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Keller contattò Vasquez, il produttore della Rete, e ottenne un congnio versamento su uno dei suoi conti fantasma. Vasquez gli fornì anche dei documenti temporanei e il lasciapassare per gli studi di decodificazione, nel settore tecnico della Rete. — Fate in fretta — lo esortò il produttore. — Il tempo stringe. È un buon reportage?

Keller ripensò a Pau Seco, alla miniera e alla città vecchia, ai bar e ai bordelli. Annuì.

— Bene — approvò Vasquez. — Vi ho già fissato l’appuntamento con Leiberman.

Leiberman, il neurochirurgo della Rete, estrasse il microcircuito e chiuse il foro con del materiale adesivo. Nel giro di un mese non sarebbe rimasta nemmeno la cicatrice. — Ecco fatto — commentò poi in tono altezzoso.

— Tornate a essere soltanto un uomo, anche questa volta. — Porse a Keller la memoria, racchiusa in minuscolo contenitore trasparente. Sembrava un oggettino da niente, quasi come un dente appena estratto.

Keller andò direttamente negli studi della Rete, presentò il nuovo documento di identificazione alla macchina nell’ingresso e richiese una cabina di montaggio. Gli studi tecnici erano disseminati su un’ampia area di deserto a ovest di Barstow, con edifici prefabbricati in muratura e una schiera di antenne paraboliche puntate verso i cieli del sud. Vi lavorava un gruppo di tecnici fissi della Rete, ma la maggior parte delle persone che andavano e venivano erano giornalisti indipendenti. Secondo il nuovo documento di identificazione, Keller era uno di loro.

La cabina che gli venne assegnata era una stanzetta angusta, traboccante di monitor e di apparecchi per il missaggio. Keller infilò la memoria nella presa di una macchina, le diede un nome e la fornì di un codice d’accesso. Si mise in grembo la tastiera e appoggiò i piedi su un mixer.

Premette il tasto con la scritta tempo.

Il monitor rispose subito. Quarantun giorni, ventotto minuti e quindici secondi da quando la memoria era stata attivata. Lui si sentì vagamente sorpreso, credeva che fosse passato più tempo.

Istruì il programma affinché inserisse un segnale ogni ventiquattro ore esatte di registrazione, e poi dividesse le giornate in ore. La chiamò "procedura di riordino". Inserì segnali speciali al Settimo Giorno (ARRIVO A RIO), al Quindicesimo Giorno (ARRIVO A PAU SECO) e al Venticinquesimo Giorno (ARRIVO A BELEM). Nel caso si fosse rivelato necessario, ne avrebbe inseriti altri; intanto bastavano quelli fondamentali, una specie di indice schematico. Ora poteva scegliere un’ora o un giorno in particolare e rintracciarli all’istante per inserirli nella struttura di memoria destinata a costituire il servizio completo, da consegnare nelle mani di Vasquez.

Prima, comunque, era meglio prendere qualche precauzione. Keller richiamò il programma di Protezione dell’Identità, poi fece scorrere rapidamente il Secondo Giorno fino a trovare un’immagine completa di Byron Ostler.

Il monitor centrale da trenta pollici mostrava Byron in piedi di fronte alla sua grossa balsa scalcinata nel cuore della Città Galleggiante. Keller fissò l’immagine, ne avvicinò il viso con lo zoom e schiacciò il tasto di CORREZIONE. Il volto di Byron fu immediatamente sostituito dal suo spettro in linee topografiche contro uno sfondo luminoso, color ambra.

Keller si servì della matita apposita per alterare i lineamenti. Alzò gli zigomi, strinse il mento. Fece ruotare l’immagine e modificò anche il profilo. Richiamò l’immagine normale e si vide di nuovo Byron di fronte alla balsa. Solo che non era più Byron. La sua faccia non aveva niente di familiare. Era un uomo più vecchio, tarchiato, simile a uno sparviero. Aveva un viso anonimo, né buono né cattivo. Keller premette il tasto con la scritta TRATTENERE. L’immagine originale non sarebbe mai apparsa nel prodotto finito.

Poi richiamò la figura di Teresa.

