16

Il microfono della sveglia elettronica annunciò: «Due signori desiderano vederti.»

Ed guardò il piccolo schermo accanto alla porta che segnalava l’arrivo dei visitatori. Erano due uomini che non aveva mai visto.

Aprì la porta e i due lo fissarono impassibili.

«Lei è Edward Wonder?» domandò quello che sembrava più anziano.

«In persona.»

«C’è qualcuno che vorrebbe parlarle» Tirò fuori il portafogli e lo aprì davanti agli occhi di Ed. «Io mi chiamo Stevens, e questo è Johnson.»

Ed fece un verso per chiarire che la loro presenza non lo impressionava affatto. «Gestapo, eh?» disse ironico. «Che cosa posso fare per voi?»

«Deve seguirci» rispose Johnson, cortese ma non troppo.

Ed Wonder s’irrigidì immediatamente, deciso a non mollare.

«E perché? Che cosa avrei fatto, secondo voi?»

Stevens, il primo che aveva parlato, disse: «Sono persone molto importanti, signor Wonder. Abbia la cortesia di seguirci.»

«Sentite, io sono un cittadino e pago le tasse.» Ripensò alla seconda parte dell’affermazione. «Almeno le pagavo fino a una settimana fa. La legge non stabilisce che ci vuole per lo meno un mandato di cattura, o di comparizione, o qualcosa del genere?»

«Ha ragione, si usava così ai bei tempi» rispose l’altro, ma senza polemica. «Ora c’è un po’ di premura. Emergenza. Ci è stato detto di rintracciarla e portarla là al più presto possibile. E noi lo stiamo facendo.»

Ed Wonder, a quel punto, si sentiva recalcitrante come un mulo. «No» disse categoricamente. «E poi io odio i piedipiatti.»

I due lo squadrarono attentamente.

Ed riprese: «Un’altra ambizione covata da anni. Chiamare piedipiatti un agente di polizia.»

«Splendido» disse Johnson. «Adesso che ha dato del piedipiatti a qualcuno, è soddisfatto? Possiamo andare?»

Ed cedette. «D’accordo» disse. «Ma se pensate di agire voi in stato di emergenza, dovreste sapere in quale emergenza mi trovo io!»

«Probabilmente si tratta della stessa cosa» ribatté Stevens.

Lo accompagnarono all’ascensore e poi in strada, tenendolo sottobraccio, uno a destra e uno a sinistra, con naturalezza; ma Ed aveva la sensazione che se avesse tentato di allontanarsi con uno scatto, non avrebbe fatto un metro di strada. Davanti al portone era ferma una grossa vettura a cuscino d’aria. Lo fecero salire sul sedile anteriore e gli si sedettero ai lati. Stevens comunicò la destinazione al pilota automatico e la grossa vettura si alzò fino al livello riservato alla polizia e partì verso sud a grande velocità.

«Dove andiamo?» domandò Ed.

«A Manhattan.»

«Perché?» chiese ancora Ed. «Non ho diritto di saperlo? Non ho il diritto di chiamare un avvocato?»

«Ai bei tempi si usava così» ripeté Stevens.

Johnson era più comprensivo. «A dire il vero, signor Wonder, non abbiamo idea del perché la vogliono vedere. È la missione più segreta a cui abbiamo mai preso parte.»

«Chi sono le persone che mi vogliono?» domandò Ed, di nuovo indignato. Nessuno dei due rispose.


Manhattan si trovava centocinquanta chilometri a sud, più o meno. Stevens ridusse la velocità un quarto d’ora dopo la partenza, e la vettura s’immise nel traffico più intenso di Super New York.

Raggiunsero il Nuovo Empire State Building, entrarono dall’ingresso riservato alle autovetture e si arrestarono a fianco di tre uomini in uniforme molto elegante; due di essi portavano una pistola automatica di grosso calibro appesa bene in vista alla cintura.

Ed e i due agenti di polizia in borghese che l’avevano prelevato uscirono dall’auto, accolti dagli sguardi inespressivi degli agenti di guardia. Furono presentati e controllati i documenti. Una guardia disarmata raggiunse il telefono vicino e parlò brevemente a bassa voce. Poi si voltò, fece un cenno d’assenso e scortò i tre fino all’ascensore.

Salirono a una velocità da crampi allo stomaco per un periodo di tempo che a Ed Wonder sembrò incredibilmente lungo. Raggiunsero una velocità massima, poi l’ascensore decelerò. Infine si aprì la porta.

