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Keller aveva dieci anni quando la scoperta degli oneiroliti nel Bacino delle Amazzoni riempì le testate dei giornali internazionali. Nel ricordo, era affacciato alla finestra dell’unica camera nell’appartamento sopra l’officina di suo padre, e puntava un fucile giocattolo verso il profilo marrone delle colline, mentre la televisione blaterava di "oggetti di origine extraterrestre". Era sabato e il ministero dei Lavori Pubblici aveva consentito l’erogazione dell’acqua. Suo padre, in cortile, insaponava la carrozzeria in fibra di vetro di alcune macchine. Il ragazzo prestava scarsa attenzione allo schermo televisivo, perché era convinto che tutta quella faccenda fosse una bugia.

Gliel’aveva detto suo padre la sera prima. Dalla grande poltrona in cui era seduto, al centro di una stanza squallida, aveva commentato: «Tutta merda, Ray. Credi a me!»

Keller aveva pensato che suo padre sembrava stranamente piccolo in quella poltrona enorme che sottolineava la sua magrezza, il gonfiore artritico delle dita e dei gomiti e i capelli ormai radi.

«Pietre provenienti dallo spazio, figurarsi!» La sua voce di adulto era carica di disprezzo e di autorità. Era emigrato dal Colorado prima della nascita del figlio, per condurre una vita, come lui aveva capito sin d’allora, infelice e anonima. «Cristo onnipotente, che fesserie!» Chi poteva dubitarne?

Il suo scetticismo ebbe vita breve. Venne presto sostituito dalla noia, che fu in generale la reazione dell’intero paese. Negli anni successivi gli oneiroliti permisero la scoperta di molte cose interessanti, ma tutte estremamente astruse: una nuova matematica, una cosmologia più sofisticata. Cose importanti, ma poco spettacolari. Le domande più difficili, da dove erano venute le pietre?, chi le aveva lasciate?, rimasero senza risposta. E con il tempo, nessuno si preoccupò più di cercarla. Le congetture vennero lasciate ai cultori, agli scrittori di fantascienza e ai rotocalchi. Nella vita quotidiana c’erano faccende più importanti di cui preoccuparsi. I russi, per esempio, contrabbandavano missili telecomandati e software militari per destabilizzare i posseiros nel Bacino delle Amazzoni. Dove volevano arrivare?

«Merda di prima categoria» aveva borbottato il padre di Keller dal profondo della sua poltrona. Il ragazzo aveva assentito tra sé, puntando pensierosamente il fucile verso il tronco di una palma nana. Zing, aveva fatto il fucile.

Dieci anni più tardi aveva imparato a usare un fucile vero in una foresta altrettanto vera. Tra le truppe che combatteva in Brasile circolavano liberamente molte rozze riproduzioni in cristallo degli oneiroliti. La prima volta che Keller ne aveva vista una ne era rimasto impressionato; era una macchina, si era detto, uno strano apparecchio proveniente da un altro mondo. Ma quando l’aveva presa in mano era stato riportato immediatamente indietro nell’appartamento polveroso, impregnato dell’odore di benzina e di vernice che saliva dalla finestra, e aveva risentito l’eco della voce stridula di suo padre che diceva, credi a me! Suo padre era morto di cancro tre anni prima ma l’immagine era straordinariamente vivida, quasi una resurrezione. Keller aveva lasciato cadere la pietra di scatto come l’avesse sentita pulsare di vita propria nel palmo della mano, e si era ritratto, con un sussulto.

Non avrebbe mai immaginato che un ricordo potesse risultare tanto inquietante.


La strada per Cuiaba era disseminata di relitti di guerra. Teresa vide le sagome deformate di varie macchine belliche in alcune valli verdi di fianco alla strada, e sentì l’eco della violenza che doveva aver squassato la zona.

Era una strada relativamente nuova, le spiegò Keller, solo di poco anteriore alla guerra. Un nastro di macadam che tagliava la provincia di Goias come fosse stata disegnata da un geografo, che scavalcava con un ponte sospeso le acque tumultuose dell’Araguaia inoltrandosi in profondità nel Mato Grosso.

