8

— Sembra un inferno — commentò Keller.

— È un inferno — confermò Ng, gaio. — Ma non avete ancora visto il peggio.

Erano arrivati dall’ampia autostrada proveniente da Cuiaba. Ng guidava un autocarro scassato carico a metà di carne surgelata. Era il suo lavoro diurno, spiegò. Riforniva le città dormitorio affollate di foraos speranzosi e di sfortunati formigas. Rendeva bene, disse. Non raccontò quale fosse il suo lavoro notturno.

Da Cuiaba il viaggio era piuttosto lungo. Teresa e Byron sonnecchiarono nel retro della grossa cabina, mentre Keller rimase seduto di fianco a Ng. Il vietnamita non sprecò molte parole, ma quelle poche bastarono a confermare i sospetti di Keller. L’uomo era stato un soldato e aveva fatto parte dei commandos vietnamiti impegnati nell’offensiva sull’Anello del Pacifico. Ray aveva sempre avuto un po’ di paura dei vietnamiti. Erano soldati scelti, selezionati alla nascita e addestrati nei grandi asili militari alla periferia di Danang. Il loro corpo era addestrato a produrre spontaneamente alte quantità di serotonina e di norepinefrina e tassi bassissimi di monoammina ossidasi. In altre parole, erano aggressivi e prepotenti, e ricercavano l’eccitazione a tutti i costi. Lo stile di guida di Ng ne era un esempio: troppo veloce, accompagnato da un sorrisetto fisso e tirato. E quando il vietnamita affrontò una curva, la manica gli scivolò sul braccio scoprendo una piccola doppia X azzurra disegnata sotto la pelle. Il tatuaggio di Danang.

Raggiunsero Pau Seco poco dopo l’alba. Keller scorse il pennacchio di polvere all’orizzonte piegarsi verso sud. — Pau Seco? — chiese. Ng annuì. Un’ora più tardi raggiunsero l’estrema periferia della vecchia città, ridotta a un esempio su grande scala della povertà endemica del Brasile. Su e giù per le colline a panettone le baracche si susseguivano senza sosta, tutte uguali, aggregati precari di lamiera ondulata, cartone e carta catramata. Keller osservò gli uomini emaciati che si raccoglievano sulla strada e che gli restituivano lo sguardo senza curiosità, mentre il grosso automezzo li oltrepassava.

Formigas - spiegò Ng. — Minatori senza permesso, e a volte semplici osservatori. Vengono qui nella speranza che qualcuno li prenda a giornata per lavorare nella miniera. I garimpeiros sono i proprietari legali della terra. Assumono le formigas perché scavino al posto loro. Promettono una paga misera, o magari una percentuale sul guadagno. Sempre che il guadagno ci sia, alla fine. Ma questi poveracci sono in troppi, l’offerta supera la domanda. La maggior parte di loro passa la giornata nei recinti dei manovali, sperando che qualcuno ci lasci la pelle. È il modo migliore per trovare lavoro.

In quel momento raggiunsero un’altura e Keller vide per la prima volta la miniera.

Pau Seco, pensò. L’orrendo centro del mondo.

Ng condusse l’automezzo al riparo di un grosso edificio che funzionava da fornace e smontò, scrollandosi la polvere dai pantaloni. Condusse Keller sulla cima di una montagnola e indicò con un gesto d’orgoglio la fossa della miniera. — Ecco l’inferno — disse.

Avrebbe potuto esserlo davvero. Era una specie di canyon di fango rosso e di argilla bianca, così immenso che gli alberi sul bordo più distante sembravano grigi. Keller eseguì una panoramica professionale, da est a ovest, in modo da poterla utilizzare in sede di montaggio per il suo reportage. Era una ripresa grandiosa.

— Qui, una volta, c’era una pianura — spiegò Ng. — Una pianura coperta dalla giungla. Poi arrivarono i garimpeiros, gli stranieri e infine lo stato, a pretendere il suo venticinque per cento. Quando bruciarono tutti gli alberi le ceneri si sparsero nei dintorni per chilometri e chilometri.

Sembrava una scena tratta da un altro secolo. Formigas che si arrampicavano su per i pendii come formiche vere, nel clamore assordante degli arnesi meccanici e delle voci umane. Forse gli Atzechi avevano estratto così il loro oro, pensò Keller, e si sentì cogliere da un senso di vertigine, come di fronte a un abisso, non solo di spazio ma anche di tempo.