Questa seconda operazione fu più dolorosa. Rivederla risvegliò in lui vecchie sensazioni, un desiderio che faticava ancora a reprimere. Lei attraversò il monitor, guardandolo.

Non sopporto l’idea di fare questo viaggio con qualcuno di cui non mi fido… L’unica arma che ho a disposizione è l’intuito, capite?

La sua voce riempì la cabina. Una reincarnazione a sedici bit della traccia che lui aveva registrato nel microcircuito. Sembrò quasi che Teresa uscisse dallo schermo per fissarlo negli occhi. Keller schiacciò in modo convulso il tasto di CORREZIONE.

Lei divenne una rete di linee, una geografia confusa.

Meglio così.

Sudando, alterò le linee con la matita. Appiattì la bocca, arrotondò il naso, accorciò i capelli. Lavorò quasi senza pensare, con gli occhi socchiusi. Wu-nien. Bastava imporsi di restare indifferente.

Spinto dalla necessità di proteggere le proprie fonti eseguì simili alterazioni anche su Ng e Meirelles, per preservarli da eventuali pericoli, poi si spinse avanti per esaminare la parte più significativa del reportage, quella a cui Vasquez era interessato. La parte registrata a Pau Seco.

Sedicesimo Giorno. L’inquadratura risultò mossa mentre lui scendeva dall’autocarro di Ng. FERMARE L’IMMAGINE E RIPULIRE, batté sulla tastiera, poi tornò indietro. Questa volta l’immagine risultò nitida ed efficace. La polvere gli era andata negli occhi, annebbiandogli la vista, RIPULIRE, batté Keller. E la polvere svanì. Il reportage cominciava a prendere forma. Si vide il bordo della miniera e infine iniziò una lenta panoramica sulle sue viscere. AUDIO, batté Keller.

Il suono comparve all’istante. Un fragore di antichi strumenti metallici. Voci che risuonavano da un’altura all’altra. Abissi di tempo. Formigas che si spostavano in fila indiana su distese di argilla e scale di corda. Poteva essere una scena del passato, del presente o del futuro. Keller allungò la mano per prendere il dispositivo di comando della dissolvenza e urtò per caso la manopola del volume. Il fragore di voci e di strumenti si alzò all’improvviso di tono, diventando assordante. Lui batté le palpebre guardando il monitor e per un istante ebbe quasi la sensazione di essere precipitato nel passato, di essere tornato chissà come a Pau Seco e per un attimo pensò che forse, voltandosi, avrebbe scorto Teresa venire verso di lui.

Schiacciò il tasto ENTER.

Il monitor si svuotò. La cabina si riempì di silenzio.


Quando non ne poté più di lavorare, timbrò per uscire e diresse la macchina a ovest. Aveva usato parte dell’anticipo avuto da Vasquez per affittare una stanza d’albergo, ma non aveva voglia di rientrare. Seguì una lunga arteria sopraelevata per il traffico veloce fino a raggiungere la linea costiera, poi girò a nord. Alla sua sinistra, la Città Galleggiante si stendeva fino alla lontana linea grigia della diga di marea. Attraversò rioni satellite e avamposti della cintura urbana, oasi alberate e zone industriali. Aveva già percorso parecchi chilometri quando capì dove si stava dirigendo.

Cattiva idea, pensò. Solo un pessimo impulso poteva averlo condotto fin lì: il peccato degli Angeli. Ma uscì dalla superstrada non appena scorse l’insegna.

ARTE DI MARE. Lei gli aveva fatto quel nome, una volta. Molto tempo prima.

Non era la galleria migliore, e nemmeno la più nuova. Le pareti di bambù erano fissate su una base di cemento ormai crepata e il tetto era coperto di tegole spagnole di un rosso gessoso. Non appena la spinse, la porta azionò un campanello. All’interno, un pavimento di legno deformato dal tempo sosteneva scaffali e vetrinette di vetro spesso e a prova d’urto che gli anni avevano tinto di grigio.