Il mondo che si stendeva oltre i finestrini dell’autobus l’impressionava e la spaventava. Le sembrava strano essere arrivata tanto lontana così in fretta. L’orizzonte era verde e sconfinato e lo sguardo poteva spingersi a una distanza davvero smisurata quando la strada saliva su una delle numerose alture. Una terra selvaggia, pensò Teresa. Quell’idea si era fatta sempre più reale e stupefacente. Una terra selvaggia dove non c’erano città, dove dominava l’anarchia della natura. Il paesaggio era profondamente alieno, come quelli che lei aveva visto nella trance provocata dalle pietre. Le poche tracce umane visibili, come un mezzo per il trasporto truppe dell’esercito con la corazza annerita in mezzo al verde, e i rapaci appollaiati sulle torrette sventrate, non facevano che rafforzare quella sensazione.

Da qualche parte, laggiù, c’era il posto dove Keller aveva conosciuto Byron. Storia sepolta. Da qualche parte, laggiù, c’era anche la miniera degli oneiroliti. La gnosi, o conoscenza perfetta del divino, come diceva Wexler. L’alieno, l’Altro, come lei aveva detto a Keller. E qualcosa di più personale.

Viaggiarono per tutta la durata del tramonto e ancora oltre. Il cielo divenne più scuro e le luci di lettura si accesero sopra le loro teste. Byron si tirò il cappello di feltro sugli occhi e si mise a dormire. Keller sprofondò nell’esame di una rivista che aveva portato da Brasilia. L’autobus era quasi vuoto. C’era qualche uomo d’affari con l’aria infelice e il vestito spiegazzato, un gruppo di coreani probabilmente drogati, e alcuni posseiros che russavano nei sedili posteriori. Tre o quattro turisti… come noi, pensò Teresa. E poi, ma noi non lo siamo. Non era il caso di cercare di dormire; le pressioni esterne erano troppo acute.

Poco prima di mezzanotte Keller reclinò il sedile e si appisolò. Lei si ritrovò a guardarlo, con un sorriso sulle labbra. Nel sonno, il viso dell’uomo si rilassava e diventava quasi diverso. Tutta la tensione del giorno sembrava quasi dissolversi.

È un Angelo, pensò Teresa.

Strano, quanto fosse facile dimenticarlo. Parlare con lui era come parlare con un milione di persone. Tutto quello che vedeva si avvolgeva nella memoria meccanica, sepolta chissà dove nel suo corpo. Un tesoro di memoria per le masse.

Teresa si chiese se poteva spegnerla… e se l’avrebbe fatto, avendone la possibilità.

Si addormentò, suo malgrado. Quando il calore del mattino la svegliò, il panorama selvaggio era sparito. L’autobus correva in mezzo a un rione fumante, con baracche di lamiera costruite su cumuli di sporcizia. Era la periferia di Cuiaba, spiegò Keller.

— È una città orribile. Un carnaio. Il mattatoio ne rappresenta l’unico vero affare. — Arricciò il naso. — Se ne sente già l’odore.

— Sei già stato qui?

— Durante la guerra — spiegò lui, stancamente. — Era una base logistica. Da qui guidavamo i veicoli da trasporto sulla BR-364. Nelle città rurali di quella zona l’attività di guerriglia era alta.

