Esisteva forse la possibilità di vendere la pietra. Byron non era in condizione di farne delle copie, dato che non osava arrischiare nemmeno una visita nel suo vecchio laboratorio. Avevano solo quella, e lui non era ben sicuro che Teresa avrebbe accettato di separarsene… ma quello era un problema che potevano discutere più tardi. Per il momento, avevano bisogno di soldi.
Noleggiò una barca e girò fino a trovare una cabina telefonica funzionante. Il numero che compose era riservato, e non si sorprese di sentire che non prendeva la linea. Si udì un silenzio sinistro, poi un trillo elettronico e infine un messaggio pseudorassicurante. IL NUMERO CHE AVETE COMPOSTO È FUORI SERVIZIO. RIMANETE IN LINEA E LA VOSTRA CHIAMATA SARÀ CORRETTAMENTE INOLTRATA.
Sì, all’Organizzazione!, pensò Byron amareggiato. Schiacciò il tasto per l’annullamento e balzò a bordo della sua barca a noleggio. Pochi secondi più tardi era già svanito nel traffico.
In una seconda cabina, nel cuore della zona industriale, fece un’altra chiamata, questa volta nei confini della Città Galleggiante. Parlò con un suo amico artista, un certo Montoya, e gli chiese come mai la linea video-ottica dell’istituto di Cruz Wexler a Carmel fosse stata disattivata.
Montoya sgranò gli occhi. — Forse non è stata una buona idea chiamarlo. Sei appena tornato in città? L’Organizzazione ha attaccato Wexler qualche settimana fa. L’istituto è chiuso e tutto il materiale è stato requisito.
Byron valutò l’informazione. Doveva essere successo subito dopo la loro partenza per il Brasile. E non era una coincidenza.
— Hanno fatto irruzione anche in alcune basi della Città Galleggiante — continuò Montoya. — Un brutto momento. C’era della brava gente lassù a Carmel quando l’azione è iniziata. — Scrollò la testa.
— Wexler l’hanno preso?
Montoya socchiuse gli occhi e si passò la lingua sulle labbra.
— Non è che non mi fidi di te, chiaro? Ma qualcuno potrebbe averti chiesto di domandarlo.
Byron afferrò l’obiettivo della telecamera e fece forza per orientarlo prima a destra e poi a sinistra, ruotandolo sul suo perno arrugginito. — Vedi qualcuno?
— Chiedilo a Cat — disse Montoya, e interruppe la comunicazione.
"Cat" Katsuma era un’abitante della Città della seconda generazione, molto graziosa e minuta, che eseguiva dipinti su cristallo per le gallerie in terraferma. Conosceva Byron e Teresa da anni, e si dimostro felice di rivederlo. — Avevo sentito delle brutte voci — confessò. — Sono felice di sapere che stai bene.
— Non posso lamentarmi — replicò Byron. — Dimmi di Wexler.
— Devi proprio parlare di lui?
— Vorrei chiarire alcune cose. — Purtroppo la speranza di ottenere del denaro sembrava ormai svanita.
— Bene. Incontriamoci nel pomeriggio, allora. — Cat nominò un caffè vicino alla diga, a sud delle fabbriche.
Lui pensò che Wexler gli dovesse, come minimo, una spiegazione.
Mentre dirigeva la barca, a sud, riesaminò mentalmente tutto ciò che sapeva di Cruz Wexler.
Molti particolari erano di dominio pubblico. Wexler era, o era stato, una celebrità. Durante gli anni della guerra, gli oneiroliti di cristallo avevano cominciato a circolare sul mercato sotterraneo della droga. Avevano goduto di un momento di grande popolarità quando la curiosità generale aveva raggiunto il massimo. Wexler aveva tenuto una cattedra di Dinamica Caotica, ma era stato liquidato dopo la pubblicazione di alcuni articoli in cui definiva le pietre "manna psichica proveniente da una civiltà più antica e più sana". Perse la cattedra, ma in compenso guadagnò dei proseliti. Per alcuni anni era stato una figura di spicco nei circoli bohémien della Città Galleggiante, dove aveva anche delle proprietà. Ma la notorietà decrebbe e Wexler finì per ritirarsi nel suo istituto di Carmel, a lottare contro un enfisema progressivo e assumendo il ruolo di saggio per i seguaci più ostinati e fedeli. Aveva ancora un seguito tra gli artisti della Città che traevano la loro ispirazione dalle pietre. Tutti, di tanto in tanto, facevano un viaggio a Carmel per attingere alle sue presunte illuminazioni. Byron pensava che in gran parte fossero panzane. Ma era Wexler che gli aveva fornito le basi per il suo laboratorio e solo lui, probabilmente, era in grado di dare un senso al disastro di Pau Seco.
