Robert Charles Wilson Memorie di domani

1

A causa dei fili mononucleari che s’intrecciavano in profondità nella sua corteccia cerebrale, a Raymond Keller i ricordi si presentavano in genere come profumi. Percepiva l’odore della polvere e del cemento, e nel giro di qualche secondo gli appariva alla mente l’immagine della periferia povera d’acqua nella quale aveva trascorso l’infanzia. Benzina, pensava, e si ritrovava nel garage unticcio di suo padre, a sollevare con le catene un antiquato motore a combustione interna.

Quella sera, in piedi nella cucina del suo appartamento di Los Angeles con un bicchiere d’acqua in mano, avvertì l’odore della terra calda e granulosa di un campo di manioca in Brasile. E seppe che il ricordo sarebbe stato sgradevole.

Mise da parte il bicchiere con un movimento cauto e si spostò verso la parete esterna trasparente del soggiorno. Al di là della parete il cielo era scuro e senza stelle; sul lungo arco del porto, da un capo all’altro, guizzavano le luci dei rioni galleggianti.

Gli scherzi di memoria erano un effetto collaterale dell’impianto che aveva fatto di lui un Angelo. Ce n’erano altri, essenzialmente secondari, a cui si era abituato. O almeno, così lui si ripeteva. I fili biosintetici, cresciuti sotto le ossa del cratere erano microscopici e immunorepressivi; in termini di dislocamento o di peso corporeo, praticamente non esistevano. Ma, pensò Keller di malumore, il suo corpo lo sapeva. Glielo aveva detto anche Leiberman, il medico della Rete. «È la carne a governare» aveva dichiarato. «Sfiorala e ti risponderà.»

Keller chiuse gli occhi e sospirò.

Nel tremolante buio che aveva sulla retina alcune luci brillanti cominciarono a scomparire.

Impotente, Keller osservò Megan Lindsey morire ancora una volta.


Keller aveva lavorato un tempo come Angelo Registrante nel settore documentaristico e di attualità della maggiore emittente video-satellite che operava nella parte occidentale degli Stati Uniti. Nel corso del suo lavoro aveva venduto critoni ad ampio raggio di distruzione sul mercato delle armi di Oslo e aveva sopportato gli orrori dei sotterranei della droga. Ma sapeva ciò che anche tutti gli altri Angeli sapevano: che gli orrori veri sono quelli interni.

Wu-nien, si disse. Non pensiero. Era ormai passata la mezzanotte. Nel silenzio del suo appartamento, mentre i ricordi svanivano, Keller eseguì rigorosamente gli esercizi solitari della disciplina degli Angeli.

Quando ebbe raggiunto una calma soddisfacente, vuotò gli scomparti del portafoglio e mise in fila le sue carte magnetiche sul piano di cristallo fumé del tavolino da caffè.

Banca di Credito del Pacifico, Albo Militare, California DMV. E altre. Alcune riportavano la sua foto, in due o tre dimensioni. Un uomo sui trentacinque anni, con un cipiglio che Megan aveva un tempo definito come "la beata innocenza della mancata comprensione". Portava gli occhiali, benché non ne avesse bisogno, e aveva i capelli a spazzola. Il nome stampato su ciascuna carta, a volte in rilievo, era Grossman William Francis Grossman.

Le carte erano inconsistenti, pensò Keller. Bolle di sapone. Ma solo l’anno prima avevano significato molto per lui: rappresentavano una nuova vita, una nuova identità, una nuova occasione per liberarsi del passato. Quando la Rete gli aveva fornito un nuovo documento di identità per compensarlo della prolungata e pericolosa infiltrazione nel mondo della droga, Keller aveva inventato William Grossman: un uomo mite e inoffensivo, con piaceri modesti e nessuna ambizione. Gli aveva creato un passato, dei genitori, una scuola, degli amori. Si era immerso talmente in quella personalità fittizia che si era convinto che in un certo senso lui sarebbe potuto diventare davvero William Francis Grossman. E per parecchi mesi aveva funzionato. Poi… Keller aveva comunicato alla Rete la sua decisione di non lavorare più per loro.