Dunque, era stata una città di soldati. Il che spiegava tutte le insegne che lei aveva visto in inglese e in giapponese corsivo: Bar Grill, Live Sex Acts, Uscite di Servizio. La stessa stazione degli autobus era una cavernosa struttura in cemento, gremita di varia umanità. Straripava di vecchi autobus diesel dal fumo puzzolente e i nomi sulle insegne vicino al finestrino del bigliettaio le risultavano completamente sconosciuti. Ouro Preto, diceva uno, Ariquemes, un altro. Teresa si mise la borsa in spalla mentre lasciavano la stazione, seguendo Byron che doveva guidarli in un albergo indicatogli da Wexler dove avrebbero trovato un uomo ad aspettarli, secondo quanto Wexler aveva promesso. Si sentì persa, a camminare in mezzo a quei vecchi edifici coloniali. Era un brutto quartiere, pieno di lividi bar e di uomini cenciosi che dormivano sui marciapiedi sconnessi. In un vicolo vicino all’albergo vide un’insegna che l’incuriosì: CHIESA DELLA VALE DO AMENHECAR, diceva, e sul finestrino polveroso sotto l’insegna era dipinta l’immagine di una mano protesa verso l’alto, con una pietra dei sogni che brillava nel palmo aperto.

Noi siamo vicini ora, si disse. E il pronome le venne così naturale che non ne notò la stranezza. Noi.


Da quel punto in avanti, secondo il piano riferito a Keller, avrebbero smesso di fare i turisti. Sarebbero passati nel sertao, per un giorno o due. L’autista di un autocarro, un espatriato vietnamita di nome Ng, li avrebbe trasportati a Pau Seco.

Ma, in albergo, Ng non c’era. Nessun problema, disse Byron. Avevano prenotato per tre giorni. Ng li avrebbe raggiunti l’indomani, assicurò. Due giorni dopo, al massimo.

Keller alzò le spalle, srotolando il sacco a pelo sul pavimento della stanza d’albergo.

"Albergo" era una definizione generosa. Cuiaba non era in alcun senso una città turistica. La costruzione era una scatola d’intonaco e legno marcio. Byron e Teresa occupavano rispettivamente i due soli lettini di cui era dotata la camera. Avvoltolato nel suo sacco a pelo, Keller giacque nel buio per un po’, conscio dei rumori della notte. Gli autocarri per il trasporto della carne gemevano lungo i budelli della città, negli spazi lasciati vuoti dagli antichi edifici. Era conscio anche della distanza tra se stesso e Teresa, e tra Teresa e Byron. Distanze ormai palesemente cariche di elettricità e di implicazioni.

Capiva ora, anche se gli ci erano voluti un po’ di giorni, quanto profondamente Byron fosse innamorato di lei.

E capiva anche che quel sentimento non era reciproco.

La cosa lo stupiva. Dieci anni prima, Byron aveva incarnato il prototipo dell’Angelo: svelto, tenebroso, distaccato, dietro le lenti protettive. Era la sensazione che ancora trasmetteva pur commerciando pietre dei sogni nella Città Galleggiante. Ma con Teresa era un’altra cosa, e Keller se ne accorgeva. Tradiva un grande nervosismo, la sorvegliava quando pensava che lei non vedesse, si comportava in modo quasi servile.

Strano, ma forse prevedibile. Byron l’aveva salvata da un lento suicidio. Probabilmente se ne sentiva quasi responsabile. E poi, c’era in lei quel senso così acuto di incompletezza. Come fosse stata in balia di maree sconosciute. Si era immersa troppo spesso e troppo a fondo nel mistero degli oneiroliti. Keller capiva il loro fascino di territorio della notte, pericoloso ed esotico. Capiva la loro seduzione.

Anche troppo bene, forse.

Il suo sguardo vagò fino a fissarsi di nuovo sul letto dove lei dormiva.

A dispetto dei dubbi e degli errori, aveva imparato fin dagli anni della guerra a praticare scrupolosamente l’arte del wu-nien. È anche a riconoscere le minacce che insidiavano quell’arte: minacce si chiamavano Compassione, Odio, Desiderio e Amore. Come Angelo gli era stato insegnato a mettere da parte questi sentimenti con la stessa convinzione con cui un monaco buddista riesce a resistere alle tentazioni della carne. Ma proprio come queste, i sentimenti erano difficili da sopprimere. E una volta soppressi, erano capaci di ripresentarsi a caso, in modo del tutto inaspettato.

