Stephen Oberg aveva più volte violato i confini della legalità dopo il disastro di Pau Seco, ma non si sentì mai un autentico fuorilegge fino al giorno in cui prese in affitto una modestissima balsa nella Città Galleggiante.
Era l’abitazione ideale per un fuorilegge, e lo faceva sentire tale. Le facce che si vedevano lungo i canali del mercato erano furtive, misteriose, nascoste. Probabilmente, anche lui aveva il medesimo aspetto, l’aspetto di un personaggio pieno d’ombre, estromesso dalle luminose autostrade della legge e dalle usanze comuni. L’unica luce, in quel posto, era il faro del proprio intenso desiderio. Gli abissi dell’oceano erano inquietanti e vicini.
Quella vicinanza lo preoccupava un po’. Quando scese la notte entrò in casa, srotolò il materassino sul pavimento di legno macchiato e si chiese se non avesse esagerato. Da sempre era abituato a dipendere da strutture esterne, per ciò che riguardava le regole e la disciplina. Era stato l’esercito, in un certo senso, a renderlo ciò che era. L’esercito gli aveva dato un nome, dal suono quasi magico: Aggressivo Latente. E non l’aveva considerata una patologia, ma piuttosto una dote, un’utile peculiarità del carattere. Per certe azioni, si poteva contare su di lui. Era un uomo senza scrupoli, ma leale, e la lealtà non gli era mai venuta meno.
Fino a quel momento. Adesso era un fuorilegge, un cane sciolto. Si era assunto un compito e lo svolgeva in proprio. Non pensava ad altro. Senza il suo intervento, la pietra di profondità uscita dalla miniera di Pau Seco avrebbe potuto essere riprodotta, diffondendosi a catena tra gli abitanti emarginati e misteriosi della Città Galleggiante. Probabilmente era proprio quello lo scopo che i creatori originali si erano prefissi. E lui non poteva permetterlo.
Lui capiva il pericolo, ed era persuaso di essere l’unico. Capiva la natura delle pietre, la loro estraneità, il loro potere di fissare la memoria. Aveva toccato Tavitch e, attraverso Tavitch, una pietra. E la pietra aveva toccato lui.
Era un oggetto sgradevole e pericoloso, una specie di arma. Corrodeva il midollo dell’anima. Non doveva essergli permesso di esistere.
Oberg lo credeva con tutta l’intensità con cui aveva creduto in ogni altra azione della sua vita.
La forza di quel credo era la sua unica giustificazione. Il suo sostegno. Era come un fuoco che lo riscaldasse, in un luogo tanto selvaggio.
Il mattino dopo fece una telefonata a un funzionario dell’Organizzazione che si trovava in Oriente, un certo Tate. L’uomo sbatte più volte le palpebre prima di accettare l’idea che fosse proprio lui. — Tu! — esclamò.
Lui sorrise. — Sì, io.
— Aspetta un attimo.
Oberg attese mentre Tate attivava una procedura di massima sicurezza, sollevando il terminal dall’incarico di registrare e archiviare la telefonata. L’uomo, probabilmente coetaneo di Oberg, aveva la faccia butterata e l’espressione ansiosa. — Mi hai giocato proprio un bel tiro! — protestò.
— Avevo bisogno del tuo aiuto.
— Bella scusa! Tutti sanno che ti sei giocato il posto, là in Brasile. Brutto affare, Steve.
— Non ti sto facendo una telefonata ufficiale.
— Potevi risparmiartela comunque. Non siamo amici.
— Siamo amici di vecchia data, invece — replicò Oberg.
— Amici un cavolo!
Ma era vero. Se non proprio amici, erano almeno camerati, colleghi. Tate era stato il battistrada del plotone di Oberg.
L’esperienza non li aveva uniti più di tanto; dopo la guerra si erano rivisti solo un paio di volte. Ma avevano condotto carriere parallele e tra loro era rimasto un tacito legame, una specie di reciproco impegno di lealtà.
— Voglio tutto il materiale che puoi recuperare a proposito dei tre americani — disse Oberg. — Immagino che tu abbia visto i fascicoli della SUDAM. C’era senz’altro qualcosa.
— Non è un settore di mia competenza.
— Però hai libero accesso agli archivi.
— Non sono il tuo cane. Non corro a prendere l’osso perché me lo ordini tu. — Tate sembrò sulle spine. — Ti hanno già detto di lasciar perdere.
— Ti chiedo un favore — insisté Oberg.
— Per quanto ne so, non ci sono novità. La donna e uno degli uomini abitavano nella Città Galleggiante, ma non esistono documenti di identificazione, a parte quelli che avevano comperato al mercato nero. Sono cose che sai già.
— C’era un terzo uomo.
— Keller. Be’, conosciamo il nome. Ma è stato tutto archiviato dopo che te ne sei andato. Steve, mi senti? Il caso non interessa più a nessuno.