Per un certo periodo gli era sembrato di aver trovato un modo per rientrare nel mondo.

Ma in seguito, guardando fuori dal suo lussuoso appartamento e fissando la costa che si allungava verso nord, fino a Santa Monica, Keller aveva sentito risvegliarsi le vecchie paure. Finché, mentre altri terribili ricordi gli balenavano nella mente, seppe che la fine di Grossman era giunta.

Mise le carte l’una sull’altra con cura; le prese in mano e le aprì a ventaglio. Mentivano; erano un inganno. Domani, pensò, le avrebbe bruciate.

Sarebbe tornato alla Rete. Avrebbe rimesso in funzione i fili che aveva in testa. Sarebbe stato di nuovo un Angelo.


La mattina dopo Keller raggiunse la sede della Rete nel cuore della città e incontrò il suo contatto, un produttore indipendente di nome Vasquez. Vasquez sedeva in un ampio ufficio privato con i vetri polarizzati e le tende a pannelli verticali. L’angolazione delle finestre era intenzionalmente obliqua, in modo da lasciar vedere l’azzurro dell’oceano e non la mescolanza cenciosa e confusa della Città Galleggiante.

L’uomo lo guardò con moderata curiosità. — Pensavo che non lo faceste più — osservò.

Il lavoro che Keller aveva svolto era stato al limite della legalità, e i suoi contatti con la Rete erano decisamente ufficiosi. Lavorava senza contratto, e dunque fino a un certo punto era alla mercé di Vasquez. Ma era molto in gamba, lo sapeva. E lo sapeva anche l’altro.

— Ho cambiato idea — disse. E accennò all’offerta che gli aveva fatto il suo amico Byron Ostler un paio di settimane prima.

Il funzionario della Rete annuì. Dapprima, mentre Keller parlava, parve entusiasta. Poi gli si dipinse sul viso un’ombra di preoccupazione.

— Quello che proponete potrebbe essere pericoloso — commentò.

Keller non cercò di negarlo.

— Forse ancora più pericoloso di quel che pensate — insisté Vasquez. — Non tutti possono essere corrotti, e ci sono in gioco molti interessi contrastanti. Quello che riguarda i militari, il Governo, i brasiliani…

— Me ne rendo perfettamente conto. Posso farcela. — Keller si spostò più avanti sulla sedia. — Nessuno ha mai avuto una simile occasione. Capite bene quanto sia preziosa.

Parlarono ancora. A poco a poco Vasquez sembrò addolcirsi e riprese l’entusiasmo. Come aveva previsto. Il funzionario si era già imbarcato in un’indagine sul traffico degli oneiroliti, ed era troppo tentato dalla nuova proposta per rifiutare. Così Keller chiese una ricompensa leggermente superiore a quella che percepiva normalmente, e Vasquez acconsentì senza troppe difficoltà.

Adesso era impegnato: niente ripensamenti. All’improvviso, anche se debolmente, l’idea lo disturbò.

Vasquez si tirò vicino un taccuino che aveva sulla scrivania, vi scarabocchiò qualcosa, staccò il foglio e glielo passò.

— Consegnatelo a Leiberman. Oggi pomeriggio. Gli raccomanderò di trovare un po’ di tempo per voi.

Keller annuì.


L’appuntamento con Leiberman era per le tre. All’ora di pranzo Keller incontrò Byron Ostler in un caffè sul mare lungo la superstrada della costa, una terrazza sopraelevata che guardava sui rioni galleggianti sui barconi coloratissimi sparpagliati tra la terraferma e il lontano argine di marea. Byron, in attesa, era solo. Ma sarebbe stato impossibile non notarlo anche in un locale affollato. Gli occhiali spessi e antiquati, rotondi come monete risaltavano sulla faccia deperita come una sfida o un rimprovero. I capelli gli ricadevano sulle spalle in bianche volute. Indossava una vecchia giacca color cachi, con il collo consunto e il primo bottone aperto. Sembrava, pensò Keller, vagamente divertito, il ritratto di un fantino tubercolotico dipinto da El Greco.

— Ray — disse Byron, e il suo sorriso si allargò di un’inezia.

— Mi chiamo Grossman — corresse Keller.