Keller rimase sdraiato nell’oscurità, con il polso che gli martellava in sordina nelle orecchie. Le pallide luci della città, che filtravano appena attraverso le tende, gli permettevano di indovinare sotto le coperte il profilo del corpo di Teresa, la finissima geografia delle sue membra.

Sai bene che è meglio non pensare a ciò che pensi.

Chiuse gli occhi e si sforzò di sgombrare la mente. Uno specchio splendente, pensò, ricordando le parole di un poema Shenshiu che tutti gli Angeli avevano imparato a memoria durante l’addestramento. Ripulire tutto con cura, in modo da non lasciare accendere nemmeno un granello di brace.

Ma la brace si era accesa, pensò. Dentro di sé sentiva affiorare sensazioni che credeva di aver cauterizzato già da molto tempo.

Adhyasa, ripeté tristemente. Il peccato degli Angeli.


Si svegliò oppresso dalla stanchezza. Byron gli porse una tazza di caffè attinta dal distributore a parete. A metà mattina l’autista non era ancora arrivato.

Teresa camminava inquieta per la stanza con indosso un paio di pantaloni da lavoro e una camicia cachi, le mani in tasca e il viso accigliato.

— Voglio uscire — disse alla fine.

— Dobbiamo aspettare qui — replicò Byron. — È importante che Ng ci trovi qui, quando verrà.

— Non è necessario che rimaniamo tutti.

Byron rovesciò indietro la testa e tamburellò con le dita. — Dove vuoi andare?

— A vedere la chiesa di ieri sera. La chiesa con l’insegna delle pietre dei sogni.

— È una chiesa della Valle — spiegò lui. — Vi si praticano i riti della giungla. Vuoi sacrificare un pollo? Forse si può fare.

Keller ricordava la Valle dell’epoca di guerra. La Vale do Amenhecar era un culto brasiliano della pietra, una delle religioni secondarie fiorite dopo la scoperta degli oneiroliti. Era una religione rurale, estremamente sincretica; i fedeli credevano contemporaneamente nella sacralità del giaguaro, nella divinità di Cristo e nel prossimo imminente arrivo di una flotta di dischi volanti.

— Voglio vedere com’è — insisté Teresa. Poi aggiunse, in tono pacato: — Ne ho diritto.

— Non è sicuro.

— Niente è sicuro. — La donna si rivolse a Keller. — Vuoi venire con me?

Lui rispose di sì senza pensarci.

Byron, rigido, si girò verso la finestra. Sopra la sua spalla, Keller vide la pioggia scendere come un velo dal cielo color piombo. Le strade erano lucide e nere.

— Andate — disse Byron con freddezza. — Ammirate un po’ del folclore locale. — Si volse a fissare l’amico, con espressione addolorata. — Diavolo, perché no?


Teresa comperò un ombrello in una delle bancarelle ai lati della strada e riparò la sua testa e quella di Keller. Era poco più che carta cerata, pensò, del colore delle dalie, ma serviva a impedire che la pioggerellina sottile li inzuppasse.

— È innamorato di te, lo sai? — disse Ray.

La colse di sorpresa. Teresa scrutò i suoi impenetrabili occhi azzurri.

— È una domanda da Angelo? — chiese. — Oppure sei sinceramente preoccupato per lui?

— Non era una domanda — replicò lui, asciutto. — E immagino che non siano affari miei. Ma basta guardarlo per capire.

Il traffico scorreva lungo le strade bagnate. Veicoli elettrici, motorini, grosse auto giapponesi. Keller si rannicchiò sotto l’ombrello e le passò un braccio attorno alla vita.

— Sono affezionata a Byron — dichiarò Teresa, scegliendo le parole con cura. — Davvero. Gli voglio bene per ciò che ha fatto. Non sono un’ingrata.

— Ci sono molti tipi di affetto.

— Siamo stati insieme per un po’. Non ha funzionato.

— Lui non ha smesso di preoccuparsi per te.