Ng abitava in una baracca nella città vecchia, con vista sulla miniera e sui recinti dei lavoratori. La città vecchia si svegliava di notte. Era, come spiegò lui stesso, un concentrato di bordelli, banche e bar. Ogni giorno, almeno due delle migliaia di garimpeiros presenti diventavano ricchi: la città esisteva proprio per prosciugarli di quelle ricchezze. Di tanto in tanto, si udiva qualche sparo.

Keller era seduto nell’anticamera di legno della baracca, beveva con cautela da una bottiglia di cachaca bianca e ascoltava Ng che spiegava in quale guaio si trovavano.

Il vietnamita parlava un inglese molto elementare, con una lieve inflessione americana. — Non conosco Cruz Wexler — disse, stringendosi nelle spalle. — Il suo nome non significa niente per me. Due mesi fa sono stato avvicinato da un uomo che ha detto di essere un ispettore e di lavorare per la SUDAM. Era un brasiliano. Aveva le credenziali della SUDAM, ed era ben vestito. Mi confidò che c’era un acquirente interessato a comperare una pietra di profondità e mi chiese di procurargliene una. — Si stirò, nello spazio consentito dai tre tiranti che tenevano la baracca ancorata al fango, ed esaminò un buco nella propria maglietta. — Be’, non è una cosa facile. La sorveglianza è molto stretta. L’uomo ha detto una cifra; la cifra era interessante, e così gli ho promesso che avrei fatto quello che potevo.

— È tutto sistemato? — chiese Byron, speranzoso.

— Dovreste avere la pietra domani. È meglio fare in fretta. Ma dovete capire… voi siete qui come corrieri, vero?

— Sì — confermò Byron. — Dobbiamo prendere la pietra e portarla fuori dal paese.

— Nessuno vi ha detto che può essere pericoloso?

— Abbiamo i documenti…

— Carta! — Ng scrollò la testa. — Se fosse così semplice, qualsiasi forao con un po’ di cervello riuscirebbe a uscirne vivo. — Sogghignò. — Il contrabbando è scarso perché c’è un rigido controllo militare. In pratica si può fare quasi tutto, nella città vecchia. Ma ci sono i militari. Loro hanno i fucili e sparano. Il reato di cui stiamo parlando è ufficialmente punibile con la morte. Cioè, con un’esecuzione sommaria. Un processo — concluse con un sorriso ironico — sarebbe davvero insolito.

— Figlio di puttana! — esclamò Byron. — È una passeggiata, ha detto. Una fottuta vacanza! È una passeggiata al cimitero, ecco cos’è!

— Non preoccuparti — si intromise Teresa, con dolcezza.

— Ci ha fottuti!

— Byron, per favore…

— Maledizione — disse ancora Byron. Ma si sedette.

Lei si voltò verso Ng. — Se è così pericoloso, perché avete accettato di aiutarci?

Ng si appoggiò all’indietro, abbracciandosi le ginocchia.

— Mi annoio con facilità — rispose.


Ora riesco a sentirlo, pensò Teresa.

Nel cuore di quell’inferno, era così vicino. Sentiva dentro qualcosa che assomigliava a una fitta di dolore, all’amarezza di una vecchia perdita, a un attacco di malinconia.

Giaceva nel buio, nella baracca di Ng, rannicchiata su una stuoia, vicino al centro del mondo.

Malinconia, pensò, ma anche paura. Ormai poteva ammetterlo. Non era ingenua come Byron a volte sembrava pensare, ma la miniera l’aveva colta di sorpresa. L’aveva sconvolta con la sua brutalità, lo squallore, lo spreco di vite che vi si consumava. Non era inteso per diventare così, si disse.

Si rialzò a sedere nel buio. Attraverso le finestre senza vetri vedeva Pau Seco, stesa ai piedi della collina illuminata dalla luna. Qua e là brillavano delle torce, simili a stelle nell’oscurità.

Pensò agli Esotici, il popolo alato che aveva visto così spesso nelle sue visioni. Loro non le facevano paura, la sensazione della loro benevolenza era vivida e intensa. Eppure avevano qualcosa di profondamente diverso dagli uomini, qualcosa di più vitale che non la forma del corpo.

Non avrebbero mai creato niente di simile a Pau Seco. Non avrebbero mai immaginato che qualcuno potesse crearlo.