Ancorò la barca a un parcheggio dietro le rovine di un impianto di demolizione e raggiunse a piedi il bar che Cat gli aveva indicato. Era un quartiere abbastanza particolare. Non che fosse proprio brutto, ma risentiva dell’influsso dei bassifondi che si stendevano a sud. Riconobbe Cat, seduta a un grande tavolo con vista sul canale, all’interno del perimetro tracciato da una catena. C’era qualcuno con lei: un uomo con un berretto della Marina calcato sulle orecchie e la barba lunga di due giorni. Per Byron non fu difficile riconoscere Wexler. Ordinò una birra, sentendosi piuttosto nervoso, e si diresse al loro tavolo.
— Ciao — lo salutò Cat, con affetto.
Lui continuava a fissare Wexler. Wexler sosteneva lo sguardo, senza parlare. Aveva gli occhi calmi, azzurri. Era pur sempre una figura carismatica. La gente non credeva che potesse mentire, con quegli occhi così limpidi.
Respirava a fatica.
Cat si alzò, con un sospiro. — Noi parleremo più tardi — disse. Toccò la spalla di Byron e si chinò su di lui. — Trattalo bene, d’accordo? L’ho sistemato a casa mia. Non sa dove andare e ha i polmoni ridotti molto male.
Byron aprì bocca solo quando lei fu abbastanza lontana da non sentire. — Ho tutte le ragioni per credere che tu ci abbia fottuto — dichiarò.
Wexler annuì. — Immaginavo che l’avresti presa così.
— Una passeggiata, avevi detto. Una vacanza.
— Ci sono state delle circostanze impreviste — replicò Wexler. — Teresa sta bene?
— Abbastanza. — La domanda lo urtò.
— Avete la pietra?
No, pensò Byron. Non aveva il diritto di saperlo. Non ancora. Sorrise. — Preferisco lasciarti nel dubbio — rispose.
Wexler si appoggiò all’indietro e sorseggiò il caffè. — Non sono qui per mia scelta — disse infine. Si riferiva sicuramente alla Città-Galleggiante. — Forse l’avrai già capito.
— Cat mi ha detto che ti hanno silurato.
— Hanno fatto un’irruzione. Non me l’aspettavo.
— Non eri in casa? Una bella coincidenza.
— Non mi aspettavo niente del genere, altrimenti non vi avrei mandato in Brasile. Mi lasci spiegare, o preferisci rompermi il naso?
Byron si accorse di avere i pugni chiusi. Altre panzane, pensò tristemente. Tanto valeva ascoltarle. Di colpo si accorse che non era andato lì né per denaro né per vendetta, ma solo per il bene di Teresa. La sua infelicità era palese e preoccupante, e soprattutto intimamente collegata alla natura delle pietre. Se c’era qualcuno in grado di capire, si trattava sicuramente di Wexler.
Un gabbiano descrisse un cerchio sopra la loro testa, stridendo. Byron prese un pezzo di pane dal tavolo e lo buttò nelle acque scure del canale, osservando l’uccello che si lanciava in picchiata per prenderlo. — Ti ascolto — disse.
Wexler raccontò che l’Organizzazione aveva chiuso l’istituto. Era stata una mossa a sorpresa. Prima di allora lo avevano sempre ignorato. I privati in possesso di pietre dei sogni potevano essere tecnicamente accusati di contrabbando, ma le leggi non erano troppo severe. Il reato era considerato minore e una persecuzione rigorosa sarebbe stata troppo dispendiosa.
— I nuovi oneiroliti, quelli di profondità, hanno fatto loro cambiare idea — spiegò Wexler.
— Tu lo sapevi — accusò Byron.
— Mi avevano messo in guardia — ammise lui. — Anch’io ho i miei informatori, si capisce.
— C’erano dei bravi ragazzi, all’istituto.
— Non ho fatto in tempo ad avvertirli. Li hanno presi, ma sono sicuro che li rilasceranno presto. — Wexler sorseggiò di nuovo il caffè, riprendendo fiato. — Lasciami parlare delle pietre.