— Gli sono grata anche di questo. A volte ne ho avuto bisogno. Forse è egoismo, non lo so. — Teresa si accigliò, meravigliandosi della curiosità di Keller.

Lui continuò. — Mi ha colto di sorpresa. Non sapevo che potesse essere così… — si interruppe, cercando la parola giusta — ingenuo.

— Ossessionato, vuoi dire. Be’, lo siamo tutti. — Avevano raggiunto la chiesa, e vedevano ardere le candele dietro le finestre incrostate di polvere. — Ossessionati — ripeté Teresa. — Tutti e tre. — Stese la mano e toccò con un dito l’icona raffigurante la pietra dei sogni. Sentì la simpatia di lui svanire di colpo.

Ray le prese la mano e gliela tirò indietro. — Se continui in questa follia rischi di arrivare molto in profondità — l’avvertì.

— Tu ne sai qualcosa vero? — Keller parve stupito. Ma non era un insulto: lei lo credeva davvero. — Essere un Angelo comporta anche questo. Byron ne parla, a volte. Vedere senza emozione. — Teresa lo guardò con circospezione. — Sembra che anche tu sia arrivato abbastanza in profondità.

Un velo gli scivolò davanti al volto. — Non è lo stesso.

Lei alzò le spalle e aprì la porta.


L’interno della chiesa era scuro e deserto. Molto tempo prima doveva essere stata un tempio cattolico, sepolto lì tra edifici più alti e più nuovi. Alle spalle dell’altare c’era un intaglio in vetro colorato raffigurante la Vergine Maria con la mano alzata. La vetrata era debolmente illuminata dal basso e non riceveva luce dall’esterno.

Una vecchia sbucò da un locale sul retro. Li guardò con espressione acida e sibilò qualcosa in portoghese. — Dice che l’ingresso è proibito ai turisti — tradusse Keller. Igreja, disse ancora la vecchia. — È una chiesa.

— Dille che vogliamo usare una pietra.

Keller parlò scandendo ogni sillaba. La donna sospirò e scomparve nel retro. Teresa occupò uno dei tavoli illuminati dalle candele che erano stati istallati dove probabilmente una volta si trovavano i banchi. La vecchia ritornò con una cassettina di sicurezza metallica sottobraccio. Fece l’atto di stringerla di più e protese la mano aperta, con il palmo rivolto verso l’alto. Keller le diede una banconota da cento cruzeiros.

Mentre Teresa apriva la cassettina, la donna prese posto vicino alla porta.

La pietra era una copia consumata di una generazione dimenticata da chissà quando, ormai scura per le innumerevoli contaminazioni; gli angoli erano smussati e i colori sbiaditi. Non poteva valere molto più di quanto Keller aveva pagato solo per avere il privilegio di toccarla. Eppure…

Era così vicina, pensò Teresa.

La prese in mano.

Era sempre lo stesso, per lei, come se le si schiudesse un nuovo mondo, come se all’improvviso potesse evadere dal guscio della propria carne. Con gli occhi chiusi si sentì sospesa in uno spazio indefinito. Le pareti della chiesa erano cadute e il suo corpo era lontano e insensibile.

Il fenomeno restava misterioso: le numerose ricerche condotte in proposito non erano mai riuscite a spiegarlo. La teoria più recente giunta alle orecchie di Teresa affermava che gli oneiroliti agivano direttamente sulla mente. I fantasmi del cristallo svegliavano i fantasmi che dormivano nella straordinaria architettura di sangue e tessuti del cervello. Forse gli Esotici se ne servivano in quel modo; o forse le visioni derivavano da. un’alterazione della funzione cerebrale, determinate dal fatto che la mente umana faticava ad adattarsi a un codice sconosciuto.

Tuttavia, qualsiasi spiegazione aveva un’importanza relativa. Quello che importava era la persistenza di quegli strani sogni, popolati di delicate immagini azzurre e alate di angeli fantastici nella loro impossibile completezza… i loro deserti, le foreste, le fattorie e le città… e anche gli scenari umani, altrettanto sconosciuti, come una galleria di antenati. Teresa avvertì la potenza delle immagini anche attraverso quella pietra riprodotta in modo tanto rozzo. Quasi stordita, tese la mano per prendere quella di Keller.

