Un tassista tailandese condusse Oberg in barca fino allo studio vuoto, vicino al margine della darsena.
Era una balsa molto particolare. Oberg la guardò dal pontile su cui era sbarcato. — Vive qui? — chiese.
— Ci viveva — rispose il tassista in tono laconico. — Forse ci vive ancora, ma non si è vista, ultimamente. — Rimase in attesa, fissandolo con intenzione. Oberg gli mise in mano alcune banconote sbiadite. Lui annuì e rimise in moto la barca, allontanandosi.
Rimasto solo, Oberg si arrampicò su una scala e raggiunse la passerella d’ingresso. Poi forzò la porta.
C’era molta polvere, all’interno.
Aveva previsto che non sarebbero tornati lì. Erano abbastanza saggi da evitarlo. Rintracciare Teresa Rafael era stato semplice, era molto nota fra i commercianti d’arte nelle gallerie sulla costa. Sotto molti aspetti, era stata una donna dalle abitudini prevedibili.
Eppure, anche se non era tornata lì, Oberg restava convinto di due cose: che si fosse stabilita da qualche parte della Città Galleggiante e che lui, prima o poi, l’avrebbe trovata. Era inevitabile.
Ciò che cercava in quello studio, l’appartato rifugio di bambù che lei aveva un tempo abitato, era al tempo stesso mistico e pratico: una prova della sua presenza, un pegno della sua vita.
L’aria quieta parve vibrare attorno a lui. Senza fretta, Oberg si mosse su per le scale.
Aveva preso informazioni sulla Città Galleggiante.
Non era una comunità. Da qui, il nome collettivo di Città. Anni prima, grazie a sovvenzioni statali e federali della durata di un decennio, al largo della costa della California erano state costruite delle enormi dighe. Era un’opera di ingegneria ambiziosa almeno quanto la grande Muraglia cinese, e tentava di conciliare il bisogno pressante di fonti d’energia che andava a scontrarsi con obiezioni di natura pratica ed ecologica.
Dopo anni di spese esorbitanti e l’estinzione di una mezza dozzina di specie marine minori, il progetto diede i suoi frutti. Da allora continuava a fornire la maggior parte dell’energia elettrica assorbita dai giganteschi insediamenti urbani in rapida espansione. La maggior parte, ma non tutta. I generatori fotici di Baja e di Sonora si facevano carico dei resto. Ed erano state le pietre esotiche a rendere possibile la loro messa in opera, sulla base di tecnologie rivoluzionarie.
Ma dal punto di vista di Oberg era molto più importante il campionario umano cresciuto all’ombra delle dighe. Le acque costiere, rinchiuse e imbrigliate, erano diventate all’inizio una specie di selvaggia zona industriale. Nacquero progetti di riempimento al largo di Long Beach, e di bacini di navigazione in acque profonde confinanti con la Diga del Porto. La gente meno abbiente si trasferì nelle vicinanze per soddisfare la richiesta di personale semispecializzato. Era inevitabile che molti lavoratori fossero al limite della legalità, in possesso di documentazione dubbia. Le prime baracche sorsero al riparo delle industrie, ma la popolazione crebbe anche quando le nuove fabbriche dovettero arrendersi di fronte alle tecnologie competitive degli Esotici. Gli abusivi occuparono i gusci vuoti dei vecchi magazzini.
Una rivolta di disoccupati, negli anni Trenta, stabilì una zona di autonomia, un confine oltre il quale la polizia civile e portuale rifiutava di avventurarsi. La contea di Los Angeles arretrò ufficialmente la propria giurisdizione dopo una serie di accordi negoziati con i leader degli scioperanti. Così si creò un precedente, tanto che ancor prima dell’incendio che devastò i ghetti galleggianti alla fine dello stesso decennio, l’unico ente governativo che godesse di un potere reale nella Città Galleggiante era il ministero dei Lavori Pubblici.