I lavori esposti, a giudizio di Keller, non mostravano grande originalità, ma provenivano sicuramente dalla Città Galleggiante. Intagli su gesso, collages metallici, qualche dipinto su cristallo, piuttosto caro e sotto vetro. Keller si soffermò a osservare un paesaggio stilizzato, evidentemente ispirato al mondo degli Esotici, con colline a panettone sotto un cielo azzurro e case a pagoda raggruppate in primo piano. Un posto reale, magari, un brandello di vita esotica strappato al tempo.

Stava ancora osservandolo quando la proprietaria sbucò da una tenda sul retro del negozio.

Era una donna grassa, con i capelli grigi e un’ampia gonna dai colori tenui. Lo guardò con grande sospetto.

— Desiderate qualcosa in particolare?

— Sì — rispose lui. — I pezzi di un’artista che ha lavorato per voi. Si chiama Teresa… Teresa Rafael.

La donna lo guardò con più attenzione, scrutandogli il volto e i vestiti. — No — disse alla fine. — Non abbiamo nulla.

Keller tolse di tasca la carta di credito del Pacifico, una tesserina color oro procuratagli da Vasquez. In realtà il suo accredito era molto limitato, ma la tessera in sé faceva colpo. La mise sul bancone. La donna passò il dito sul microcircuito incorporato. — Teresa non espone qui da molti anni — spiegò. — I suoi lavori hanno raggiunto buone quotazioni, capite? Ora ha un’ottima reputazione. Un futuro.

— Capisco.

La donna si passò la lingua sulle labbra. — Venite nel retro — propose.

Lui la seguì oltre la tenda. Nella stanza, più piccola della prima, c’erano una dozzina di pezzi. Tutti "d’autore", come Keller non tardò a capire. Tra i commercianti d’arte era pratica comune trattenere i lavori dei principianti che mostravano di avere del talento. Ma lui riconobbe subito quelli di Teresa. — Questi sono i suoi lavori iniziali — disse la donna, con sussiego.

All’epoca doveva essere ancora una bambina, pensò Keller. Ne rimase colpito. Alcuni erano goffi, ma nessuno banale.

Tre o quattro manifestavano già le qualità e la passione che le avrebbero fatto guadagnare il successo. Per la maggior parte erano sculture realizzate con materiale di scarto, composizioni fatte di tubi, fili di rame e scampoli metallici recuperati dalle vecchie fabbriche distrutte dall’incendio. Lei aveva lucidato e dato forma a quel materiale fino a farlo diventare una cosa viva, più liquida che solida.

— Vi intendete di questo genere di opere?

— No… non proprio.

Sotto lo sguardo allarmato della donna, Keller prese in mano una delle sculture e la esaminò. Dal groviglio metallico emergeva l’immagine di un viso. Forse due. Lui ruotò il pezzo tra le dita.

Un volto di donna, dall’aspetto desolato, ma stranamente infantile nella sua tristezza.

E un viso di bimba, con un’espressione adulta di fiera determinazione.

La gallerista gliela tolse di mano. Keller trasalì e frenò l’impulso di riprendersela. Lei disse una cifra, che corrispondeva più o meno alla somma che Vasquez aveva versato sul conto di Keller, meno le spese di vitto e alloggio. Una somma enorme. Ma lui accettò senza discutere.

Tornò verso l’albergo con il pezzo sul sedile accanto al suo. Era confuso e vagamente sorpreso di se stesso. Si sentiva quasi come un sonnambulo, a cui fosse capitato di vivere uno strano sogno. Sapeva solo che voleva qualcosa da quel cumulo di nodi metallici, qualcosa di tangibile. Un pezzo di lei, si disse, una reliquia. Una cosa proibita e, alla lunga, pericolosa: un ricordo.


Il mattino dopo tornò negli studi tecnici della Rete e richiamò sul monitor il lavoro del giorno prima.

Quello che vide lo sconvolse. Si appoggiò all’indietro nel silenzio claustrale della cabina di montaggio e continuò a guardare.

Aveva alterato i lineamenti di Teresa per proteggere il suo anonimato. Una procedura standard, che aveva eseguito quasi senza pensare. Con successo, dal momento che la donna non assomigliava più a Teresa.

Ma il viso che lui le aveva dato era quello di Megan Lindsey.

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