Raccontò di avere un amico all’istituto di ricerca della Virginia, membro di un gruppo di studio sugli oneiroliti di profondità, che l’aveva tenuto informato. — Informazioni di prima mano, capisci? Non potevamo desiderare di più. Tutto ciò che si era saputo prima, per quanto impressionante, non era nulla in confronto a quello che si stava scoprendo. Nelle pietre su cui avevamo lavorato per anni, un dato su tre era stato cancellato dal tempo. Non si poteva far altro che cercare di ricostruirlo, e pur con questo handicap eravamo riusciti a imparare molto dagli Esotici. Ma non eravamo mai arrivati a svelare i misteri più pronfodi della loro natura. Sembrava quasi che lo facessero apposta, a mantenersi fuori dalla nostra portata.
— Ma a un certo punto — continuò Wexler — i dati arrivarono a fiumi. Non solo, in Virginia avevano cominciato a compiere studi intensivi su ciò che veniva chiamato "l’interfaccia umana", utilizzando in massima parte gli ergastolani di Vacaville. Non era una notizia ufficiale, la provenienza era dubbia e talvolta contraddittoria. Tuttavia era plausibile. In pratica, cominciava a emergere una nuova e più approfondita comprensione degli Esotici.
— La domanda è sempre la stessa. Perché gli oneiroliti sono giunti in nostro possesso? Perché gli Esotici li hanno seppelliti nel Mato Grosso? È stato un dono, o un incidente? Ecco il grande mistero.
— C’è una risposta? — chiese Byron.
— Solo qualche accenno — rispose Wexler. Si chinò in avanti. Il suo antico fascino era evidente e immutato. — Abbiamo decifrato un po’ della loro storia. Specialmente la parte che riguarda la tecnologia dell’informazione.
— Non capisco.
— Be’… — Wexler fu costretto a fermarsi per riprendere fiato. — La nascita dell’informazione è rappresentata dalle storie attorno al fuoco. Una specie di immagazzinamento dati dell’età neolitica. Il passato viene ricordato e tramandato per via orale, ma la trasmissione non è molto efficiente. E nemmeno fedele. Poi subentra la parola scritta, con l’inizio di una vera tradizione storica, e il passato comincia a essere meglio conservato. In confronto alla trasmissione orale è un gran passo avanti. Poi arriva la stampa, e con essa i libri: meglio ancora. La fotografia, i nastri audio e i nastri video… e all’improvviso, il passato è lì a portata di mano. Ora abbiamo le tecnologie digitali e la memoria molecolare. Abbiamo gente come te. — Guardò per un attimo il tatuaggio sbiadito sul braccio di Byron, il simbolo dell’Angelo. — Un magazzino di memoria che cammina. Gli Esotici erano come noi, a questo riguardo, solo più attenti. Potremmo dire addirittura ossessionati. L’idea di perdere il passato, in qualche modo, li terrorizzava. Avevano una paura profonda e irriducibile dell’oblio. Per loro, senza memoria non esisteva il significato. E senza il significato, c’era il caos. — Si riappoggiò all’indietro. — Gli oneiroliti sono il prodotto logico di quell’ossessione, ripiegati in modo complesso nello spazio temporale, connessi direttamente alla sfera della conoscenza. Si potrebbe dire che contengono una specie di registrazione dell’esperienza, un archivio della vita umana dal momento del loro sbarco sul loro pianeta. O forse è meglio considerarli come un accesso all’esperienza del passato, l’unica macchina del tempo che ci sarà mai consentito di avere.
Bene, pensò Byron. Aveva visto Teresa compiere proprio quell’operazione per i vecchi che andavano a visitarla nello studio. Estraeva dalla pietra il loro passato. Strano, ma non sconvolgente. Lo disse.
— È questo il nocciolo della questione — ribadì lui. — Secondo i nostri calcoli, gli Esotici incontrarono il nostro pianeta qualcosa come mille anni prima della nascita di Cristo. La Terra li affascinò. È comprensibile. Probabilmente si posero le stesse domande che noi ci poniamo su di loro. In che cosa queste creature sono simili a noi? In che cosa sono diverse?
Sorseggiò ancora una volta il caffè, faticando a normalizzare il respiro. Byron attese.