— Davvero?

— Ancora per poche ore — prese una sedia.

— Allora è fatta? Parti?

— Pare di sì.

Byron sogghignò garbatamente.

Keller ordinò un panino all’annoiata cameriera del servizio diurno. — Che cosa ci trovi da ridere?

— Tu e io — riprese Byron. — Siamo tutti e due tanto pazzi da voler tornare indietro.

— Hai detto che era tutto sistemato. Hai detto…

— Lo so, ed è vero. Il passaggio è assicurato. Eppure… c’è un fondo d’ironia in tutto questo.

Byron aveva il diritto di parlare. C’era stato anche lui, laggiù, molti anni prima: come Angelo del plotone di Keller. Se fosse stato in vena avrebbe potuto esibire il tatuaggio azzurro sull’avambraccio magro, un Occhio ormai semisepolto nella peluria bionda, scolorito ma intatto.

Invece Keller, dopo la guerra, se l’era fatto cancellare. Era stato Leiberman a eseguire il trapianto di pelle. Un buon lavoro: solo un microrivelatore avrebbe individuato le cicatrici. Da quando si era stabilito nella Città Galleggiante, Byron era diventato un chimico oneirolita, e come tale si era potuto permettere di tenersi l’Occhio. Keller, come Angelo segreto, invece no.

Erano entrambi fuorilegge, pensò Keller. Benché così diversi.

— È un posto come un altro — disse.

— Il Bacino — replicò Byron. — Il Fiume, Rio Mar, il River Sea. Il Rio delle Amazzoni, Ray. Il Cuore del Mistero.

Keller sorrise. — Scemenze.

— Ti sei già fatto ricollegare?

— Non ancora. Lo farò tra un paio d’ore.

— Allora… è il tuo ultimo pasto da essere umano.

La cameriera gli portò il panino, e Keller lo guardò senza entusiasmo. — È questo che ne pensi?

— Una volta ho fatto anch’io il tuo lavoro.

— Quello che fai adesso è migliore?

Lui si strinse nelle spalle.

— Spacciatore — disse Keller.

— Non proprio.

Keller mangiò e Byron continuò a sogghignare finché l’altro non cominciò a trovare irritante quel sogghigno, come una specie di insulto. Erano davvero scemenze, pensò all’improvviso. Il ghigno, la spavalderia, il cachi consunto. E tutti gli aghi ipodermici.

— Non trattenerti — lo stuzzicò Byron. — Dimmi che cos’è che ti fa digrignare i denti.

Keller non si fece pregare, sia perché era irritato, sia perché l’amicizia era abbastanza lunga e solida da permetterlo.

— Può darsi — concesse Byron. — Può darsi che io sia un bluff. Ma non lo sei anche tu, Ray? L’Occhio che cammina? L’uomo che ha perso la sua umanità in guerra?

Keller trasalì. — Sì, lo sono anch’io — ammise.

— Ma certo. L’obiettività, non è vero? Come potresti negare di esserlo?

— Nemmeno tu lo neghi.

— Non ci penso affatto — confermò Byron. — Ma ti sbagli, credimi, se pensi la stessa cosa di Teresa.

— Non conosco Teresa.

— È per il suo bene. Tutto questo è per il suo bene.

Keller infilò la tessera magnetica nella fessura del tavolo e si alzò.

— Pensaci — disse Byron, perso di nuovo in qualche suo pensiero. — Tutto si muove in circolo. La ruota, Ray. Tutto ritorna.


L’ufficio di Leiberman si trovava in un edificio di modeste pretese sulle colline di Hollywood. I muri color pastello e l’insegna discreta lo rendevano simile a una clinica per aborti. Naturalmente, si trattava di molto di più. Leiberman era il neurotecnico della Rete, l’ultima risorsa. Trapiantava suggeritori digitali su attori distratti, in modo che non avessero più problemi a ricordare la loro parte e migliorava la loro presenza scenica o neutralizzava il terrore del palcoscenico con le sue preparazioni farmacologiche a base di psicodroghe a basso dosaggio. A volte innestava impianti AV per Angeli, come nel caso di Keller. Eseguiva chirurgicamente tutto ciò che era possibile far sfuggire all’ispezione dei cani addestrati. Nel suo ufficio non c’erano registrazioni di nessun tipo; non comparivano né nomi, né note di accredito, né numeri telefonici.

