22

Dopo alcuni interminabili secondi, Ed Wonder riaprì gli occhi. Lentamente, disse: «Continuo ad avere l’impressione che nelle nostre conversazioni una frase sì e una no rimanga fuori. Nel nome di Maometto che muove le montagne, di che cosa stai parlando?»

«Della Grande Madre. Tu sei la Grande Madre, io sono la Grande Madre, l’uccellino che canta sul ramo dell’albero è la Grande Madre. La Grande Madre è tutto. La Grande Madre è la vita. Così insegna mio padre.»

«Qualcosa come Madre Natura, insomma?» chiese Ed, un po’ sollevato.

«Esattamente come Madre Natura. La Grande Madre è un’entità trascendente. Noi pellegrini sul sentiero di Elisio non siamo tanto primitivi da credere in, ecco, in un Dio. Non in un Dio personale, individuale. Se dobbiamo ricorrere a termini trascendenti, ed evidentemente lo dobbiamo fare per diffondere il nostro messaggio, allora usiamo il concetto di Grande Madre come simbolo religioso dell’uomo che ricerca valori spirituali. La Dea Triplice, la Dea Bianca esprimevano l’universalità nelle civiltà primitive. Il fenomeno si è protratto fino ai tempi moderni. Maria è stata quasi deificata dai cristiani. E vedi che anche gli atei si riferiscono a Madre Natura, non parlano di un Padre Natura. Papà dice che le religioni che hanno degradato la donna, come la religione maomettana, sono spregevoli e inevitabilmente reazionarie.»

«Ah» fece Ed Wonder. Si massaggiò pensosamente il mento. «Comincio a pensare che non siate proprio del tutto svitati come avevo creduto all’inizio.»

Nefertiti Tubber non aveva nemmeno sentito quelle parole. Anche la sua faccia era pensosa, ma lei pensava ad altro. «Potremmo sistemarci in quella casetta vuota vicino al laboratorio, probabilmente» disse.

Ed, in un primo momento, non afferrò dove Nefertiti volesse andare a parare. «Il laboratorio?» chiese.

«Sì, dove il dottor Wetzler sta facendo le sue ricerche sulla nuova cura.»

«Wetzler! Non vorrai dire per caso…»

«Sì, Felix Wetzler.»

«Felix Wetzler sarebbe qui sepolto nei boschi… cioè, vive in questa piccola comunità?»

«Certamente. Lo avevano costretto a lavorare su certe pillole che facessero venire i capelli ricci alle donne, o una cosa del genere. Lui, disgustato, ha piantato tutto ed è venuto qui.»

«Felix Wetzler lavora qui… Ma, santo cielo, è il più famoso… e qual è la nuova cura che sta studiando?»

«La cura contro la morte. Potremmo avere la villetta accanto alla sua. Sarà finita fra un paio di giorni. E…»

Ed si alzò di scatto. Ormai era chiaro dove voleva andare a parare Nefertiti. «Vedi» disse in fretta «come ti ho detto, ho questo importante incarico governativo. Devo andare a trovare tuo padre.»

Evidentemente lei non era affatto d’accordo, ma si alzò. «Quando tornerai, Ed?»

«Ecco, non so. Capisci come sono queste cose? Il governo. Lavoro alle dipendenze dirette di Dwight Hopkins in persona. Prima il dovere. Sai, tutte queste sciocchezze…» Incominciò a indietreggiare verso la porta.

Nefertiti lo seguì passo per passo. Giunti all’uscio, sollevò la faccia verso di lui, per un ultimo bacio. «Edward, sai quando mi sono innamorata di te?»

«No… no» rispose in fretta. «Non saprei proprio.»

«Quando ho sentito che ti chiamavano Piccolo Ed. A te non piace essere chiamato Piccolo Ed. Ma tutti ti chiamano così. A loro non importa che tu detesti quel nome, non sanno nemmeno che lo detesti.»

Lui la guardò. Improvvisamente gli sembrò tutto diverso. Disse: «Tu non mi hai mai chiamato così.»

«No.»

Si sporse in avanti e la baciò. Non sembrava più che avesse bisogno di esercizio, adesso. Ci riprovò, tanto per esserne più certo. No, non aveva affatto bisogno di esercizio.

Ed disse: «Tornerò.»

«Lo so.»


Ed Wonder trovò Ezechiele Giosuè Tubber seduto a un tavolo d’angolo al bar Dixon.

