Non sarebbe stato prudente riportarla nello studio vicino al margine della darsena, così Byron scelse una minuscola balsa nel cuore della Città Galleggiante e investì nell’affitto i pochi soldi brasiliani rimasti.
La sistemazione gli piaceva. Le lontane alture di San Gabriel gli ricordavano che il continente esisteva, mentre il vento odoroso di salsedine e la foschia mattutina gli parlavano del mare poco lontano. Se non fosse stato per quello, la balsa avrebbe anche potuto trovarsi in un posto indefinito, tra acqua e legno, case di carta aggrappate alle fondamenta dei ponti, tra passaggi per i pedoni, lanterne cinesi e mulini a vento con le pale protese verso il cielo. Il canale del mercato si stendeva verso est, e garantiva uova e verdura fresca. La popolazione era mista, con una prevalenza di latini e indiani dell’est. Sulle banchine oltre l’argine di marea si poteva trovare del lavoro decente. Non c’era troppa violenza. Un buon posto, pensava Byron.
Gli piaceva più di quanto avrebbe dovuto. Sopiva i suoi sensi e questo era pericoloso. Doveva pensare al futuro, adesso… per il bene di Teresa, e anche per il suo.
Lei non era al sicuro lì. La cosa terribile era che, con ogni probabilità, non sarebbe stata al sicuro nemmeno altrove.
Continuò a camminare lungo le passerelle mobili che costeggiavano il canale, tra le vecchie baracche su palafitta simili a grossi trampolieri. Mentre camminava, pensava a lei.
Teresa non gli aveva confidato nulla, e questo lo feriva. Dal giorno della trance a Belem, era stata estremamente riservata, si scostava quando lui la sfiorava e sembrava aver perso la voglia di vivere. I suoi occhi si posavano spesso su Keller, ma lui era altrettanto distante. Sembrava quasi che una strana elettricità li avesse caricati di forze che si respingevano reciprocamente. Doveva essere successo qualcosa tra loro, quel giorno, nella stanza sul Ver-o-Peso. Forse avevano condiviso un’esperienza troppo terribile da sopportare.
Il dolore era evidente in entrambi.
Tuttavia Teresa continuava ad aggrapparsi alla pietra. L’aveva trasportata nel bagaglio a mano durante il viaggio di ritorno, e ora la teneva nascosta in un armadietto dell’Esercito della Salvezza, nella parte posteriore della balsa. Come se fosse stata il simbolo di qualcosa. Del suo passato, o del suo futuro.
Lui era arrivato a odiare quella pietra.
La odiava per la tristezza che aveva generato in lei, e la odiava anche come simbolo del proprio passato. In alcuni momenti della sua vita, gli era sembrato quasi di galleggiare in un sogno. Appena uscito dal collegio universitario del Midwest si era offerto volontario come Angelo. Il Corpo Psichiatrico lo aveva ritenuto "idoneo al lavoro". Forse era vero, un tempo. Eppure proprio per questo, alla fine del servizio si era fatto estrarre la presa di accesso. In qualche modo sentiva che era troppo facile, che avrebbe continuato a sprecare la vita in una nebbia di wu-nien, come Keller, o magari sarebbe finito con qualche droga elettronica perennemente infilata nella presa. Era arrivato nella Città Galleggiante insieme a un paio di commilitoni che, con l’aiuto di un ex-CO che si chiamava Trujillo, volevano impiantare un laboratorio chimico. All’ultimo minuto Byron si era tirato indietro. Non accettava l’idea di passare la vita a produrre encefaline sintetiche o adenosine velenose per un popolo di degenerati ormai assuefatti alle droghe. Tuttavia, era attratto dalle pietre esotiche. Gli sembravano molto più salutari ed erano già diffuse tra gli artisti che cominciarono a far sentire la loro presenza nella Città. Prese contatto con Cruz Wexler, il quale lo aiutò a entrare nel giro. Era un lavoro semplice e lucroso, ma finì per tormentargli la coscienza. Cominciò a rispettare la natura aliena degli oneiroliti. Imparò a conoscere il loro potere curativo e sospettò che ne possedessero altri, più profondi. Cominciò a chiedersi se fosse saggio venderle come surrogati di felicità ai continentali danarosi che venivano ad affollare i club notturni della Città Galleggiante ogni sabato sera. Comperate una pietra dall’Angelo della lunga guerra: sembrava lo slogan più alla moda. Un giorno udì per caso una conversazione in cui si faceva il suo nome. «Forse ha perso le palle in guerra» diceva uno dei clienti. E la cosa terribile, pensò lui, era che probabilmente aveva ragione. La sua vita nella Città Galleggiante non era altro che una variazione sul tema del wu-nien, una specie di castrazione. In qualche modo, era stato reso davvero impotente.