All’interno, la segretaria di Leiberman gli sorrise. Lui le presentò il biglietto e il passaporto. Gli occhi della donna tradirono un lampo sinistro. — Entrate — gli disse.

Dietro la seconda porta c’era l’ambulatorio, una stanza tutta in vetro e cromo, con gli strumenti chirurgici appesi a dei cavi a molla che scendevano dal soffitto. Leiberman lo salutò e l’accompagnò a una poltroncina. Era un uomo grasso, calvo, sensuale in modo volgare. Il camice gli tirava sul ventre.

— È un intervento breve — disse. — Togliete la camicia. Sedete.

La presa era incassata tra le spalle di Keller, vicino alla spina dorsale, un paio di millimetri sotto il derma.

— Un lavoro dell’esercito — gracchiò il chirurgo riportando alla luce il minuscolo frammento di metallo e ripulendolo. Ma era semplice retorica professionale: la presa svolgeva ottimamente la sua funzione. Durante la sua prima visita Leiberman aveva effettuato un accurato esame neurologico e aveva ammesso che l’impianto era eccellente: i tentacoli sintetici, più sottili di un capello, affondavano nel nervo ottico e nei gangli auditivi. Non avevano mai avuto bisogno di nuove tarature o di riparazioni. Il lavoro di Leiberman consisteva nell’aprire e chiudere la pelle, mantenendo sterile la presa, e inserire una memoria AV passiva per immagazzinare i dati di Keller.

— Ne fanno di nuove, molto buone, al giorno d’oggi — affermò il medico, prendendo la memoria AV da un involucro sigillato di perspex. Era più piccola di come Keller la ricordava, un fiocco di neve tra i rebbi delle pinzette chirurgiche. — Con una di queste siete a posto per due anni di tempo reale, audio e video. Ed è anche più robusta. Materiale nuovo, sapete.

Keller rimase seduto con il cranio immobilizzato in una ganascia metallica, mentre Leiberman lavorava. L’installazione della memoria e la verifica del funzionamento, provocarono l’invio di impercettibili impulsi EMF di ritorno nel cervello di Keller. Il suo campo visivo s’illuminò e infiorescenze impossibili gli comparvero dietro le palpebre. L’irritazione repressa che sentiva ribollire dentro di sé dall’ora di pranzo cominciò rapidamente ad attenuarsi. Una resa, pensò, ecco di cosa si trattava. Era la resa che lo aveva salvato. In quel guscio di ghiaccio, come Occhio Meccanico, Angelo Registrante, era al sicuro dalle devastazioni della memoria vera.

Si rilassò e sopportò il funzionamento difettoso dei suoi gangli visivi, cascate di fiamme color blu elettrico. Quelle visioni consumarono tutta la sua attenzione fino a quando Leiberman ritirò i suoi attrezzi e l’ambulatorio ritornò di colpo a fuoco.

— Siete a posto — dichiarò il medico.

Era vero. Lo sentiva. Niente di speciale, solo un’aura di accresciuta lucidità, che non aveva niente di fisiologico. La semplice certezza di essere di nuovo un Angelo. Tutto quello che vedeva e sentiva sarebbe stato registrato in silenzio sulla memoria molecolare che Leiberman aveva impiantato.

Si girò a guardare il neurochirurgo. Era un movimento diverso, ora, una carrellata e una messa a fuoco freddamente professionale.

Leiberman si accigliò. — Non fissatemi — protestò. — È indelicato.


L’impianto neurologico di Keller era stato installato in una base dell’Esercito a Santarem, durante il lungo conflitto brasiliano. Keller era stato spedito lì dal fronte, sulla contesissima superstrada BR-364 di Rondonia, in una condizione che i medici militari avevano definito "disfunzione emozionale". Lui li aveva sorpresi chiedendo di essere impiegato come Angelo.