Ed aveva percorso la strada da Elisio a Woodstock, attraverso Shady e Bearsville, in uno stato di confusione mentale. Ma, a pensarci bene, si era sempre sentito confuso ogni volta che aveva avuto a che fare con Tubber e il suo movimento. L’uomo che all’inizio gli era apparso come un predicatore ambulante, un ciarlatano infarcito di spirito biblico, si era rivelato alla fine come uno studioso con tanto di diploma di accademico ottenuto alla facoltà di economia politica di Harvard. Sua figlia, che aveva fatto l’ingresso in scena come una semplice ragazza di campagna, florida e piena di rossori nel suo abitino di cotone stampato, si era trasformata in una ex-spogliarellista, una seguace adottata dalla famiglia Tubber. La nuova religione, che sembrava una delle tante sette di fanatici, in realtà vantava fra i suoi fedeli il premio Nobel Martha Kent e lo scienziato Felix Wetzler, biochimico numero uno del Paese.

Tuttavia, il timore di Ed nei confronti di Ezechiele Giosuè Tubber cominciava a scomparire. Il profeta dalla faccia lincolnesca… se si poteva coniare quel nuovo aggettivo… stava assumendo dimensioni reali.

Ed Wonder rifletté su quell’ultimo concetto. Dimensioni reali… un corno! Non c’era nessuna realtà in una situazione che comprendeva l’esistenza di maledizioni con effetto universale, solo perché un vecchio pazzo s’infuriava contro questo o quell’aspetto della società moderna, a seconda di come tirava il vento.

Scorse il carro e il cavallo di Tubber di fronte a un piccolo bar automatico con la semplice insegna DA DIXON. Ed si frugò in tasca alla ricerca di una moneta per il parchimetro; c’era un posto vuoto accanto al carro di Tubber. Proprio in quel momento vide un poliziotto che veniva lungo il marciapiede verso di lui, fissando incredulo ogni parchimetro.

Quando arrivò presso la Volksair, Ed gli chiese: «Qualcosa che non va, agente?»

Quello lo guardò, sconvolto dallo stupore. «Questi parchimetri. È successa una cosa pazzesca!»

Ed Wonder già immaginava il peggio ma non poté fare a meno di chiedere: «Che cosa?»

«È scomparsa la fessura per infilare la moneta. Maledizione, ci deve pur essere la fessura. Ieri c’era. C’è sempre stata la fessura per le monete. È pazzesco. Viene quasi da pensare che si tratti di un sortilegio…»

«Già» disse Ed stancamente. Scese dalla Volksair e si avviò all’ingresso del bar.

Dal locale usciva un’ondata assordante di musica. Il juke-box aveva il volume al massimo. Ed Wonder appoggiò la spalla alla porta, spinse ed entrò. Da quando radio e TV erano state eliminate, tutti sembravano essersi gettati a corpo morto sui juke-box e li facevano funzionare dalla mattina alla sera a tutto volume.

Tubber stava seduto in un angolo, davanti a un bicchiere di birra. Benché il locale fosse sovraffollato, era solo al tavolo. Mentre Ed si avvicinava, Tubber sollevò gli occhi e gli rivolse un sorriso di cortese benvenuto.

«Ah, caro fratello. Vuole bere una birra con me?»

Ed si fece coraggio e prese una sedia. Con tutta la fermezza che poté trovare, disse: «Molto volentieri. Ma mi sorprende che lei beva birra. Pensavo che tutti voi riformatori foste astemi. Come mai i pellegrini sulla via di Elisio non hanno obiezioni morali contro il demone dell’alcol?»

Tubber continuò a sorridere. Per lo meno il vecchio sembrava di buon umore. Alzò la voce per sopraffare il frastuono del juke-box. «Vedo che comincia ad apprendere la nostra terminologia. Ma perché dovremmo condannare la benedizione dell’alcol? È stato uno dei primi doni che la Grande Madre ha fatto all’umanità. Per quanto possiamo risalire nel tempo, nella storia e nella preistoria, l’uomo ha sempre conosciuto e apprezzato le bevande alcoliche.» Sollevò in alto il bicchiere di birra. «Ci sono rimaste le prove scritte della distillazione della birra che si faceva in Mesopotamia nel cinquemila avanti Cristo. A proposito, sapeva che quando la Bibbia menziona il vino, specialmente nei libri più antichi, si riferisce a vino di cereali che, naturalmente, è birra? La birra è una bevanda molto più antica del vino.»

«No, non lo sapevo» rispose Ed. Si ordinò al dispositivo automatico un Manhattan; aveva bisogno di un sostegno più solido di quello che gli avrebbe offerto una birra. «Molte religioni, però, sottolineano che l’alcol può avere effetti disastrosi. I Maomettani, per esempio, non ne permettono l’uso.»