Teresa si sdraiò di nuovo nell’oscurità, stanca e confusa.

Non era stata del tutto un’idea sua venire fin lì. Era stato piuttosto un imperativo, qualcosa più da sentire che da comprendere, una specie di richiamo natio. La sua storia si perdeva nel buio, o meglio nelle fiamme che avevano distrutto la Città Galleggiante quattordici anni prima. La sua infanzia era un mistero. Era arrivata all’accampamento della Croce Rossa in condizioni pietose, ustionata, accecata dal fumo e praticamente muta. Era stata adottata, anche se l’adozione non era mai stata legalizzata, da una famiglia già numerosa di rifugiati guatemaltechi. Le avevano dato da mangiare, l’avevano rivestita e avevano cercato di imparare l’inglese da lei. Erano stati loro a chiamarla Teresa.

Lei era grata per le loro attenzioni, ma non si sentiva felice. Nel ricordo, quei giorni erano offuscati dal dolore e da un senso di perdita: aveva la straziante convinzione che qualcosa di estremamente prezioso le fosse stato sottratto. Si era affezionata a una bambola di pezza di nome Amy: gridava se qualcuno gliela portava via. Quando Amy cadde in un canale e scomparve sotto la superficie oleosa dell’acqua, lei pianse per una settimana. Si era adattata alla nuova vita abbastanza in fretta, ma l’angoscia senza nome non l’abbandonava mai… finché non aveva scoperto le pillole.

Una componente della famiglia, una donna grassa, di mezza età e di nome Rosita, che tutti chiamavano tia abuela, un giorno portò a casa le pillole dall’ospedale dove era stata ricoverata. Rosita soffriva di artrite reumatoide e prendeva le pillole per ricavarne, come diceva lei, sollievo. Erano narcotici analgesici, studiati per agire sui recettori di oppiacei del cervello. La donna era ormai assuefatta, ma alla clinica le avevano detto che le pillole non erano pericolose. L’assuefazione non sarebbe peggiorata, il che compensava il fatto che l’artrite non poteva migliorare.

Un pomeriggio, rimasta sola nella vecchia casa galleggiante della famiglia adottiva, Teresa rubò una pillola dal flacone di Rosita e la nascose sotto il cuscino. Aveva agito d’impulso, in parte per curiosità e in parte nella speranza che la pillola le garantisse lo stesso benessere proclamato da Rosita. Quella notte, a letto, la inghiottì.

L’effetto fu profondo e istantaneo. Dentro di lei, un’insospettata marea di angosce e sensi di colpa parve ritrarsi di colpo. Teresa chiuse gli occhi, assaporando il calore del letto, e sorrise per la prima volta dopo anni.

Tia Rosita aveva ragione, pensò. Sollievo.

Rosita andava a ritirare la ricetta due volte al mese. Due volte al mese, Teresa rubava una pillola dal flacone. Rosita non sembrava accorgersi del furto oppure, anche se se ne era accorta, non sospettava di lei. E Teresa non osava rubarne di più, per paura di attirare l’attenzione su di sé.

In ogni caso, viveva per quei momenti. Le pillole sembravano scoppiare dentro di lei, minuscole esplosioni di pace e di purezza. Incominciò a capire il senso di parole come solitudine o perdita e capì per la prima volta che potevano anche non avere un significato permanente o universale.

Aveva già sedici anni quando uno dei ragazzi che lei ormai considerava suoi fratelli, uno spilungone ventenne di nome Ruy, la condusse verso la zona deserta della darsena e le mostrò una manciata di compresse rosa e gialle, le stesse che Rosita si procurava in ospedale.

Lei non riuscì a trattenersi. Cercò di afferrarle. Ruy ritirò la mano, ridendo. Alle sue spalle, un volo di gabbiani si alzò dalle palificazioni di cemento. — Proprio come pensavo — disse il ragazzo.

Lei fissò con espressione avida il suo pugno serrato. — Puoi averne altre?

— Tutte quelle che vuoi.

— Posso comperarle?

Acaso. - Lui alzò le spalle, con sussiego. Forse.

— Quanto vuoi?

— Quanto offri?

Lei non aveva niente da offrire. Frequentava una scuola gratuita nella parte nord della città, la sua insegnante di inglese la definiva "una buona allieva" e quella di educazione artistica diceva che aveva talento. Ma a lei non importava nulla della scuola. Poteva anche lasciarla, pensò, trovarsi un lavoro e guadagnare qualcosa… acaso.