— Controlla ancora tutto — chiese ancora Oberg. — Per favore.
— Dammi il numero dove posso trovarti. Ti richiamerò.
— Chiamerò io — promise Oberg, e tolse la comunicazione.
Per un paio di giorni esplorò il suo circondario.
Era una zona squallida, a sud di un quartiere industriale e a poca distanza dalla terraferma, dove la maggior parte degli abitanti, di giorno, andava a lavorare. Ma di notte, le passerelle si accendevano di lanterne di carta e le insegne dei bar e delle discoteche brillavano di una luce accattivante. Il traffico si invertiva, e gli abitanti della terraferma si avventuravano tra i canali in cerca di piaceri illeciti. Questi ultimi erano più leggendari che reali, da quel che Oberg poteva capire. Tuttavia, una certa attività illegale non mancava.
La droga, per esempio. Del resto, la droga era dappertutto. Era ormai un dato di fatto che l’economia non potesse funzionare, o almeno prosperare, senza il grosso giro di stimolanti, accrescitori di QI e neuropeptidi composti, una vendita nelle strade o ottenuti su prescrizione o acquistati per strada. Oberg aveva lavorato anche con la squadra narcotici e si era accorto molto presto che nessuno aveva davvero interesse a stroncare quel traffico. Molti degli agenti che conosceva facevano uso in prima persona di stimolanti neurochimici, oppure arrotondavano il bilancio familiare grazie alla droga. Spesso, le due cose andavano di pari passo. Era l’iniziativa privata.
Ma la Città Galleggiante rendeva quel traffico molto più agile. Non c’erano funzionari governativi pronti a chiedere una tangente, e gli unici intralci erano costituiti dal tentativo di immischiarsi da parte dei filippini o degli indiani dell’est. Di solito, la rete di distribuzione era fondata su contatti personali. E questo, per Oberg, costituiva un vantaggio.
Frequentò per tre notti un bar che si chiamava Nettuno, che ospitava quasi esclusivamente visitatori della terraferma. Osservò il movimento delle barche, le cameriere, il flusso ininterrotto di alcolici al banco. In particolare sorvegliò un ragazzino pallido e magro che occupava un tavolino sul retro, lo stesso per tre sere consecutive, e che ogni tanto faceva due passi fuori con uno degli avventori uscendo da una porta secondaria che si affacciava su un canale di scarico. Il ragazzo non era un adescatore, c’erano altri più attenti e raffinati addetti a quel compito. Sembrava piuttpsto uno spacciatore, un rappresentante di ciò che poteva offrire il mercato. Teneva le mani infilate nelle tasche di una giacca decisamente larga, e c’era da scommettere che quando le tirava fuori erano piene di pillole, polveri e tamponi.
La quarta notte, Oberg gli si avvicinò.
— Vorrei acquistare della droga — gli disse in tono sommesso.
Il ragazzino lo guardò, divertito. — Voi vorreste cosa?
Oberg gli mostrò la fialetta trovata nello studio di Teresa. Fece cadere la pillola nera e resinosa nel palmo della mano e la mise in modo che il ragazzo potesse vederla bene.
Lui rise e distolse lo sguardo. — Merda — commentò.
— Sono serio — replicò Oberg.
— Me lo immagino. — Il ragazzino tamburellò con le dita sul tavolo.
Forse usava lui stesso qualche stimolante, pensò Oberg. Uno stimolante che pompava energia chimica dai suoi neuroni. Strepito di giorno e notti in bianco. Era patetico, e comunque lui non sopportava la condiscendenza di quel ragazzino. — Posso pagare — gli assicurò.
Il ragazzo gli diede una seconda occhiata. — Volete acquistarne una certa quantità? Io non vendo noccioline.
— La quantità che preferisci.
— Bene.
Il ragazzo lo condusse fuori.
La passerella era stretta e buia. Con ogni probabilità, veniva usata per buttare la spazzatura. Si affacciava su un canale di scarico delle acque nere che, in condotti aperti, giungevano fino al mare La passerella era illuminata da un’unica lampada al sodio e dall’altra parte del canale si vedeva solo il muro scabro di un magazzino abbandonato. Dalla porta del bar, chiusa, filtrava l’eco lontana della musica. Il suono sembrava un po’ anemico.
Il ragazzo pescò in una delle innumerevoli tasche della giacca e tirò fuori una manciata sudaticcia di pillole. Il loro rivestimento scintillò sotto la luce nuda della lampada. Erano piccole e nere. — Ho solo queste — disse il ragazzo, già stanco della trattativa. — Però posso procurartene altre per martedì… Ehi!
Oberg protese il pugno e batté con forza sulla mano del ragazzo, spingendola via. Le pillole descrissero un arco, catturarono un riflesso di luce e caddero nel canale senza fare rumore.