Tubber scosse le spalle divertito, dopo aver lanciato uno sguardo di disapprovazione al juke-box che stava ora urlando una versione rock di Stille Nacht. Dovette quasi gridare per farsi sentire: «Qualsiasi cosa può avere effetti disastrosi, quando se ne abusa. Bere troppa acqua può uccidere. Ma che musica sta suonando quella macchina, nel nome della Grande Madre? La melodia mi pare vagamente familiare.»

Ed glielo disse.

Tubber sembrò incredulo.

«Quella roba è Stille Nacht? Sta scherzando!»

Ed trovò che avevano perso già abbastanza tempo in quelle piacevolezze preliminari. Disse: «Senta, signor Tubber…»

Tubber lo guardò di sbieco.

«Ehm, cioè… Ezechiele. Quelli del governo mi hanno incaricato di mettermi in contatto con lei e di cercare di giungere a un accordo a proposito degli ultimi sviluppi della situazione. Non credo ci sia bisogno di dirle che il mondo sta per scoppiare da un momento all’altro. La gente ormai sta diventando matta: niente televisione, niente radio, niente cinema. Nemmeno i romanzi e i fumetti da leggere.»

«Si sta sbagliando. Tutti i classici della letteratura mondiale sono leggibili.»

«I classici! Ma chi diavolo li legge? La gente vuole roba da leggere senza dover perdere tempo a pensare! Dopo una giornata faticosa, la gente non è in grado di concentrarsi.»

«Giornata faticosa?» disse Tubber con dolcezza.

«Insomma, lei capisce quello che voglio dire.»

«È questa la difficoltà, caro fratello» disse gentilmente il profeta. «La Grande Madre ha costruito l’uomo per il lavoro e la fatica, come dice lei. Giornate piene. Giornate produttive. Non necessariamente fatica fisica, è logico. L’impegno mentale è altrettanto importante di quello fisico.»

«Altrettanto importante?» fece Ed. «Più importante. Lo sanno tutti.»

«No» ribatté Tubber, sempre cortese. «La mano è importante quanto il cervello.»

«Sì? Senza il cervello, dove sarebbe l’uomo?»

«E dove sarebbe senza la mano?»

«Le scimmie hanno le mani, ma non sono andate molto lontano.»

«E animali come i delfini e le balene hanno il cervello ma non sono andati molto lontano lo stesso. Sono necessari entrambi, caro fratello. Il cervello come le mani.»

«Stiamo divagando» riprese Ed. «Il vero problema è che il mondo è sul punto di crollare a causa di queste… insomma, di quello che fa lei.»

Tubber annuì e compose l’ordinazione di un’altra birra. Guardò accigliato il juke-box che in quel momento stava tuonando una nenia lamentosa. «Bene» disse.

«Cosa?» domandò Ed. Il juke-box l’aveva distratto.

«Ha detto che il mondo sta per crollare.» La Voce della Verità fece un cenno soddisfatto. «Dopo il crollo, forse tutti prenderanno la via di Elisio.»

Ed scolò fino all’ultima goccia il suo Manhattan e ne ordinò un secondo. «Senta» esclamò aggressivo «ho controllato il suo passato. Lei è un uomo molto istruito. Ha visto il mondo. Insomma, non è stupido.»

«Grazie, Edward» disse Tubber. Diede un’altra occhiata al juke-box. Dovevano gridare per riuscire a capirsi.

«Ammettiamo pure che lei abbia ragione a proposito della Società del Benessere. Ammettiamo. Sono appena stato a Elisio. Ho visto come vivete. D’accordo. Per alcuni va bene. Certa gente sogna un posto così. La natura e la quiete. Un luogo meraviglioso per scrivere poesie, per dedicarsi all’artigianato, forse per le ricerche scientifiche. Ma, santo cielo, non può sperare che l’umanità intera voglia vivere in quel modo. Lei ha costituito questa piccola comunità di poche dozzine di famiglie. Il mondo non può unirsi a voi, tutto intero. La sua iniziativa è limitata. Lei continua a predicare che bisogna prendere la via di Elisio. Immaginiamo che tutti seguano letteralmente il suo insegnamento: come farebbe ad accogliere quattro o cinque miliardi di esseri umani in quel suo minuscolo Elisio?»

Ezechiele Giosuè Tubber era stato ad ascoltarlo attentamente. Sorrise divertito. Il suo buon umore fu turbato ancora una volta dal fastidio che gli dava il juke-box. La macchina non si fermava mai. Ogni volta che finiva una canzone c’era qualcuno pronto a inserire una nuova moneta.

