nella giungla.

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