Ray si ritrasse.

— Non succederà niente — bisbigliò lei. Anche la sua voce le sembrò distante e irreale. — È solo che… mi piacerebbe non essere da sola. — Lo guardò, aprendo gli occhi per un attimo.

Lui annuì, lentamente. Guardandola, gli occhi fissi nei suoi con l’intensità di un animale spaventato, tese la mano al di sopra del tavolo.

Il contatto fu sconvolgente.


Vecchi, brucianti ricordi.

Teresa vide Keller a Cuiaba, dieci anni prima.

Keller il coscritto. Keller che guidava un mezzo di trasporto militare a chiazze verdi proveniente da Rio. Keller e un paio di altre reclute legate a un’unità da combattimento in quel polveroso carnaio, un po’ intontiti, con il fucile su una spalla e lo zaino sull’altra.

Il suo volto era indistinto, come un’immagine intravista e ignorata negli specchi, ma crudelmente giovane. Era magro come un chiodo, ancora senza barba e ancora ingenuo per la sua infanzia da periferia. "La beata innocenza della mancata comprensione" aveva sancito Meg.

Megan Lindsey era una delle ragazze del suo plotone. Un soldato semplice come Ray, ma lei, almeno, aveva qualche esperienza di combattimento. Era uscita in pattuglia nel famigerato corridoio della BR-364. — Razza californiana — aveva detto Byron. — Come te. Non parla molto. Problemi nei rapporti personali, direbbe qualcuno. Io credo che sia solo spaventata. E che abbia paura di mostrarlo.

Byron Ostler era l’Angelo del plotone. Keller era affascinato da quella specie di gnomo con i capelli bianchi, più giovane di lui di un anno, che aveva compiuto studi di chimica industriale in un istituto agrario del Midwest. Byron gli aveva mostrato la cicatrice alla base del collo. — Il segno degli Angeli — gli aveva spiegato. — Cercalo sempre. — L’aveva guardato attraverso le spesse lenti protettive. — Dovresti stare lontano da me, lo sai? Chi va con lo zoppo impara a zoppicare. E poi, chi può sapere che cosa verrà decodificato? — Gli fece balenare il tatuaggio davanti al viso. — Gli occhi della Sezione Personale sono su di te.

— Esaminano tutte le registrazioni?

— Soprattutto quelle che riguardano i combattimenti. Esaminarle in tempo reale potrebbe rappresentare un problema, ma non si può mai sapere.

A Keller non importava. Era affascinato da Byron, e ancora di più da Meg. Riuscì a capitarle vicino in mensa e le rivolse la parola. Lei parve gradire quelle attenzioni. I suoi genitori avevano un allevamento di batteri nella San Fernando Valley e lei era diventata color cioccolato a furia di camminare per i recinti tutte le estati dall’età di dieci anni, trascrivendo i valori di fermentazione su un registratore tascabile. Era agile, minuta, con un visino molto espressivo, ma Keller pensava che con ogni probabilità Byron aveva ragione: vi si leggeva anche una certa paura, e nemmeno troppo nascosta.

La guardava muoversi nei katas infuocati sul campo di parata sotto il sole ardente dei tropici. Persino il sudore le conferiva una grazia particolare. La T-shirt color cachi le ricadeva morbida dalle spalle e i pantaloni di fatica le modellavano i fianchi. I capelli, tagliati alla paggio secondo la foggia militare, riflettevano i raggi del sole a picco. Keller non aveva mai visto nessuna come lei. Continuava a guardare, all’ombra di un hangar-magazzino, e mentre l’immagine di lei gli si fissava nella memoria, ammise per la prima volta con se stesso che forse si era innamorato. Lei continuò a fendere l’aria e si accorse di lui solo qualche minuto più tardi, quando sedette in posizione zazen, sfinita dal caldo umido, con alle spalle le nuvole di un temporale che salivano dal Mato Grosso. Lo guardò e lo sconvolse con uri sorriso.