«Caro fratello, non ha capito la Voce della Verità. Il nostro termine di Elisio ha un significato duplice. Ovviamente, non speriamo che l’umanità intera si unisca a noi nella nostra piccola comunità, che è solo un esempio da seguire. Noi vogliamo dimostrare che è possibile vivere una vita piena di significato, senza dover ricorrere agli infiniti mezzi dell’attuale società industriale. Forse siamo andati fino alle estreme conseguenze per rendere più enfatico l’esempio. Io mi servo di un carro trainato da un cavallo per dimostrare che le aeromobili, che inghiottono idrocarburi in quantità disastrosa solo per ottenere una velocità di trecento chilometri all’ora, sono uno spreco inutile. Ci sono molti esempi per illustrare che troppo spesso ci serviamo di macchine complicate senza averne alcun bisogno, ma solo per giustificare il fatto che sono state costruite.»

«Non capisco questo ragionamento» urlò Ed.

«Prenda il caso del pallottoliere» gridò di rimando Tubber. «Per anni abbiamo considerato arretrati i paesi che usavano il pallottoliere nei loro affari, nelle banche, eccetera, invece delle nostre macchine calcolatrici elettroniche. E tuttavia, è dimostrabile che questo strumento è più efficiente e addirittura più rapido di un’addizionatrice elettronica da ufficio, e sicuramente meno soggetto a guasti.» Il vecchio lanciò un’occhiata fulminante in direzione del juke-box. «In verità, quell’oggetto è abominevole.»

Ed, esasperato, protestò: «Ma non possiamo cancellare dalla vita degli uomini tutti i congegni meccanici che abbiamo inventato negli ultimi duecento anni.»

«Né io desidero farlo, caro fratello. È una verità assoluta che non si può disinventare un’invenzione, proprio come non si può ricomporre un uovo strapazzato. Tuttavia, il mondo ha di molto superato il limite dell’uso saggio di queste scoperte.»

Il vecchio rifletté per qualche istante, poi proseguì. «Le faccio ora un esempio ipotetico. Immagini che un imprenditore industriale concepisca un prodotto che nessuno al mondo si è mai nemmeno sognato di desiderare. Faccio un esempio assurdo. Diciamo, ecco, uno shaker elettrico.»

«È già stato fabbricato» disse Ed.

Tubber lo fissò stupito. «Sta scherzando, spero.»

«No. L’ho letto da qualche parte: è stato fabbricato poco dopo il 1960. Pressappoco nello stesso periodo vennero fuori anche gli spazzolini da denti elettrici.»

«È comunque un ottimo esempio» sospirò Tubber. «Molto bene: allora, il nostro uomo dalle idee fertili assume una mezza dozzina di ingegneri molto preparati, alcuni dei nostri tecnici più brillanti e chiede che gli progettino lo shaker elettrico. Gli ingegneri progettano, i tecnici realizzano. Allora il nostro imprenditore si rivolge all’industria e fa produrre lo shaker in serie. L’industria si mette al lavoro: impiega un gran numero di operai altamente specializzati e una gran quantità di materie prime per fondere una lega di valore. Dopo qualche tempo, gli shaker sono pronti. Il nostro imprenditore deve ora piazzarli sul mercato. Si rivolge a un grosso ufficio di Madison Avenue e investe milioni in pubblicità e relazioni pubbliche. Fino a questo momento nessuno negli Stati Uniti del Benessere dell’America del Nord ha mai sentito la minima necessità di un simile aggeggio, ma gli americani vengono ben presto “educati”. Pubblicità su ogni canale; una campagna concepita da alcuni dei cervelli più brillanti che la nostra società può produrre. Contemporaneamente, un assalto sul fronte delle pubbliche relazioni. I cronisti mondani, nelle loro chiacchiere inutili, accennano al fatto che Mary Malone, la grande stella della TV, è così soddisfatta del suo shaker elettrico che ha cominciato a bere martini prima di colazione, oltre che prima di pranzo. Si dice che il cameriere privato della Regina d’Inghilterra prepari i cocktail reali esclusivamente con il nuovo apparecchio. Si lascia capire che Pinco Pallino IV, presidente della IBM-Remington, non si sognerebbe nemmeno di bere un martini che fosse stato mescolato in altro modo, a mano magari.»

«Capisco dove vuole andare a parare» fece Ed. «Finisce che tutti comprano lo shaker elettrico. E che male c’è? Fa andare avanti il Paese.»