— La mia ipotesi è che ci considerassero difettosi — riprese Wexler. — Supponiamo di raggiungere un altro mondo e di scoprire che è abitato da una razza di miopi… Capisci? È così che devono averci visti. Un’umanità intelligente, composta di individui abili e attivi, con caratteristiche fisiche non troppo diverse dalle loro. Anche noi abbiamo pollici opponibili. La caratteristica che costituiva la differenza… — si batté un dito sulla fronte — era la memoria. — Abbozzò un sorriso. — Le migliori testimonianze suggeriscono che gli Esotici possedevano ciò che noi chiamiamo "memoria eidetica". La mente dell’uomo non è in grado di contenerla. I pochi casi di mnemonismo umano si sono riscontrati in individui fortemente disturbati. Dipende dalla nostra costituzione. Quanto agli Esotici, dobbiamo supporre che potessero dimenticare, nel senso che il passato non era sempre vivido nella loro mente, altrimenti nemmeno loro sarebbero sopravvissuti. Tuttavia ogni momento vissuto poteva essere ripescato nella memoria a loro piacimento. Oppure, al contrario, poteva essere eliminato per un certo periodo di tempo, o per sempre. Forse è questo che alimentò le loro ossessive ricerche nel campo della tecnologia dell’informazione. Per gli Esotici, l’idea dell’oblio era inseparabile dall’idea della morte. Uscire dalla memoria voleva dire uscire dal mondo. Preservare i ricordi serviva ad assicurarsi l’immortalità.
Byron accompagnò Wexler sull’argine per un lungo tratto.
Là fuori nessuno avrebbe udito le loro parole, e l’oceano avrebbe conferito maggiore credibilità a quella lunga chiacchierata sul tempo, l’immortalità e la memoria.
Byron aveva perso quasi tutto il proprio scetticismo. L’argomento aveva acceso il viso segnato di Wexler di un antico entusiasmo, troppo spontaneo per essere fasullo. Non c’entrava nulla con il problema del tradimento, del denaro e di Teresa, tuttavia Byron si accontentò, per il momento, che l’altro continuasse a parlare.
— Desideravo una di quelle nuove pietre, è ovvio. Mi sembrava che avremmo potuto usarla per fare grandi cose. In Virginia le sperimentano già su soggetti umani, ma usano dei criminali pazzi, che reagiscono male all’esperienza presentando gravi forme di ipermnesia, soprattutto riguardo al materiale rimosso dall’inconscio. A Carmel, invece, i risultati erano quasi sempre positivi, almeno per le pietre tradizionali. Perché non avrebbero dovuto esserlo altrettanto con quelle nuove? Anzi, i risultati sarebbero stati più precisi, più evidenti, migliori. Questa volta avremmo ottenuto dei contatti reali con una sapienza aliena… Non riesco a spiegarti quanto fosse esaltante questa prospettiva. Non più trasposizioni matematiche, capisci? Ma un contatto vero. Un contatto spirituale.
— Spirituale? — ripeté Byron sorpreso.
Di nuovo il sorriso. — Ero abituato a usare questo genere di parole con grande libertà. Comunque sì, spirituale. Era quello che volevamo. Un contatto autentico, attraverso il baratro che ci divide. — Wexler agitò la mano in direzione del cielo. — Purtroppo, su tutto era mantenuto il massimo riserbo. L’Organizzazione aveva paura. Negli ultimi trent’anni i governi nazionali hanno assistito a mutamenti sociali piuttosto tumultuosi, conseguenza diretta dello sfruttamento degli oneiroliti. Immense fortune sono state create e poi distrutte. Questo genere di instabilità fa sicuramente paura. L’idea di altri cambiamenti, e per di più accelerati, li rendeva nervosi.
— E allora hai organizzato un acquisto direttamente a Pau Seco.
— Credevo davvero che non avreste corso grossi pericoli. Ho sborsato una somma considerevole. Ho comperato la collaborazione di personaggi ad alto livello nella scala burocratica della SUDAM. Qualche rischio c’era, naturalmente. Lo feci presente a Teresa, quando si offrì volontaria. Ma anche se ci fossero stati intoppi legali, con il denaro sarei stato in grado di tirarvi fuori dai guai. Il regime di Valverde è molto accomodante.
— È stato molto peggio, invece — gli fece notare Byron.
