25

Keller rimase per un certo tempo inerte, sul bordo della strada vicino al campo petrolifero abbandonato.

Il sole gli trapassava le palpebre chiuse, riempiendogli di stelle il buio della retina. I sassi sotto la schiena sembravano acuminati come punte di coltello. Quando un aereo passò nel cielo sopra la sua testa, il rombo si trasformò in una musica demenziale.

Voleva muoversi ma non poteva.

Aveva dei momenti di lucidità, di tanto in tanto, ma non lo facevano sentire meglio. Gli sembrava che in quella calma assoluta ed esagerata il mondo invadesse tutti i suoi sensi.

Naturalmente, capiva ciò che gli stava succedendo. Oberg gli aveva inserito qualcosa nella presa. Un microcircuito allucinogeno, forse, ma molto più potente di quelli in commercio. Qualcosa che lo avrebbe mandato rapidamente in corto circuito. Un metodo intelligente, per un omicidio.

Se nessuno lo trovava sarebbe morto, e da morto sarebbe stato solo un altro caso di overdose. E se qualcuno l’avesse trovato ancora vivo, lo avrebbe scambiato per un drogato all’ultimo stadio e lo avrebbe mandato a morire in ospedale. Niente prove, dunque niente omicidio.

La prospettiva era così incoraggiante da sconvolgerlo. L’elettricità che pulsava nei fili agì da amplificatore, stimolando il flusso di acetilcoline e inondandolo di dopamina.

Tutto gli risultava doloroso, persino il respiro. L’aria gli raschiava i polmoni come se fosse stata brace.

Ogni più piccolo movimento, anche una contrazione volontaria, diventava una tortura.

Aprì gli occhi una volta e il sole lo colpì come una lancia. Keller urlò.

Entrò e uscì dal delirio mille volte. Gli sembrò di essere di nuovo in Brasile, durante la guerra, nel campo di manioca vicino a Rondonia. L’elettricità liberò tutti i ricordi sepolti nella mente. Fu scosso da ripetute crisi di convulsioni e, durante uno di quegli attacchi, ruppe il nastro metallizzato che Oberg aveva usato per legargli le mani. I polsi sanguinavano, ma il dolore non era peggiore di tutto il resto. Rotolò via dal margine della strada e si sentì precipitare verso il basso.

Quando aprì gli occhi di nuovo, il cielo era buio. Le lampade al vapore di sodio di fianco alla strada emanavano un chiarore giallo e spettrale. Era caduto nel fosso che costeggiava il fondo stradale e aveva i polsi feriti e la faccia graffiata.

Per un attimo il dolore risultò quasi sopportabile, tanto che riuscì a rialzarsi a sedere, con un gemito.

Sapeva che la pausa di lucidità non sarebbe durata a lungo. Mise una mano dietro la testa e tastò la ferita aperta che Oberg vi aveva lasciato. Sentì sotto le dita lo spigolo appuntito del microcircuito. Era tutto tranne che un generatore di piacere. Lo stava distruggendo, mangiandolo dall’interno. L’idea lo spaventò minacciando di precipitarlo di nuovo nel panico. Il microcircuito era reso scivoloso dal sangue e lui non riusciva né ad afferrarlo né a toglierlo. Era inserito troppo in profondità. Il semplice toccarlo gli procurava fitte di dolore indescrivibili.

Chiuse gli occhi, e li riaprì. Gli sembrò di sentire le palpebre raschiargli la cornea. Il battito del suo cuore era assordante. In pratica, si trovava in mezzo a un deserto. Le strutture metalliche dei pozzi petroliferi, corrose dall’immobilità, sembravano giganteschi insetti attaccati dalle termiti. Keller tentò di alzarsi in piedi e ricadde, con un grido. La terra girava come una trottola sotto i suoi piedi.

Non aveva idea di quanto tempo gli rimanesse. Era impossibile stabilire quale fosse la potenza dell’apparecchio installatogli da Oberg. Lo avrebbe ucciso, era ovvio, ma era probabile che prima di ucciderlo cominciasse a distruggere i suoi tessuti cerebrali. Aveva visto molti drogati salvati troppo tardi dall’assuefazione, e rimasti in uno stato di demenza irrecuperabile. Magari il processo stava iniziando, oppure era già iniziato. Tremò, all’idea.

Ma quel pensiero era controproducente, e lo scacciò. Oberg aveva visto le registrazioni, e sapeva come raggiungere Teresa. Doveva aggrapparsi a questo, si disse. Oberg l’avrebbe senz’altro uccisa. Forse era già arrivato da lei.