E così la Città era diventata il rifugio di tutti quelli che avevano dei problemi in terraferma; artisti, criminali, drogati, contrabbandieri, immigrati illegali e disoccupati cronici. All’interno della vastissima rete di canali, balse e ponti mobili c’era almeno una dozzina di comunità autonome. C’erano i veri e propri bassifondi come in terraferma, luoghi dove era decisamente pericoloso vivere. E c’erano poi delle comunità tranquille e pacifiche, in particolare, al nord, dove lo spazio era più abbondante. Lì c’era denaro, lavoro, e anche un certo scambio commerciale con il mondo esterno. La gente andava e veniva. Era un posto dove si poteva vivere, pensò Oberg. E soprattutto, dove ci si poteva nascondere.
Ma nessun nascondiglio rimaneva sicuro in eterno. Oberg capì, salendo le scale, che il taglio netto con l’Organizzazione era stato tanto necessario quanto inevitabile. Ora non era più legato ad alcun protocollo. Poteva muoversi nella penombra, in quel posto così lontano dalla terraferma. Era un cane sciolto. Poteva sguazzare dove voleva.
Il pensiero lo fece sorridere. Guardatemi sguazzare!
Si spostò con leggerezza sul pavimento di legno della stanza che era stata il suo studio.
Era un locale spazioso, illuminato da ampie finestre. I raggi del sole disegnavano strisce parallele sul pavimento. Oberg aprì i cassetti, guardò dietro gli specchi. Perquisì tutto con metodo e grande concentrazione. Non stava cercando nulla in particolare, ma se c’era qualcosa di interessante lo avrebbe capito al primo sguardo.
La vide, alla fine, annidata in fondo a un cassetto dell’armadio, dietro a una gonna di cotone color pastello. Era una minuscola fiala di plastica, grande come la custodia di un microfilm, senza etichetta. Nell’interno opaco tintinnava qualcosa.
Lui aprì il tappo con l’unghia del pollice.
Il profumo era acuto e seducente. Una piccola pillola nera gli rotolò nel palmo. Gli anni l’avevano resa resinosa. Non ce n’erano altre.
Qualcosa che lei aveva tenuto per ricordo, pensò Oberg. Una specie di monito, oppure la prova di qualcosa, un memento.
Bagnò il dito nell’olio rimasto sul fondo della fialetta e se lo portò alle labbra.
Aveva un sapore amaro, asprigno. E bastò a provocargli un debolissimo senso di benessere.
Encefaline, pensò. In alta concentrazione.
Fece ricadere la pillola nel suo contenitore e richiuse il tappo.
Per la seconda volta, non riuscì a trattenere un sorriso.
I suoi sogni erano peggiorati, dopo la partenza di Keller.
Ancora la bambina, naturalmente. Ma l’atmosfera era cambiata. Aveva appreso troppe cose, tramite la pietra di Pau Seco. Ora la bambina appariva sullo sfondo delle scene apocalittiche dell’incendio: fuoco, fiamme e facce terrorizzate. Aveva gli occhi coperti di fuliggine ed era sola, lontano dalla terraferma e timorosa per la propria vita.
— Ho bisogno di te — le diceva. — Ti ho già salvato una volta. Non è giusto! Non puoi lasciarmi morire qui!
Ma nei sogni lei poteva solo distogliere lo sguardo.
Si svegliò coperta di sudore. Era sola, nel retro di quella nuova balsa nel cuore della Città Galleggiante, al buio, in un ambiente che tardava a diventarle familiare. Byron dormiva nella stanza accanto, che fungeva anche da cucina. Cambiò posizione e si sentì vuota come una bottiglia ributtata dal mare sulla spiaggia. Il pavimento si sollevò un attimo, come mosso da una mano invisibile. Lei chiuse risolutamente gli occhi e pregò il cielo di non mandarle altri sogni.
Il mattino arrivò parecchie ore più tardi, e la sua luce filtrò timidamente dall’unica finestra della camera.
Teresa si sedette sul letto, infilò la vestaglia e inspirò a fondo. Da quel giorno a Belem si sentiva perennemente intontita. Intontita, svuotata e senza radici. Forse anche Keller si sentiva nello stesso modo. Angelo in fuga. Solo che lei non era un Angelo. Era semplicemente Teresa, circondata di nebbia. Di tanto in tanto arrivava a chiedersi come si sentiva, come si sentiva davvero. Ma era un po’ come passare la lingua su un ascesso: il dolore superava di gran lunga la curiosità.
