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Uccidere Keller non era del tutto necessario, anche se certamente gratificante, e Oberg aveva deciso di farlo sfruttando al meglio le sue capacità professionali. Un omicidio all’interno degli studi della rete avrebbe allarmato troppe persone. Dunque si era preparato.

Lo colpì una sola volta, e l’Angelo cadde al suolo, stordito. Senza perdere tempo, Oberg gli legò le mani con del nastro adesivo metallizzato e usò un pezzo dello stesso nastro per tappargli la bocca. Gli occhi di Keller erano chiusi. Un Angelo accecato, pensò. Un Angelo messo a tacere. Continuò il lavoro con metodo. Lo girò bocconi e gli mise un piede sulla schiena per immobilizzarlo. Tolse dalla tasca dei pantaloni un minuscolo bisturi e un microcircuito munito di piccolissimi ganci.

Aveva acquistato l’occorrente al mercato nero, da un neurotecnico che lavorava fuori dalla Città Galleggiante. Il microcircuito era di quelli venduti sul mercato delle droghe elettroniche, abilmente modificato. Inserito nella presa dietro la nuca di Keller avrebbe inviato pulsazioni elettriche nei fili dell’impianto neurologico, stimolando i centri di compensazione nel suo cervello. Ma Oberg aveva chiesto specificamente al tecnico di sostituire la fonte di elettricità originale con una più potente.

— È una follia — gli aveva detto il tecnico. — Manderete quell’uomo in corto circuito. Non sarà più un piacere, ma un dolore sovrumano! Il più completo disorientamento. La vittima, perché questo sarebbe, si troverà con il cervello fuso nel giro di qualche ora. Un giorno al massimo. Precipiterà all’ultimo stadio della psicosi da assuefazione. Un vero e proprio omicidio.

Di conseguenza, Oberg aveva dovuto sborsare di più.

Usò il bisturi per incidere la pelle. La presa era stata aperta di recente e l’operazione risultò quindi più semplice. Tamponò il sangue con un fazzoletto. Sotto lo strato di derma, la superficie oleosa colore rame mandava bagliori di luce. Keller aveva sicuramente avvertito il dolore del taglio ma non era ancora del tutto sveglio. Oberg installò in fretta il microcircuito, senza attivarlo.

Smise di occuparsi dell’uomo e si girò verso il decodificatore di memoria.

Ebbe bisogno di un paio di minuti per individuare il metodo di archiviazione di Keller e selezionare un momento in particolare. Si augurò che non fosse stato cancellato proprio ciò che voleva. Per fortuna la registrazione che riguardava l’ultima fase del viaggio era ancora integra e completa. Accelerò il tempo di proiezione e osservò con attenzione lo schermo.

Il tempo scorreva come acqua. Le giornate si susseguivano una dopo l’altra. Ogni tanto, Oberg fermava un’immagine per guardarla meglio. Riconobbe il porto di Belem, l’aeroporto e una stretta pista d’atterraggio in Costa Rica. Poi vide un grosso aereo di linea americano abbassarsi sulla città di Los Angeles. Le facce e le caratteristiche somatiche erano state alterate, ma lui fu in grado di identificare Byron Ostler e Teresa Rafael semplicemente dalla frequenza con cui comparivano nel filmato. Adesso stava per giungere ciò che lo interessava: una baracca chissà dove nella Città Galleggiante, con mobili da poco prezzo e finestre polverose. Quello era il posto dove si erano stabiliti, pensò Oberg. Fece tornare indietro la registrazione e seguì attentamente il percorso fino alla terraferma e viceversa. La baracca si trovava nel settore nord della Città. Non aveva un indirizzo preciso, in mezzo a quel labirinto di balsas e di canali, ma il percorso era abbastanza semplice da memorizzare. Lui ci riuscì.

Guardò di nuovo Keller.

Era sveglio, adesso, e lo fissava con gli occhi sgranati e pieni di paura.

Oberg si girò verso la tastiera e ordinò una cancellazione totale. La macchina fece una pausa e poi chiese se davvero dovesse annullare tutti i contenuti della registrazione. Oberg batté la conferma e rimase a guardare mentre sui monitor si verificava qualcosa di molto simile a un’apocalisse. Cuiaba svanì e il Rio delle Amazzoni seguì in breve la stessa sorte. Pau Seco scomparve, insieme a Belem. Tutto si perse nel caos, i segnali acustici divennero rumori e la registrazione di Keller evaporò nell’aria come se non fosse mai esistita.

Oberg sorrise.

Keller sbatté le palpebre. Era pallidissimo.

Oberg aveva parcheggiato la sua auto proprio davanti alla cabina di montaggio. Non gli fu difficile rimettere in piedi Keller e farlo salire a bordo senza che nessuno li vedesse. La guardia al cancello d’ingresso non alzò nemmeno lo sguardo quando la macchina gli passò davanti. Se ne andarono indisturbati.

Oberg guidò per poco più di un chilometro lungo una strada tracciata per interrompere eventuali incendi sulla collina. Quando gli sembrò di aver trovato il punto giusto, si fermò e allungò il braccio per aprire la portiera di fianco al suo prigioniero. Avevano raggiunto una zona deserta, su cui sorgevano le torri di vecchi pozzi petroliferi ormai arrugginite. La strada era cosparsa di bottiglie vuote e di lattine accartocciate che luccicavano sotto il sole. Keller lo fissava, e attendeva le sue mosse con una calma insolita.

Oberg gli mise la mano dietro la testa, con grottesca dolcezza. Bastò la semplice pressione dell’unghia del pollice per attivare il microcircuito.

Il viso di Keller tradì uno spasmo di dolore.

Oberg lo spinse fuori dalla macchina con il piede.

Lui cadde nell’erba alta, morente. La speranza che qualcuno lo vedesse era nulla.

Oberg chiuse la portiera, pulì il pollice insanguinato nel fazzoletto e ripartì in direzione del mare.

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