— Quando avrai qualcosa da offrirmi — disse Ruy, allontanandosi con le pillole ancora imprigionate nel pugno, mentre lei si struggeva — allora potremo riparlarne.

Rosita, più vecchia e rugosa ma non meno vigile, le impedì di lasciare la scuola. — Che tipo di lavoro credi di poter trovare? Vuoi forse finire a fare la puttana in terraferma, come tua sorella Livia? — Scrollò la testa. — L’istruzione può salvarti, capisci? C’è troppa gente senza un pezzo di carta in mano. Senza documenti, senza carta verde, senza attestati di proprietà. Tu sei fortunata ad avere una scuola. Tienitela cara, finché c’è.

Fu la rabbia di Rosita, più che ogni altra considerazione pratica, a farla desistere. Teresa continuò ad andare a scuola, mantenne le sue abitudini e ignorò Ruy che continuava a tentarla con le sue riserve di pillole apparentemente inesauribili. Finché, un giorno, l’insegnante di educazione artistica si complimentò con lei per un suo collage. Aveva realmente talento, disse. Avrebbe fatto strada.

Era una strana idea. Teresa si divertiva a mettere insieme collages e sculture, e a volte, mentre lo faceva, si sentiva bene come quando prendeva le pillole. Era come se qualcun altro eseguisse il lavoro servendosi delle sue mani, magari una parte di lei che era andata persa nell’incendio. Si abbandonava al lavoro e non si accorgeva più del tempo che passava. Una sensazione splendida.

Non aveva mai pensato di ricavare denaro da quell’attività. Le venne in mente all’improvviso, e le sembrò una buona soluzione. Una domenica si preparò una colazione al sacco e attraverso i ponti di barche si diresse verso le gallerie d’arte che si trovavano sulla superstrada costiera, in terraferma. Il continente la spaventava. Non era abituata al rombo delle auto e degli autocarri. Nella Città Galleggiante circolavano solo poche motolance, e in genere solo sui canali principali. E poi c’era l’inquietante solidità del terreno sotto i suoi piedi. Pietre, sabbia e sassi dovunque girasse lo sguardo.

Esaminò i pezzi in vendita in quei luoghi circondati dalla terra. Pitture su cristallo, sculture in gesso o in materiale di scarto. Per la maggior parte provenivano dalla Città Galleggiante ed erano considerate espressione artistica popolare, a giudicare dai commenti della gente. Alcuni pezzi erano veramente belli, altri meno, ma Teresa si rese conto con una certa sorpresa che la sua insegnante aveva ragione. Non c’era niente che non sapesse fare anche lei. Le mancavano gli arnesi per portare a termine alcuni dei progetti che aveva in mente, ma i lavori già eseguiti con pezzi di metallo racimolati qua e là erano buoni almeno quanto la metà di quelli che aveva visto nelle vetrine. Era la sua occasione, pensò. Due settimane più tardi ritornò in terraferma con tre dei suoi pezzi. Scelse una galleria che si chiamava "Arte di Mare" e mostrò i lavori alla proprietaria, una donna poco più giovane di Rosita. La signora Whitney, così si chiamava, all’inizio si mostrò scettica, ma cambiò idea quando Teresa tolse la tela cerata con cui aveva protetto le sculture. La donna spalancò gli occhi, molto colpita, poi li socchiuse. — Un’esecuzione molto matura, per una ragazzina della tua età — commentò.

— Li comperate? — chiese Teresa.

— Noi vendiamo su commissione. Ma posso offrirti un anticipo.

Era un’elemosina, come Teresa ebbe modo di imparare più tardi. Una cifra ridicola. Eppure era la più grossa quantità di denaro che avesse mai visto in una volta sola.

La portò a Ruy e gliene offrì la metà. Lui le diede tante pillole da riempire entrambe le mani aperte a conchiglia.

Quella notte Teresa ne prese due.