Andò in cucina e preparò un uovo al tegame per Byron, sul vecchio fornello elettrico. Era l’ultimo prodotto commestibile rimasto in casa.
Byron indossava pantaloni da lavoro color cachi e la giacca mimetica ormai consunta. Teresa lo guardò, ma non riuscì a trovare nulla da dirgli. Non avevano parlato molto da quel fatidico giorno a Belem. Tra loro era calato uno strano muro di rimorsi e di vergogna. Lei non gli aveva nemmeno accennato a ciò che aveva visto in trance, né riguardo a se stessa, né riguardo alla complessità della storia in generale. Quando ebbe finito di mangiare, Byron si alzò e sistemò la stanghetta degli occhiali dietro le orecchie. Poi le disse che usciva.
— Dove vai?
— A riprendere certi contatti — rispose lui, in tono vago. — Abbiamo bisogno di soldi per rimanere qui. Ho alcuni crediti da riscuotere.
— Devi proprio andare?
Lui annuì.
— Va bene — disse lei. — Stai attento.
Byron si strinse nelle spalle.
Rimanere sola era la cosa peggiore.
Si meravigliò di provare un malessere tanto profondo. Meglio cercare qualcosa da fare. Tenersi occupata l’avrebbe aiutata.
Byron le aveva lasciato dei soldi per la spesa. Avrebbe raggiunto il canale del mercato, e magari si sarebbe concessa una passeggiata nei pressi della diga. Le avrebbe fatto bene. Mise il denaro nella tasca della camicia e l’abbottonò. Valeva la pena di dare un’occhiata al frigorifero, pensò. Era un modello economico, adeguato al tono modesto della balsa. Conteneva una bottiglia di acqua fresca e una fetta di pane stantio. Allora, c’era bisogno di frutta, verdura, e magari un po’ di carne. Qualcosa per tenere insieme l’anima e il corpo.
In pratica, saltò la colazione.
Al canale del mercato, dunque. Ma prima tornò a dare un’occhiata nella sua stanza, guardò il letto sfatto e il vecchio armadietto dell’Esercito della Salvezza. Con indolenza, andò ad aprire l’ultimo cassetto in alto.
La pietra era sempre lì.
Sembrava piccola e insulsa, adagiata tra i suoi vestiti. Quasi banale… finché non la si guardava meglio, permettendo alle sfaccettature di sedurre lo sguardo. Poi non si riusciva più a distogliere gli occhi. Una parte di lei fu tentata di prenderla in mano.
L’altra parte si rifiutò. Teresa chiuse il cassetto con forza.
Aveva ritrovato il senso della sua natura aliena. Era stata la pietra, si disse, ad allontanare Keller. In quel momento, nella stanza dell’albergo di Belem, aveva visto la colpa terribile che lui custodiva nel cuore da più di dieci anni. La donna morente di Rondonia: Meg, così si chiamava. La sua esitazione. Peggio ancora, la sensazione bruciante della propria vigliaccheria.
Lei capiva, naturalmente. Non era un peccato difficile da perdonare.
Ma Keller non poteva sopportare che lei avesse visto.
E poi c’era il resto. La bambina, il fuoco, l’odioso Carlos. Aveva perso molto, non solo Ray ma anche la sensazione di avere uno scopo, l’intimità con le pietre, la speranza di un futuro…
Si sforzò di svuotare la mente. Avrebbe pensato a tutto più tardi. Uscì dalla balsa, chiuse la porta a doppia mandata e si unì alla gente che affollava le passerelle del canale. Camminò controsole, socchiudendo gli occhi, e si dispiacque di non poter vedere l’oceano.
Camminare era così piacevole che dimenticò di fare la spesa. Oltrepassò le bancarelle con le loro tende variopinte e le barche cariche di verdura, e si diresse istintivamente verso il mare.