Lui era l’unico a sapere. L’unico che poteva intervenire.

Quando qualcuno è in pericolo, bisogna aiutarlo.

Si sentì scivolare di nuovo verso il delirio.

Con la forza della disperazione, scavò nel fango e nella sporcizia che lo circondavano. Sapeva che cosa voleva. C’erano sicuramente delle bottiglie rotte, dei pezzi di vetro, da qualche parte. Trovò solo frammenti sbiaditi e smussati. Non facevano al caso suo. Singhiozzando, brancolò nel buio. Eppure dovevano essercene, in tutta quella spazzatura…

…avvertì finalmente qualcosa di tagliente, sotto le dita…

…ma il dolore e il delirio lo accecarono di nuovo. Rotolò a terra, ferito.


Sarebbe potuto durare per sempre.

Era ancora a Rondonia, e Megan Lindsey tendeva la mano verso di lui, chiamandolo, con i lineamenti distorti dalla paura, dal dolore e dalla terribile delusione… Un’eternità, prima che lui si accorgesse che non era il viso di Megan, ma di Teresa.

Impossibile. Aveva cancellato Megan dalla memoria, lei non poteva più raggiungerlo. E aveva cancellato anche Teresa. La pratica dell’Angelo. Il wu-nien. Entrambe erano state soppresse, tagliate via, estinte.

Ma allora, pensò con orrore, sarebbe accaduto di nuovo. Era una specie di maledizione. Teresa sarebbe morta, come Megan. Non le somigliava, ma era come con lei. Lui l’amava eppure la lasciava morire. Rimanendo lì permetteva a Oberg di ucciderla. Un fatto incontestabile, che non avrebbe più potuto cancellare o eliminare in alcun modo. Sarebbe rimasto scritto nella sua mente in modo indelebile.

Forse Teresa in quel momento stava morendo.

Il pensiero lo sconvolse tanto da riportarlo in sé.

Non sapeva quanto tempo fosse passato. Nel cielo brillava qualche stella. A distanza di pochi chilometri si intravedeva una scia di luce, probabilmente una strada a scorrimento veloce. Le sue membra sussultavano spasmodicamente facendogli capire che forse quello era il suo ultimo momento di lucidità. Il microcircuito di Oberg poteva aver già danneggiato il cervello in modo irreparabile. Ma non gli importava più. Gli importava solo di Teresa.

Lo capì all’improvviso, e con accecante chiarezza. Una chiarezza strana, scolpita in quella parte di lui rimasta integra. Era crollato tutto, la pratica dell’Angelo, il wu-nien, l’intera architettura della sua vita. E in mezzo a quei rottami era rimasto qualcosa di luminoso, il suo amore per lei. Sentendosi come in fiamme, lo capì e lo ammise.

Rovistò tra l’erba in cerca della lama che gli era parso di sentire qualche minuto prima, o forse erano ore. Capì di averla trovata quando si ferì il pollice, un dolore lancinante e amplificato. Gemendo, la raccolse e la guardò. Era un dischetto di alluminio, scartato da qualcuno, che aveva aperto una lattina di cibo in scatola. Presentava qualche ossidazione, ma non era ancora arrugginito senza rimedio. Brillò alla luce delle lampade. Keller non era ben sicuro che gli servisse allo scopo, e il dolore sarebbe stato terribile.

Ma non aveva scelta.

Si puntò il bordo del dischetto d’alluminio contro la nuca e cominciò a sfregarlo disperatamente contro la presa.

Il dolore gli risuonò dentro come un campanello. Cominciò a tremargli la mano, il che complicò le cose. Al secondo tentativo rischiò di svenire. La sua testa era come una zucca, svuotata di tutto tranne che del dolore. Immaginò la carne martoriata e sanguinante, sentì i fili neurali lacerarsi nel punto di congiunzione con la spina dorsale e avvertì un dolore puro e assoluto percorrergli urlando i gangli basali. Era impossibile, pensò. Anche per lei. Anche per Teresa, che amava. Impossibile… Ma il terzo maldestro tentativo ebbe successo. La presa cadde al suolo come un dente estirpato.


Keller avvertì un brivido e una grande sensazione di sollievo. Sollievo e un’immensa, sovrumana stanchezza. Voleva dormire. Era esausto. Aveva bisogno di dormire.

Ma non poteva. Non ancora.

Sospirando, con le gambe malferme, tremante e insanguinato, risalì sulla strada e cominciò a camminare.

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