Wexler distolse lo sguardo. — Me l’hanno detto. Il mio contatto in Virginia era nel mirino dei servizi segreti, e anche l’istituto di Carmel. Così il castello di carta è crollato. Non ho alcuna influenza sull’Organizzazione. Non sapevo nemmeno che sarebbero stati coinvolti. — Tornò a guardare Byron. — Siete riusciti a portare con voi la pietra?
— Sì. — Non c’era più motivo di nasconderlo, ormai.
— L’avete ancora?
Lui annuì.
— Teresa l’ha usata?
— Sì.
— Le sue reazioni sono state positive?
— No — rispose Byron.
Wexler annuì, riflettendo su quell’informazione. Guardò il mare. Le sue acque erano ampie e profonde, pensò Byron. Sconfinate. Come il cielo. Come le stelle.
— Dubito che gli Esotici ci avessero veramente capiti — disse Wexler all’improvviso. — Ci diedero le pietre, come dono, e fecero in modo che rimanessero nascoste finché non saremmo stati in grado di decifrarle e di riprodurle. Un codice binario che si propaga attraverso assi di simmetria. Microvoltaggi che trapelano in dimensioni spazio temporali complesse. Ma per quanto riguarda l’aspetto spirituale… — Sorrise ancora. Questa volta con amarezza, pensò Byron. — Credo che volessero semplicemente renderci più completi, curare quello che secondo loro era un difetto tragico. La mancanza di memoria, che per loro s’identificava con la mancanza di coscienza. Immagino che siano rimasti sorpresi dalla nostra aggressività. Dalla crudeltà, dalla capacità di infliggere dolore. La coscienza è anche capacità di ricordare… e le pietre l’avrebbero ripristinata.
— Ma in realtà non funzionano così.
— Credo che dipenda dal fatto che noi stessi siamo divisi, nell’intimo. Loro non potevano immaginarlo. Noi sopprimiamo i ricordi, e gli stessi ricordi a volte hanno una vita propria. Creiamo immagini di noi stessi e le immagini prendono vita. Questi meccanismi hanno un nome: conscio e inconscio. Ego e Id. E così via. Il sollievo maggiore, da sempre, è quello di dimenticare. — Scrollò la testa. — L’obbligo di confrontarsi continuamente con il passato, in modo sincero, richiederebbe una grande forza d’animo.
— Sono preoccupato per lei — disse Byron.
— Non posso aiutarla — sospirò Wexler, con rassegnazione.
Quando si allontanarono dall’oceano il sole era ormai basso sull’orizzonte.
— Se tu avessi la pietra — chiese Byron — se l’avessi qui in questo momento, che cosa ne faresti?
Wexler camminava come un vecchio. Il tramonto gli aveva dato un’aria meno ispirata. Aveva le gambe malferme e teneva la testa china. — Non lo so — rispose.
— La toccheresti?
— Non lo so… non credo.
— Perché no?
Ci mise un po’ a rispondere. Le labbra erano imbronciate e lo sguardo assente. — Forse ci sono episodi che non mi piacerebbe ricordare.
— Per esempio?
Silenzio.
— Tu eri l’unico a sapere — lo incalzò Byron. — Sei stato tu a mandarci a Pau Seco e a organizzare tutto. Nessun altro era informato.
— Supponi che stia mentendo — replicò Wexler. La sua voce era ormai tremula, quasi un soffio. — Supponi che io sia stato arrestato quando hanno chiuso l’istituto. E che gli uomini dell’Organizzazione mi abbiano interrogato. — Chiuse gli occhi. — Supponi che avessi paura e che, spinto dalla paura, io abbia confessato tutto ciò che riguardava la vostra missione in Brasile. E supponi che, per ricompensarmi della confessione, loro mi abbiano rilasciato. — Il suo sorriso adesso era desolato, tutt’altro che allegro. — Non ti pare che sarebbe qualcosa da dimenticare in fretta?
Quando raggiunsero nuovamente il caffè faceva già buio. L’aria si era rinfrescata e i tavoli erano quasi tutti vuoti. Wexler ordinò qualcosa da bere e Byron disse che doveva andare.
— C’è ancora una cosa che potrebbe esserti utile — gli comunicò Wexler.
Lui attese. L’aspetto abbattuto del vecchio scienziato cominciava a renderlo nervoso.