Sollievo. Fluiva attraverso di lei come un fiume. Razionò le pillole a una ogni notte, per farle durare, e nel tempo libero iniziò a lavorare a un’altra scultura da portare alla signora Whitney. La donna gliela pagò il doppio, e fu un bene, perché anche le pretese di Ruy avevano cominciato ad aumentare. Teresa pagò, ma cominciò a odiarlo. Ruy era diventato all’improvviso molto importante per lei, tanto che prese l’abitudine di osservarlo con attenzione. Il ragazzo camminava con aria spavalda su e giù per i pontoni, con il bacino proteso in avanti. — Muy macho - commentava Rosita quando lui ostentava quelle pose anche in casa, ma non c’era più nessuno in grado di fargli cambiare atteggiamento. Stazionava con i ragazzi della sua risma vicino alle pareti della darsena coperte di graffiti; Teresa lo aveva visto spesso vendere le pillole nella zona. Un pomeriggio, rosa dal rancore, marinò la scuola e lo seguì da lontano, fino a una piccola baracca a metà strada verso la terraferma, nella parte nord della Città Galleggiante. Aveva l’aspetto di un distributore di benzina e riversava gli scoli nelle acque putride del canale sottostante. Ruy entrò nella baracca con il portafoglio in mano e ne uscì con un sacchetto di carta rigonfio.

Teresa raccolse tutto il proprio coraggio, e quando fu certa che Ruy se n’era andato, andò a bussare a quella porta.

L’uomo che venne ad aprire era vecchio, magro e con gli occhi infossati. La scrutò a lungo e poi, muovendo a fatica le labbra aride, domandò: — Che cosa diavolo vuoi?

— Delle pillole — rispose lei, ormai in preda al panico.

— Pillole! Che cosa ti fa credere che ne abbia?

— Ruy… è mio fratello — spiegò Teresa, disperata.

L’espressione dell’uomo si addolci. — Bene — commentò. — La sorellina di Ruy ha deciso di tagliar fuori l’intermediario. — Annuì. — Ruy si piscerebbe addosso, immagino, se sapesse che sei qui.

— Posso pagare — disse lei.

— Dimmi che cosa vuoi.

Teresa descrisse le capsule rosa e gialle.

— Capisco — brontolò lui. — Se vuoi proprio quelle… Ma è uno spreco di denaro, se ti interessa la mia opinione. — Rovistò nel cassetto di una vecchia scrivania in fondo alla sua unica stanza, che sembrava ondeggiare in modo alquanto precario. Lei guardò senza oltrepassare la soglia. — Credo che queste ti piacerebbero di più.

Erano minuscole pastiglie dal rivestimento nero, raccolte in una busta di carta. Forse un centinaio. Teresa le guardò con espressione dubbiosa. — Fanno lo stesso effetto?

— Un effetto migliore. Non alleviano il dolore, capisci? Procurano la felicità.

Stordita, lei gli consegnò il denaro. Solo mentre compiva il lungo viaggio di ritorno le venne il dubbio di essersi fatta ingannare. Le pillole avrebbero anche potuto essere di zucchero. O di chissà quale altra porcheria. La notte, a letto, rimase a lungo incerta prima di decidersi a prenderne una. E se fossero state velenose? E se fosse morta?

Purtroppo, i rifornimenti ottenuti da Ruy si erano esauriti e lei non osava rubarle dal flacone di Rosita. Il bisogno fu più forte della diffidenza. Teresa inghiottì una pillola nera, prima che qualcosa le facesse cambiare idea.

Dal suo stomaco iniziò gradualmente a diffondersi una sensazione di piacere che in breve divenne assoluta. Non avrebbe mai potuto desiderare niente di più. Era la soddisfazione generata da un lavoro riuscito, dalla certezza di essere amati e, soprattutto, dalla possibilità di dimenticare. Sdraiata sul materasso, cullata dal lento ondeggiare dell’acqua, avrebbe anche potuto essere l’ultima persona al mondo. Amava quelle nuove pillole, pensò. Erano davvero migliori. Sì. E una era abbastanza. In principio, almeno.

La nuova soluzione le permise di vivere bene per mesi. I profitti di ciò che vendeva alla signora Whitney le permettevano di rifornirsi regolarmente. Aveva cominciato a prendere una pillola anche di mattina e passava nell’ozio giornate intere che a lei sembravano poche ore. Avrebbe potuto continuare in quel modo a tempo indefinito se non fosse stato per Ruy, che aveva scoperto ben presto di essere stato estromesso dal gioco, con conseguente perdita di guadagno, ed era venuto a conoscenza dei suoi accordi diretti con il fornitore. Il giovane si era vendicato mostrando a Rosita la scatola dove Teresa teneva le pillole, nascosta sotto un’asse del pavimento, sotto il letto. Tia abuela Rosita, irritata e ferita, aveva preso le pillole e le aveva buttate a una a una nelle condotte di scarico pubbliche. Teresa rimase così sconvolta nel vedere la sua riserva di felicità finire nelle fognature che, senza mostrare la minima emozione, impacchettò le sue cose, prese ciò che rimaneva del denaro guadagnato alla galleria, e se ne andò.