«Fa andare avanti l’economia moderna, questo è vero. Ma a quale prezzo? I nostri intelletti migliori sono impiegati per ideare assurdità del genere e poi per venderle. E oltre a questo, stiamo consumando le nostre risorse a tale velocità che già siamo diventati una nazione importatrice. Dobbiamo comprare all’estero materie prime. Le nostre montagne di ferro e le nostre risorse naturali, che un tempo parevano inesauribili, si sono sperdute nelle fogne di questa economia dello sperpero. E ancora più importante: che effetto crede che produca questo stato di cose, alla fine, sullo spirito del nostro popolo? Come può un popolo conservare la propria dignità collettiva, la propria integrità, se può essere così facilmente costretto a desiderare beni assurdi, simboli di benessere, e non benessere reale, cose inutili, solo perché le possiede il vicino, un attore del cinema di terza categoria?»

Ed, sempre più disperato, si ordinò un terzo bicchiere. «Va bene, è probabile che gli shaker elettrici siano aggeggi inutili. Ma è ciò che il popolo vuole.»

«È ciò che il popolo è costretto a volere. Dobbiamo trasformarci dall’interno. Ora che abbiamo risolto il problema della produzione del superfluo, l’uomo deve ricercare in se stesso nuovi valori, deve fabbricarsi il proprio destino, trovare la via del proprio Elisio. La stragrande maggioranza dei nostri scienziati lavora per inventare nuovi mezzi di distruzione o per creare nuovi prodotti di cui la gente non sente alcun bisogno. Invece, dovrebbero dedicarsi alla cura dei mali che affliggono l’uomo, indagare i segreti della Grande Madre, perlustrare le profondità dell’oceano, raggiungere le stelle.»

«Ha ragione, ma lei stesso si è accorto che la gente non s’interessa alle sue idee. Rivogliono la TV, la radio, il cinema. Non vogliono saperne del sentiero che porta a Elisio. Deve ammetterlo, ha perfino rinunciato alle sue prediche.»

«È stato un momento di debolezza» annuì Tubber. «Proprio oggi ho deciso di riprendere i miei sforzi. Nefertiti e io partiamo per Oneonta dove erigerò di nuovo la mia tenda e…» S’interruppe per guardare di nuovo, con occhi lampeggianti d’ira, il juke-box che stava ora suonando a un volume da rompere i timpani l’ennesima versione rock di una canzone popolare. «Nel nome della Grande Madre, ma chi può voler ascoltare una tale mostruosità?»

Ed, in tono persuasivo e ragionevole, disse: «È colpa sua. È stato lei a portare via a questa gente la televisione, la radio e la musica. Non sono abituati al silenzio. Vogliono musica.»

«E lei chiama musica questo baccano?» La faccia infinitamente triste del vecchio profeta incominciò a cambiare; Ed sprofondò nella disperazione più nera.

«Un momento, mi ascolti» implorò Ed in tutta fretta. «È una reazione naturale. La gente si affolla nei ristoranti, nei bar, nelle sale da ballo, dove possono divertirsi un po’. I produttori di juke-box stanno lavorando giorno e notte per soddisfare le richieste. I dischi vengono rovesciati a tonnellate sul mercato, il tempo strettamente indispensabile per inciderli e poi…» S’interruppe, accorgendosi di non aver detto le cose più opportune.

Ezechiele Giosuè Tubber, la Voce della Verità, stava ingigantendo a vista d’occhio.

Ed Wonder lo fissò interdetto. Pensò che Mosè doveva apparire più o meno uguale quando, sceso dalla montagna con i Dieci Comandamenti, trovò gli Ebrei chini in adorazione del Vitello d’Oro.

«Ah, è così! E allora in verità io maledico questa invenzione abominevole! Questa macchina che distrugge la pace impedendo all’uomo di sentire i propri pensieri. In verità, io dico che chi vorrà musica, avrà musica!»

Il volume del juke-box si abbassò improvvisamente e i sei cavalli bianchi della canzone popolare che cavalcavano intorno alla montagna si dissolsero improvvisamente trasformandosi nelle note di “…cantando lodi a Dio, insieme andremo avanti…”

Ed Wonder si alzò di scatto. Sentì un improvviso, improrogabile bisogno di uscire da quel luogo. Mormorò una specie di “addio” a Ezechiele Giosuè Tubber e si precipitò alla porta.

Mentre ruggiva, ebbe un’ultima, rapida visione del profeta Tubber che, dopo la maledizione, ancora guardava, fiammeggiante d’ira, il juke-box.

Un uomo in piedi presso il banco brontolò: «Ma chi diavolo ha messo su quella roba?»

L’inno esplose in quel momento nel ritornello corale “Gloria, gloria. Alleluja. Gloria, gloria. Alleluja…”.

Загрузка...