Teresa era il suo passaporto per tornare nel mondo.
Non le aveva affidato quel ruolo di proposito, ma non si trattava nemmeno di un caso. Esisteva una via di mezzo. Lei si era presentata alla sua porta perché aveva bisogno di lui; lui si era innamorato perché aveva bisogno di innamorarsi.
Non aveva avuto alcun dubbio. Una speciale telegrafia nella forma del suo viso o nel colore degli occhi gli aveva comunicato la necessità che Teresa aveva di lui. Era pallida ed emaciata, e Byron era un Angelo in disuso, la parodia di un reduce di guerra. Avrebbe potuto essere lo spunto di una commedia comica. Ma lui le voleva già bene.
Teresa stava morendo.
Per fortuna, la pietra le aveva salvato la vita. Solo molto più tardi a Byron venne il dubbio che fosse servita solo a rimandare l’inevitabile. Teresa voleva davvero morire. Non era difficile capirlo. Si stava punendo per qualche peccato che non riusciva nemmeno a ricordare consciamente, un’enormità rimasta sepolta nel trauma dell’incendio. Eppure dentro di lei c’erano altre forze e Byron fu certo di averne risvegliata almeno una: una scintilla di ribellione, un ostinato bisogno di vivere. Era come se ci fossero due Terese intessute insieme, ciascuna pronta a tradire e schiacciare l’altra. La morte ingannata dalla vita e viceversa.
In tutto ciò, l’oneirolita rimaneva un mistero, un legame segreto tra le parti della sua anima in conflitto, una presenza necessaria ma pericolosa. Byron aveva nutrito timore nei confronti delle pietre di profondità, intuendo che potevano sconvolgere il delicato equilibrio che era riuscita a crearsi. Sembrava che avesse avuto ragione. La miracolosa scintilla di vita, in lei, sembrava ormai completamente estinta.
Dunque non c’era nient’altro da fare che trovarle un posto per nascondersi, una baracca nella Città Galleggiante dove almeno fosse al sicuro dall’Organizzazione. Poteva ancora tirarsene fuori. Byron continuava a ripeterselo.
Ma quello che lo irritava, e si trattava di un’ira intensa e profonda che dubitava di poter controllare ancora a lungo, era la freddezza che Keller mostrava verso di lei.
Keller, di cui Teresa era innamorata. Keller, che avrebbe potuto salvarla.
Keller voleva ritornare in terraferma.
Byron l’incontrò davanti a una bancarella del mercato. Camminarono insieme lungo l’argine, in un silenzio imbarazzato.
— Il mio compito è finito — disse infine Ray. — Ormai è evidente.
— Lei ha bisogno di te — ribatté Byron, con semplicità.
Seguì lo sguardo di Keller perdersi oltre le passerelle, oltre gli argini di cemento. Fuori, una nave cisterna tailandese sembrava immobile sull’orizzonte nitido. I gabbiani stridevano sopra la loro testa. — Non c’è niente che io possa fare per lei.
— Le devi almeno un tentativo.
Lui scrollò la testa. — Non le devo nulla.