Diversi anni più tardi aveva cercato di ritornare, con l’idea di scusarsi con Rosita e di riconciliarsi con lei… ma l’atmosfera del quartiere si era molto deteriorata e la sua famiglia di adozione aveva cambiato zona. Se n’erano andati da un giorno all’altro, le aveva raccontato un anziano vicino, e nessuno sapeva che fine avessero fatto. A parte Ruy, naturalmente. Lui era rimasto ucciso in una rissa all’arma bianca.

Ma prima, lasciata la famiglia adottiva, Teresa aveva messo insieme uno studio di fortuna di fronte a Long Beach e dopo un po’ aveva scovato un altro fornitore di pillole nere. Venne a sapere che erano prodotti di laboratorio, encefaline sintetiche, molto potenti e in grado di creare una forte assuefazione. Ma questo non importava, lei non si sarebbe fatta trascinare. Sapeva quello che stava facendo. Cominciò a frequentare altri artisti della Città Galleggiante e capì che non era sola. Molti altri, come lei, dipendevano da sostanze chimiche, chi in un modo chi nell’altro. Alcuni usavano addirittura le pietre Esotiche, gli oneiroliti provenienti dalle miniere brasiliane. Ma quella era un’altra cosa, pensò. Troppo strana, non del genere che interessava a lei.

Non seppe mai dire il momento esatto in cui la faccenda le prese la mano. Il limite che aveva oltrepassato era invisibile. Stranamente l’assuefazione non interferì in modo negativo con il suo lavoro. Semmai, accadde il contrario. Era come se quel qualcosa dentro di lei che era capace di creare opere d’arte, venisse addirittura stimolato dalla droga, nello stesso modo in cui un albero che sta per morire produce fiori e frutti con più abbondanza.

Le capitava a volte, nei momenti di lucidità, di notare un certo deterioramento. Lo percepiva come un cambiamento, non in se stessa, ma nell’ambiente che la circondava. Il suo studio le sembrava di colpo più piccolo; be’, sì, si era trasferita scegliendo la sistemazione più economica, per risparmiare sull’affitto. La sua immagine allo specchio era diventata più scarna, ma era colpa delle economie sul vitto, necessarie per far durare il denaro un po’ più a lungo. La situazione peggiorò in modo così graduale che non sembrò succedere assolutamente nulla, finché Teresa non si ritrovò sola nell’angolo di una vecchia stazione di servizio, con un materasso lurido e una ciotola piena di pillole. Una ciotola di felicità.

Sapeva che si stava uccidendo. L’idea della propria morte si insinuò nella sua mente con tanta facilità da sembrare alla fine inevitabile e familiare. , pensava, sto morendo. Eppure, morire in stato di grazia le sembrava meglio che vivere in una condizione di persistente angoscia. Forse era una specie di conto in sospeso che doveva pagare. Forse sarebbe stato meglio morire nel grande incendio.

Ma l’anoressia e la denutrizione l’avevano fatta ammalare, i gomiti e le ginocchia le facevano male ed era quasi sempre febbricitante. Tornò a cercare sollievo nelle pillole rosa e gialle, e le aggiunse alla sua dieta ormai esclusivamente chimica. La combinazione l’aiutò per un certo periodo, ma a lungo andare il dolore fisico si ripresentò. A quel punto avrebbe accolto come un sollievo anche la morte, il suo corpo ormai distrutto quasi la implorava, ma lei non seppe mai decidersi a tentare il suicidio. Era come strisciare verso la morte senza poterla però affrontare direttamente. Se l’avesse guardata in faccia, qualcosa dentro di lei l’avrebbe riconosciuta, si sarebbe ribellato, le avrebbe impedito di compiere il grande salto. La frustrazione era disperante.

Conosceva Byron Ostler solo vagamente: apparteneva a quella cerchia di amici che ormai si era assottigliata. Lui non era un artista, ma commerciava in pietre esotiche. Ormai afflitta dal dolore costante, con la paura di prendere una dose esagerata di pillole, Teresa riconsiderò l’idea di usare le pietre dei sogni. Producevano delle visioni, dicevano i suoi amici artisti. Be’, lei non desiderava visioni, dal momento che ne aveva già anche troppe per conto suo. Ma le visioni, almeno, potevano scacciare il demone dell’angoscia. Valeva la pena di tentare.