Dal momento che la caserma di Cuiaba era sovraffollata, Keller dormiva in una tenda montata tra i fari di illuminazione e il filo spinato che delimitava il recinto. Quella notte, quando si spensero le luci, Meg uscì dal bunker delle donne e andò da lui, bisbigliando il suo nome nel buio. Non si erano messi d’accordo, ma non fu una sorpresa, dato che la promessa era stata implicita nel loro sguardo. Fecero l’amore in modo un po’ inesperto, ma con grande passione, e si scambiarono ricordi d’infanzia nelle poche ore precedenti la sveglia.

Quando lui le chiese dei servizi di pattuglia sulla BR-364 Meg si mise a sedere di scatto, rabbrividendo nell’oscurità. — Scoprirai presto come sono.

Ray si scusò di averne parlato e lei gli passò le dita tra i capelli tagliati a spazzola. — Là fuori, Ray — gli disse — è facile fare cose di cui non si può affatto essere orgogliosi.

Il plotone uscì in missione un paio di giorni più tardi. Un mezzo di trasporto truppe li scaricò nell’aspra campagna coltivata a sud-est del Ti Parana. Keller si mosse con circospezione. Byron si immerse nel suo ruolo di Angelo, parlando poco, osservando fissamente ogni particolare e tenendosi al di sopra delle proprie paure. Meg si incamminò, stringendo il fucile tanto da averne le nocche bianche. La tensione era quasi palpabile poiché nei villaggi vicini era stata registrata un’intensa attività di guerriglia, ma loro non si accorsero di niente finché non caddero in un’imboscata, in un fangoso campo di manioca dalle parti di Rondonia. Il frastuono giunse improvviso e assordante. Il cielo si accese dei bagliori antisettici del fosforo incendiato. Keller udì da ogni parte i fischi e le esplosioni di grappoli di bombe. Cadde in ginocchio, senza quasi rendersene conto. Il sangue…


— No — disse Keller, e ritirò la mano.

Teresa aprì gli occhi, scossa.

Ray la fissava con espressione cupa. Qualcosa doveva essere arrivato fino a lui, pensò Teresa. Una parte di quelle immagini possenti che avevano cominciato a riempire il divario fra loro. I suoi ricordi. — Mi dispiace — assicurò, con voce roca. Aprì la mano e depose la pietra sul tavolo. La vecchia brasiliana si riavvicinò con la cassetta di sicurezza. — Passou a hora. - Il tempo a loro disposizione era scaduto.

L’esperienza l’avvilì. Tornarono a piedi verso l’albergo. A causa della pioggia, un’umidità densa si alzava nelle strade. In uno scorcio di vicolo, Teresa intravide una donna posseiro, di passaggio o forse senza casa, accovacciata tra i suoi miseri fagotti e intenta ad allattare un bambino nudo. Il piccolo aveva folti capelli neri, occhi grandi e lineamenti da indio. La madre gli reggeva la testa con un braccio e lo guardava con tanto evidente affetto che Teresa dovette distogliere lo sguardo, sentendosi improvvisamente debolissima. Dopo quello che Keller aveva detto di Byron, dopo ciò che aveva visto, l’immagine di quella donna le giungeva quasi come una punizione. Siamo tutti qui a cercare ciascuno il proprio Graal, pensò, a scavare nel fango, con le unghie, spinti non dall’ingordigia ma da una malintesa sincerità… Eppure quella donna analfabeta, accovacciata in un vicolo, di certo povera e magari senza casa, era intera là dove loro erano spezzati, sana dove loro erano storpi. Le sembrò di sentirsi trapassare da un vento gelido, che la fece sentire piccola piccola, e colma di vergogna.

L’atrio dell’albergo era caldo e sapeva di stantio. Fermo nella loro stanza, Ng li stava aspettando.

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