Nel fondo dei suoi occhi si leggeva una consapevolezza misteriosa. Byron si sentì irritato, escluso, impotente. Riconobbe la fredda indifferenza dell’amico per quello che era: il Palazzo del Ghiaccio, l’istinto dell’Angelo, una gelida e caparbia lacuna dell’anima. — Ho un lavoro da compiere — disse Keller.
— Al diavolo il tuo lavoro. — Mossero ancora qualche passo, avvolti da un’aura di rancore, senza parlare. — Anche per te è pericoloso tornare laggiù — commentò Byron. — L’Organizzazione potrebbe trovarti.
— Eseguirò la decodifica, metterò tutto in un elaboratore d’immagine e distruggerò la traccia di memoria originale. Anche se mi trovano non avranno prove. Niente che sia possibile usare contro Teresa.
— Dunque ti importa qualcosa di lei?
La domanda sembrò pungere Keller sul vivo. Non rispose.
— Se te ne importasse davvero rimarresti — osservò Byron.
— Non posso.
— E allora? Assumerai un nuovo nome? Troverai un altro lavoro da qualche parte?
Lui si strinse nelle spalle.
Diglielo tu — concluse Byron, in tono stanco. — Lasciami fuori da questa faccenda, per favore. Dille di persona che te ne vai.
— D’accordo — promise Keller.
Lei era nel retro della baracca a vedere qualcosa alla TV.
Keller osservò lo schermo al di sopra della sua spalla. Era uno sceneggiato d’amore scandinavo, trasmesso via satellite. Ma lei in realtà non lo stava guardando. Aveva l’espressione assente. Sollevò gli occhi su di lui e per un attimo furono soli nel silenzio della piccola stanza, mentre il pavimento dondolava dolcemente. — Te ne vai — disse Teresa.
Lui trasalì. Ma era logico che avesse indovinato. Dai piccoli silenzi, dalle mani contratte, dagli sguardi distolti. Si impose l’indifferenza. — Ho del lavoro da svolgere — replicò.
Lei sorrise debolmente. — Devi decodificare la memoria?
Keller annuì.
— E poi ne farai un video, giusto? — continuò lei. — Potrai finalmente disfartene. — Si alzò, passandosi una mano tra i capelli. — Tornerai?
La domanda fece a pezzi la sua determinazione. Non sapeva che cosa rispondere. Una parte di lui desiderava di non tornare, di non rivederla mai più. Ma non era interamente al sicuro dall’adhyasa, dai suoi impulsi potenti e traditori. — Non lo so — rispose.
Lei annuì, come per ringraziarlo di essere stato onesto. Gli tese la mano, e lui la prese. Ma quando Ray accennò a voltarsi, lei lo trattenne. Aveva uno sguardo intenso e le sue dita stringevano con forza. — Non me ne importa — dichiarò con fervore. — Qualsiasi cosa sia successa non ha importanza, per me. Quello che è capitato con Meg… Non me ne importa.
Lui si scostò. Per un attimo provò il desiderio di crederle, di accettare ciò che lei gli stava offrendo. Ma non era in suo potere perdonarlo.
Teresa sapeva. E questo era insopportabile.
— Non ha importanza — ripeté lei seguendolo alla porta. — Ricordalo, Ray. Per favore. Ricordalo sempre.
Prese una barca-taxi dal canale del mercato fino ai grossi recinti industriali che segnavano la terraferma. Quando ritrovò la sua auto, parcheggiata in un posteggio a pagamento più di un mese prima, era già scesa la sera. Le strade che portavano alla città erano affollate, le autoradio diffondevano vertiginose cascate di musica forte, ritmata e triste. La città stessa era un fiume di luci e di cemento che si stendeva dal confine messicano all’arida periferia, dall’oceano al deserto. Dopo il Brasile, quell’atmosfera avrebbe dovuto scoraggiarlo. E invece no. Lo inebriava.
Nei canyons della notte era uno in mezzo a tanti, finalmente anonimo. Lì poteva perdere i suoi rimorsi, i suoi ricordi, la sua storia, se stesso.