Si sforzò di non far caso alla pietà che traspariva dal viso di quell’irsuto veterano in tuta consunta, quando andò a parlargli. Gli tese la mano con il denaro. Ormai gliene rimaneva ben poco. Ma lui non volle prenderlo. Sbatté le palpebre dietro gli occhiali a forma di luna piena e le regalò la pietra. Era piccola, di un colore azzurro pallido e dalla forma strana. Quando lei la prese, senza aspettarsi nulla, sentì la mano vibrare. — Fallo qui — le disse lui.

— Che cosa?

— Consideralo un favore personale — ripeté lui. — Fallo qui.

La visione fu intensa. Rimase in trance solo per un paio d’ore, riferì Byron, ma a lei sembrò un tempo infinito. Teresa vide, come pezzi di un mosaico, le immagini dal mondo lontano degli stranieri alati. Danzò come un turbine attraverso la storia. Stranamente, per quanto ci fossero miseria, dolore e sofferenza in ciò che vedeva, lei ne ricavò una certa forza. Era il vigore delle immagini a rianimarla, pensò. Quel fiume di vita, intrecciato in una doppia spirale, all’infinito.

Vide anche, per la prima volta, la bambina che avrebbe occupato in futuro tanta parte dei suoi sogni.

Indossava stracci al posto dei vestiti e scarpe da tennis legate con lo spago. — Devi cercarmi — le diceva in tono solenne. — Devi trovarmi. — E Teresa scoprì che quell’imperativo era dentro di lei, e forse c’era stato per tutto quel tempo. Sì, doveva trovarla.

Byron mise in moto la sua motolancia e la riportò nello studio nella zona sud della Città. Non era uno studio. Ora lo vedeva chiaramente. Era un angolo sordido in un edificio abbandonato. Teresa guardò la ciotola piena di pillole, con aria sgomenta.

— Posso chiamarti un dottore — disse Byron.

Lei si strinse nelle spalle. Stava morendo, ed era rassegnata ad accettarlo. Lo disse a Byron, ma proprio mentre lo diceva, sentì gonfiarsi dentro di sé un’inaspettata riluttanza. — Voglio usare ancora la pietra — mormorò.

— Allora lasciami portare qui un dottore. E del cibo. — Byron si guardò intorno. — E forse sarà meglio che ripulisca un po’ questo posto. Cristo, è un cesso.

Lei acconsentì.

Il recupero fu molto duro. Il medico che Byron portò da lei era un rifugiato MD, che le iniettò subito delle vitamine e mise sotto controllo i suoi neuropeptidi con un monitor tascabile. Dopo, Byron la persuase a mangiare qualcosa.

La salute fu quasi un trauma. Il mondo le sembrò tinto da colori più vividi e persino il cibo ebbe un gusto migliore. Teresa ricominciò a lavorare. Con il denaro guadagnato, trovò una sistemazione più vicina a Byron. Cominciò a fare lunghe passeggiate fino al margine della darsena per guardare le nuvole che venivano dal mare. Non aveva smesso di desiderare le pillole, e il medico le disse che, probabilmente, la voglia le sarebbe rimasta per sempre, dato che era ormai impressa in modo indelebile nel suo organismo. Ma le pietre esotiche sembravano attenuare il desiderio. Teresa non capiva molto di ciò che vedeva in trance, ma tentò di riprodurre alcune immagini nel suo lavoro. Così, eseguì il primo dipinto su cristallo, un luminoso paesaggio alieno.

Sapeva che Byron si era innamorato di lei. E sapeva anche che lei non lo amava.

Per un certo periodo ci provò. Andò a vivere con lui, e fecero l’amore con tenerezza, se non con passione. Ma era un esperimento fallito in partenza, e lo sapevano entrambi. Lui la desiderava, le spiegò, ma non voleva che lei fosse spinta dalla semplice gratitudine.

Questo la fece sentire vuota e fredda. Teresa tentò di rassicurarsi, e anche di riaffermare una certa indipendenza, prendendosi altri amanti tra gli artisti che conosceva, ma lo sforzo si dimostrò vano. Il che la convinse di aver perso la capacità di amare, magari per colpa delle pillole.