— Ho ancora qualche informatore nell’istituto della Virginia — continuò Wexler. — Un paio di canali liberi, che nessuno ha saputo scovare. Le ultime notizie dicono che l’Organizzazione si è molto calmata. Sanno che la pietra ha lasciato Pau Seco, ma non sono particolarmente interessati a rintracciarla. Secondo loro non avrà un grosso futuro sul mercato nero, e da quello che mi hai riferito probabilmente hanno ragione. Installeranno un presidio militare a Pau Seco per controllare i brasiliani, ma a parte questo il caso è chiuso
— Tuttavia potreste avere ancora delle noie. All’istituto, in Virginia, c’era un uomo dell’Organizzazione, un sociopatico latente che lavorava per loro dalla fine della guerra. Il suo nome è Stephen Oberg. Aveva il compito di intercettarvi a Pau Seco. Certe voci dicono che abbia sviluppato una fobia personale ed ossessiva nei confronti degli oneiroliti e che non abbia digerito la sparizione della pietra di Pau Seco. — Wexler scrutò Byron, con il respiro leggermente sibilante. — Potrebbe essere ancora interessato a voi.
— Oberg — ripeté lui. Il nome aveva qualcosa di familiare. Un’eco sinistra.
Il vecchio si sedette nell’ombra. Alzò il bavero, come per ripararsi da un freddo che era il solo a sentire. — Dicono che sia completamente pazzo — aggiunse.
Byron guidò la barca a noleggio verso casa, attraverso i canali rischiarati dalle luci al neon delle baracche e da miriadi di lanterne di carta.
Era consapevole del tatuaggio da Angelo sul braccio; Wexler ne aveva parlato. Eppure, per tanto tempo si era sforzato di cancellarlo. Non il simbolo in sé, ma il suo significato, e l’uomo che lui era diventato in guerra.
Ciò che aveva detto a Keller laggiù a Belem era vero. Non voleva essere una macchina. Capiva di esserlo diventato in parte, e capiva anche che il cammino per tornare nel mondo era irto di trabocchetti e di dolori. Teresa rappresentava la sua salvezza. Tutto ciò che voleva era una vita con lei. Gli sarebbe bastato. In mancanza di questo, si sarebbe accontentato delle cicatrici dell’umanità: del dolore di un impegno non revocato.
Per la prima volta, la questione era: quando sarebbe bastato? Fino a che punto il dolore rappresentava una prova? Dov’era il limite massimo?
Potrei scomparire, pensò. Potrei pagarmi dei nuovi documenti e rifugiarmi in continente. Lasciare la Città Galleggiante, lasciare il commercio delle pietre, bruciare tutte le tracce che quel tale Oberg avrebbe potuto seguire. Crearsi una nuova vita e nascondersi. Magari, trovare anche una donna disposta ad amarlo, e a dargli dei figli. Il vecchio tatuaggio era quasi completamente sbiadito. Una manica bastava a coprirlo.
Era un pensiero esaltante, ma pericoloso. Lo scacciò mentre attraccava la barca al molo. Il suo compito non era ancora concluso. Teresa aveva bisogno di lui. C’era ancora la possibilità che potesse fare qualcosa per aiutarla.
L’interno della balsa era buio. Mentre spingeva la porta, Byron udì un gemito provenire dalla camera sul retro.
Premette un interruttore sulla parete e una vecchia lampadina a incandescenza irradiò una luce debole e giallastra. — Teresa? — Gli rispose un altro gemito. Avrebbe potuto significare piacere come dolore.
Byron scostò un lembo della tenda. Lei era sola sul letto, e sbatteva le palpebre per abituarsi alla luce. Le sue pupille erano fortemente dilatate.
Byron raccolse il flaconcino caduto sul pavimento accanto al letto. Era pieno per tre quarti di minuscole pastiglie nere. Encefaline, pensò. Concentrate, potenti. — Cristo — bisbigliò.
Erano gemiti di piacere astratto. Forse, in fondo alla mente, Teresa si vergognava di essersi fatta trovare così. Infatti volse il viso. Tuttavia la vergogna non poteva annullare il flusso di benessere chimico. La sua fronte era imperlata di sudore.
Quasi senza accorgersene, Byron si sedette sul letto e le prese la testa tra le braccia.
Lei si scostò. — Mi dispiace — disse. La sua voce era fievole, vacua, distante interi oceani. — Mi dispiace, mi dispiace.
Non c’era niente da dire. Niente che ne valesse la pena.
Lui la tenne stretta, mentre la balsa si alzava e si abbassava.