Ogni unità combattente aveva un Angelo. Era la politica dell’esercito. L’Angelo, in un plotone di fanteria, svolgeva essenzialmente la stessa funzione della scatola nera, il registratore di volo, collocato nella carlinga di un aereo, e scatola era uno degli epiteti più gentili riservati a un Angelo Registrante. Byron Ostler, l’Angelo del plotone di Keller, gliel’aveva detto fin dalla prima volta. Proprio come depositari dell’intelligenza ultima di un’unità e possessori della registrazione fedele del combattimento, gli Angeli avevano diritto a determinati privilegi. Non avevano l’obbligo di sottoporsi a prolungati sforzi fisici. In combattimento venivano scrupolosamente difesi dai compagni. Indossavano speciali indumenti protettivi e non dovevano preoccuparsi di portarsi dietro le proprie riserve alimentari.

Naturalmente, dal punto di vista sociale, erano isolati. Ma era loro risparmiata l’angoscia dell’attesa: agli Angeli Registranti, per decisione del Corpo Medico, veniva data la precedenza assoluta in tutte le cure mediche.

Se morivano, i loro corpi dovevano essere recuperati.

In tutte queste regole e consuetudini, l’individualità dell’Angelo non veniva tenuta nella minima considerazione. Ciò che importava era il suo impianto neurologico, la sua memoria AV, la sua decodificazione… ma era normale, pensò Keller. Si trattava dell’Esercito.

L’ospedale di Santarem era un’unità molto libera. Le infermiere erano civili e i medici volontari. Era alloggiato in una sede di fortuna, un caseggiato dimesso, a un solo piano, ermeticamente chiuso per contrastare il traffico degli insetti. Keller fu sistemato in un reparto insieme a venti sconosciuti, accomunati dalla paura per l’intervento imminente. Tutti leggevano libri americani in edizione economica o guardavano i fumetti pornografici portoghesi che il martedì arrivavano a pacchi da San Paolo. Ascoltavano il ronzio degli aerei per il trasporto truppe e il sibilo dei condizionatori d’aria. Giocavano a carte. Uno dopo l’altro venivano portati via con la lettiga, e tornavano indietro a impianto effettuato.

Keller sapeva che l’intervento era pericoloso. Tutti lo sapevano. Nell’esercito si effettuavano decine di impianti al giorno, eppure continuavano ad essere pericolosi. Non c’era da stupirsene, visto che si trattava di mettere sottosopra il cervello. Il cervello era una cosa delicata, pensava Keller. Fragilissima. A invaderla con tutti quei fili c’era il rischio di rompere qualcosa. Prima di offrirsi volontario per diventare un Angelo, Keller aveva rubato un testo medico e lo aveva letto con attenzione. In teoria, la cosa era semplice. I fili in tessuto biosintetico vivente, erano studiati apposta per crescere all’interno del cervello senza danneggiarlo. Il tropismo indotto li portava a dirigersi verso la zona visiva del soggetto. Un processo automatico. Ma il libro riportava anche la sintomatologia relativa al fallimento dell’impianto, un elenco lungo e scoraggiante. Perdita parziale o totale del campo visivo, disfasia, afasia, disorientamento, perdita della memoria, indebolimento degli arti, appiattimento o disturbo delle reazioni emotive. Keller sentiva le mani sudate al solo pensarci. Ma era stato giudicato idoneo al lavoro e lui, senza esservi costretto, si era offerto volontario.

— Sarà dura — lo avevano avvertito i medici. — Togliti dalla testa che sia uno scherzo. Se sei un Angelo, c’è un atteggiamento che devi coltivare con perseveranza: il wu-nien. Sai che cosa significa, soldato Keller? Significa che tu sei una macchina. Non pensi, guardi e basta. Non guardi dove vuoi, ma solo dove è importante guardare. Tu sei una cinepresa, capisci? Non devi compiere un lavoro. Tu sei il lavoro.

Keller comprese perfettamente. Byron gli aveva già insegnato un po’ di Zen degli Angeli. Vedere senza desiderio. Lo specchio perfetto.

— Non sarai più Raymond Keller. Dovrai imparare a lasciarti tutto dietro alle spalle, ciò che vuoi e ciò che ti importa. Sei un paio di occhi e un paio di orecchie. Nient’altro.