Il suo legame ossessivo con gli oneiroliti si approfondì. Byron la presentò a Cruz Wexler, l’accademico che aveva scritto due libri sulle pietre e che dirigeva una specie di centro di ricerca fuorilegge nella vecchia proprietà di Carmel. Wexler, un uomo di mezza età, con un’espressione schietta e un enfisema progressivo e incurabile, si dimostrò entusiasta dei suoi lavori e li fece conoscere ad alcuni amici facoltosi. Così Teresa ricavò nuovi guadagni. Rimise a nuovo il suo studio nella Città Galleggiante e comperò attrezzi che non aveva mai potuto permettersi.

E quando una nuova inquietudine la sopraffece, insieme alla sensazione di essersi spinta fino ai limiti del probabile nella conoscenza degli oneiroliti senza aver ritrovato la propria completezza, fu ancora Cruz Wexler a darle una nuova speranza accennando all’esistenza di un nuovo tipo di pietre, quelle di profondità, che potevano fornire una risposta alle sue domande.

Lei avvertì un’ansia quasi fisica. — Posso averne una?

Lui sorrise. — Nessuno di noi può averla. Ho parlato con gli altri istituti di ricerca. I controlli sono severissimi.

Fu una delusione enorme. Le pietre riprodotte da Byron, sebbene generassero visioni del passato, non avevano mai risolto il mistero della sua prima infanzia. Qualche volta Teresa aveva rivisto l’incendio, un inferno di fumo e fiamme, ma niente che riguardasse se stessa. Continuava a ignorare dov’era nata e chi fossero i suoi genitori. I ricordi erano rimossi molto in profondità, aveva detto Wexler. Lei aveva cominciato a credere che le risposte che voleva fossero sepolte in un specie di pozzo buio. Quando ne avesse trovato la chiave, anche lei sarebbe diventata una persona nuova.

Un mese più tardi, Wexler le aveva detto di aver organizzato un acquisto, non in Oriente ma in Brasile, a Pau Seco, proprio dove si trovava la miniera. Era una mossa dispendiosa e poco ortodossa, ma ne valeva la pena. La nuova pietra avrebbe contenuto tutte le risposte, la saggezza misteriosa, la gnosi finale. Teresa fu contagiata dal suo entusiasmo.

Aveva solo bisogno di un corriere, spiegò Wexler. Una persona incensurata, che non avesse contatti troppo stretti con lui.

Byron rimase di stucco quando Teresa si offrì volontaria. — Tu non ne sai niente… Cristo, a che cosa pensavi quando gli hai detto che saresti andata laggiù?

— Non capisci. Io ho bisogno di andare. — Erano ore che camminavano su e giù per i canali, accanto alle bancarelle galleggianti riparate dalle tende, con il sale che luccicava sui camminamenti sotto una fila di luci al vapore di sodio. Teresa lo prese per mano, intuendo che era davvero spaventato per lei e che il suo bizzarro e tormentato amore era più vivo che mai. — È molto importante per me. Non posso rinunciare a questa possibilità.

— Vengo con te — disse lui.

Lei acconsentì, perché Byron conosceva il luogo dove sarebbero andati e perché la sua intuizione poteva rivelarsi corretta. Forse l’impresa non era così semplice come aveva promesso Wexler. Acconsentì anche quando Byron decise di portare con loro l’Angelo della Rete, Raymond Keller, altro veterano. Ma le sue concessioni si erano fermate lì.

E così erano in Brasile.

Solo una finestra la separava da Pau Seco. Poteva sentirne l’odore. Avvertiva la vicinanza di quegli oggetti antichissimi, le pietre venute dalle stelle, frammenti dispersi sottoterra. Ma la miniera era un luogo vasto e orrendo, che aveva frantumato le sue speranze. Aveva rischiato la sua vita, pensò tristemente, insieme a quella di Byron e di Keller, per una voce che sentiva nella mente. Per un semplice sogno.

Per la sensazione di essersi persa. Una sensazione che provava da anni, da tutta la vita.

Aveva paura di mettersi a dormire. Ripensare alle minuscole pillole nere, le encefaline sintetiche, aveva risvegliato il vecchio desiderio. Se ne avesse avuta una, pensò, l’avrebbe presa. Ed era un’idea infida e pericolosa.

Fissò il cielo senza stelle oltre i vetri e si augurò che spuntasse presto l’alba.

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