Il ragazzo le fissò, sbalordito. — Figlio di puttana! — Nessuno gli aveva mai giocato un tiro del genere. Oberg avrebbe potuto essere chiunque, un nuovo concorrente o un agente della Narcotici, ma il ragazzo aveva trattato solo con veri clienti e non si aspettava niente del genere. Rimase a fissarlo, sorpreso e confuso.
Oberg aspettò.
Il ragazzo socchiuse gli occhi.
— Puoi anche buttare quelle fottute pillole nel canale, se vuoi — disse alla fine. — Però me le paghi. Fuori i soldi, stronzo. — Tolse un coltello da sotto la cintura.
Oberg fu più svelto di lui. Si scansò, gli prese il braccio e gli strappò l’arma. Poi gliela puntò alla gola.
Avvertì un piacere che non sentiva da anni. Un’eccitazione di cui aveva costantemente sentito la mancanza. Ma non era il momento di crogiolarsi in simili pensieri.
Cane sciolto, pensò, quasi con un senso di vertigine.
Il ragazzo era pallido e aveva gli occhi sgranati.
— Dimmi dove le hai prese — ordinò Oberg.
— Vaffanculo — replicò lui, con un filo di voce.
Oberg lasciò che la lama tracciasse una sottile linea di sangue. Alla luce della lampada il sangue sembrò chiaro e oleoso. Il ragazzo cercò di liberarsi, senza risultato.
— Dimmelo — insisté lui.
Ci volle un po’ di tempo, ma alla fine riuscì a farsi dire quattro nomi e quattro indirizzi approssimativi. Sarebbero stati utili per rintracciare la donna, nel caso che Tate non ottenesse nessuna informazione utile. Il ragazzo si rilassò, intuendo che Oberg era riuscito ad avere ciò che voleva. La faccenda era chiusa.
Chiusa, infatti. Ma non nel senso che intendeva lui. Con decisione, Oberg affondò il coltello nella gola del ragazzo, poi quasi senza sforzo sollevò il corpo sopra la ringhiera per buttarlo nel canale. Si udì un singulto strozzato, un tonfo, poi più nulla.
Era piacevole. Altamente gratificante.
Oberg pulì con un fazzoletto la lama del coltello, poi buttò anche il fazzoletto nel canale.
Il coltello lo portò a casa.
Il passato era morto e sepolto, pensò. E così doveva essere.
A volte aveva qualche problema d’insonnia. Come quella notte, ad esempio. In parte, la colpa era dell’adrenalina che si era riversata nel suo corpo al momento della morte del ragazzo; in parte era un’eccitazione più misteriosa.
Nei suoi sogni peggiori era sempre in Brasile, durante la guerra, impegnato in quelle che il comando definiva "spedizioni punitive" contro fattorie e villaggi colpevoli di appoggiare la guerriglia. La gente che uccideva finiva sempre per rialzarsi e puntare l’indice contro di lui, protestando la propria innocenza. Lui li uccideva di nuovo due, tre, mille volte. Loro si rialzavano, tetri, e cominciavano a ripetere ossessivamente il suo nome.
In Virginia aveva toccato Tavitch quando Tavitch aveva in mano la pietra. Il prigioniero l’aveva guardato negli occhi e aveva visto proprio quei sogni. Solo che avevano smesso di essere sogni. Era quella la cosa terribile. In qualche modo, attraverso Tavitch e attraverso la pietra esotica, i sogni si erano trasformati in realtà. I morti si erano ostinatamente rialzati e avevano cominciato a ripetere il suo nome.
Oberg giacque nel buio, perseguitato dai ricordi. Era innaturale. Un trucco alieno, uno scherzo della memoria. Il passato non c’era più, i morti erano morti e non parlavano. E poi, tutti sono destinati a morire. Lui stesso, un giorno, sarebbe stato ridotto al silenzio. Era nell’ordine delle cose: il compiacente oceano dell’oblio avrebbe coperto tutto. Era un assioma sacro, che rendeva sopportabile la vita. Non bisognava metterlo in discussione.
Rassicurato, riuscì a rilassarsi e a raggiungere finalmente un sonno calmo come il vasto e silenzioso oceano. Non fece sogni. E si svegliò con la sua risoluzione ben fissa nella mente.
Quella mattina fece una seconda telefonata a Tate.
— Keller è un Angelo — l’informò l’amico. — Lavora per un produttore indipendente che si chiama Vasquez. In questo momento si trova a Los Angeles. Probabilmente è occupato a decodificare il materiale negli studi della Rete. — Fissò Oberg con aria colpevole. — Immagino che ti basti.
— Sì — confermò Oberg.
— Sei pazzo, Steve. Lo sai, vero? Sei un fanatico stronzo.
Se era vero, non gli importava.
Il monitor si oscurò e Oberg rimase a fissarvi per qualche secondo la propria immagine riflessa.