A lui era sembrata una situazione accettabile.

Quella notte, per la prima volta dopo un mese, aveva dormito un sonno senza sogni. La mattina dopo lo avevano portato in sala operatoria.


Di ritorno nell’appartamento, Keller si preparò un pasto leggero. Doveva perdere qualche chilo, in modo da disfarsi di Grossman come di una seconda pelle. Quando ebbe mangiato radunò il contenuto del frigorifero e della credenza, lo stipò in due grosse borse per la spesa, chiuse le borse e le portò giù nell’inceneritore comune del palazzo. Le borse scomparvero nello scivolo metallico, in un lampo di luce attinica.

Addio, Grossman.

Pensò di bruciare le tessere, ma decise di rimandare. Prima avrebbe chiamato Lee Anne.

Lee Anne gli era stata fornita da una sexy-agenzia. Comperare il sesso a credito era stata una novità, per lui. Ma sembrava il genere di cose che Grossman avrebbe potuto fare. Aveva affittato Lee Anne con un contratto a breve termine, che poi aveva prolungato.

Lei comparve sul monitor del telefono, perfettamente in ordine, come sempre. Era un mistero come riuscisse a mantenere quella perfezione costante anche nel caso di una telefonata improvvisa, forse si trattava di una miglioria tecnica. Era bella, in maniera rigorosamente contemporanea, con gli zigomi eliminati, il viso a cuore, gli occhi azzurri incorniciati da luminosi raggi di mascara color arancio. Sorrideva, contenta di vederlo. O magari era solo un sorriso professionale.

— Parto — annunciò Keller, sentendosi già a disagio nella parte di Grossman, che recitava per l’ultima volta.

— Per quanto tempo?

— Molto — rispose lui. — Devo rompere il contratto.

Lei rimase in silenzio per una frazione di secondo. — Avresti dovuto dirmelo.

— Mi dispiace. Non ne ho avuto il tempo.

— Bene. — Lei si strinse nelle spalle e sorrise. — Mi sarebbe piaciuto continuare. È stato un bel periodo. Il migliore.

Era una bugia, ma recitata così bene che Keller avvertì una fitta di rimpianto. Tra loro non c’era stato niente, a parte ciò che era previsto dal contratto, ma per un terribile momento Keller rischiò di essere sopraffatto dal desiderio di confessarsi, di tradire l’impegno preso con Vasquez, di dirle com’era stata insopportabile la sua solitudine negli ultimi dieci anni. Peggio, avrebbe voluto trapassare lo schermo con un pugno, per cercare in qualche modo di toccarla attraverso quel groviglio microscopico di fili e fibre ottiche.

Il pensiero lo sconvolse. Keller si impose di sorridere, registrò le sue scuse e salutò, con i pugni stretti contro i fianchi.


Wu-nien, pensò Keller mentre bruciava l’ultima tessera.

La preparazione al compito di Angelo aveva compreso un’infarinatura della dottrina Zen. Altruismo, coraggio, lucidità. Il sergente che gli aveva fatto da maestro era stato un Roshi della scuola Rinzai. Gli aveva parlato dei Tre Pilastri: grande fede, grandi dubbi, grande perseveranza. Condizionavano la mente, ed erano tassativi. I seguaci della disciplina credevano, e lo credeva anche Keller, che i satori si nascondessero davvero, come illuminazioni misteriose, nei laghi a corna di bue e nelle verdi isole dell’Amazzonia abitate dagli aironi.

Wu-nien. Era un Angelo. Era di nuovo Keller. Era l’obiettività portata all’estremo, come tutti si erano sforzati di raggiungere. Wu-nien, wu-hsin, non-pensiero, non-mente; solo visione, privata di qualunque giudizio, visione senza desiderio. Lo specchio perfetto.

Era come un luogo, pensò Keller. Un luogo senza amore, né solitudine, né paura. Un luogo tranquillo e luminoso, in cui l’unica memoria era la memoria AV, limpida e mutevole.

Lui lo chiamava il Palazzo del Ghiaccio.

Vi aveva fatto ritorno ancora una volta.

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