La passerella curvava verso nord costeggiando il muro di cemento. Teresa salì su una serie di montanti a catena fino a raggiungere il bordo superiore della diga. Un fossato di acque tumultuose isolava le proprietà del ministero dei Lavori Pubblici e copriva una serie di gigantesche turbine. Verso sud si intravedevano schiere di fabbriche in disuso, magazzini abbandonati e cumuli di rifiuti che si stagliavano neri contro il centro sgombro di nuvole. A est, oltre il groviglio delle baracche, era visibile un lembo di terraferma, la sagoma inconfondibile di San Gabriel. A nord, un’altra distesa di baracche galleggianti e la diga che si assottigliava in direzione del continente. E a ovest c’era il mare.
I gabbiani volavano in cerchio sopra la sua testa e si tuffavano in picchiata sulla scia di una barca che ribolliva di rifiuti. L’aria sapeva di alghe e di salsedine. Peccato che non avesse portato un maglione per ripararsi dal vento.
Keller se n’era andato. La cosa peggiore era che entrambi l’accettavano come una soluzione scontata. Lui non poteva più sopportare la sua presenza, sapendo ciò che aveva visto. Era logico e inevitabile.
Ma lei sentiva la sua mancanza più di quanto avesse immaginato.
Era buffo, a pensarci. La vita cambiava con grande rapidità. Per un certo periodo di tempo lei non aveva avuto dubbi su ciò che desiderava. La pietra dei sogni le avrebbe svelato il mistero, aprendo una porta nel suo passato. Ma il proverbio sui desideri esauditi aveva ragione. Con ogni probabilità, lei ora ne sapeva di più sugli Esotici di qualunque studioso che non fosse legato al governo. Conosceva le loro origini e la loro storia. Era tutto molto vivido nella sua mente. Eppure, in loro c’era ancora qualcosa di fondamentalmente alieno, una dissonanza profonda tra il loro mondo e la Terra. Teresa l’avvertiva come un morso di amarezza, come un silenzio cupo là dove avrebbero dovuto sentirsi delle voci.
Il mistero del proprio passato era altrettanto inquietante. La bambina era lei, naturalmente. La bambina era Teresa, prima dell’incendio. Questo ormai lo sapeva, ma sapere non era abbastanza. La memoria le restituiva il ricordo di una vecchia ferita. Ma ciò che lei desiderava era la cicatrizzazione. Purtroppo, gli oneiroliti non potevano aiutarla. L’aiutavano a ricordare, ma la guarigione dipendeva da lei. Era un atto di riconciliazione con se stessa che Teresa non riusciva nemmeno a immaginare.
Forse si trattava di un’illusione. Forse il passato rimaneva sempre tale e quale. Beffardo, distaccato, inamovibile. Un interlocutore impossibile.
Si diresse a nord, in quartieri che le erano sconosciuti. Non aveva una meta. Le bastava camminare, seguendo i propri piedi, come diceva Rosita. I piedi la condussero su altri ponti mobili e altri canali. Teresa non badò alle voci intorno a lei, che parlavano spagnolo e poi inglese. Rifletté ancora sui desideri e sulle conseguenze del loro esaudirsi. Lei aveva desiderato la pietra, e aveva trovato Keller. Ora che desiderava Keller, la pietra glielo aveva tolto per sempre.
Era stato il passato ad allontanarlo.
— Mi dispiace, Ray.
Rimase imbarazzata, scoprendo di aver parlato ad alta voce. Ma solo i gabbiani potevano sentirla.
All’improvviso arrivò in un punto che destò tutti i suoi ricordi. Soppresse il senso di familiarità, ma il suo cuore batteva più forte. Non era lì per caso. Erano stati i piedi a indicarle la direzione. Piedi saggi. Meglio non fermarsi troppo a riflettere.
La baracca non era cambiata molto. C’era lo stesso recinto dall’aria lugubre, la stessa pompa di sentina che versava acqua oleosa nel canale di scolo. Lei discese la vecchia rampa di scale, si fermò davanti alla porta e bussò, con il cuore in gola.
Il vecchio delle guance incavate era ancora più vecchio e ossuto. Lei si sorprese che la riconoscesse. I suoi occhi si socchiusero, divertiti, nella cornice scura della porta. — Oh, sei tu — disse.
Teneva ancora le pillole nel retro.