C’erano altre guardie armate. Ci fu un nuovo controllo, poi il trio procedette. I due agenti in borghese guidarono Ed attraverso l’atrio e imboccarono un corridoio laterale. Ed passò davanti a una finestra e diede un’occhiata veloce di sotto. Evidentemente si trovavano molto vicino alle cime del più alto edificio di Manhattan. Alcune stanze lungo il corridoio avevano la porta aperta. Dentro si vedevano decine di impiegati e impiegate al lavoro. Sembravano tutti in uno stato di frenetica agitazione. Altre stanze erano vuote e, proprio in quel momento, venivano arredate e organizzate per far posto a nuove attività. Calcolatori elettronici e relative perforatrici, stampatrici automatiche, riproduttori fotografici venivano spinti su e giù per il corridoio.

«Ma che roba è questa?» domandò Ed.

Gli rispose Johnson, con molta cortesia: «Glielo abbiamo già detto. Non ne sappiamo niente.»

Giunsero finalmente a destinazione. Ed fu introdotto in una piccola sala d’attesa; c’era solo una ragazza, seduta dietro un tavolo.

Stevens disse: «Wonder, Edward. Kingsburg. Precedenza “C”. Numero Z-168.»

Le porse una busta. La ragazza l’aprì e scorse l’unico foglio che conteneva. «Oh, sì! Il signor Yardborough l’aspetta.» Quindi avvicinò il viso al microfono del citofono da tavolo e annunciò: «Signor Yardborough, è stato condotto qui il signor Wonder, di Kingsburg.»

Ed disse bellicoso: «Mi ascolti bene, sono in stato di arresto? Se è così, voglio telefonare a un avvocato.»

La ragazza lo guardò e scosse la testa come se rispondere, anche con una sola parola, le fosse troppo faticoso. «Il signor Yardborough la riceverà subito.»

Uno dei due agenti in borghese aprì la porta che conduceva all’ufficio interno, fece passare Ed e la chiuse alle sue spalle.

Il signor Yardborough sedeva a un tavolo ingombro di carte. Da quanto ricordava Ed, un dirigente non doveva mai avere il tavolo ingombro. La regola numero uno dell’ordine e dell’efficienza imponeva che venisse esaminata una sola pratica alla volta.

La scrivania del signor Yardborough era un caos di carte.

L’uomo sollevò la testa dal tavolo; aveva l’aspetto affranto, come la sua segretaria. «Si accomodi, signor… ehm… Wonder. Mi faccia guardare qui un momento.» Fra le migliaia di fogli che gli stavano di fronte ne prese uno, poi tre ritagli di giornale uniti con un fermaglio.

Ed Wonder si sedette. Per lo meno avrebbe scoperto che cosa gli stava succedendo. Tutta la faccenda aveva sempre meno l’aspetto di un intervento poliziesco.

Cominciò a sospettare che…

«Edward Wonder» disse Yardborough. «Direttore del programma Ai limiti del reale, trasmesso da radio Kingsburg. Questa prima segnalazione su di lei è apparsa in un articolo di giornale scritto da…» controllò un ritaglio «…Buzz De Kemp, del “Times Tribune” di Kingsburg. Descrive, con molte strizzate d’occhio, il suo ospite della trasmissione, Ezechiele Giosuè Tubber, un predicatore che, apparentemente, avrebbe scagliato una… ehm… maledizione sulla vanità delle donne.»

Ed fece per parlare, ma Yardborough lo bloccò alzando stancamente una mano.

«Un momento. La seconda segnalazione è analoga. Il signor De Kemp ha scritto un altro articolo, sempre in tono scherzoso, affermando che questo predicatore ambulante, Tubber, è stato la causa della cosiddetta Moda Domestica.»

Yardborough posò il secondo ritaglio e prese il terzo. «La terza segnalazione porta ugualmente la firma del signor De Kemp, ma lo stile dell’articolo appare piuttosto diverso.»

«È stato rifatto in redazione» mormorò Ed. L’orizzonte si stava schiarendo.

«Ah sì? Molto bene. Quest’ultimo articolo, un pezzo di varietà molto carico di umorismo, rivela che Tubber pretende di essere stato la causa dell’attuale “difficoltà” che ha colpito la televisione e la radio.» Yardborough posò anche il terzo ritaglio.

«Dove ha pescato quella roba?» domandò Ed.

L’uomo sorrise con aria compassionevole. «Mi creda, signor Wonder, abbiamo copia di ogni giornale che si stampa al mondo, in qualsiasi lingua; affluiscono tutti qui, negli ultimi cinque piani del Nuovo Empire State Building. Vengono esaminati da squadre di traduttori.»

Ed lo guardò attonito.

Yardborough continuò: «Ogni giornale del mondo viene controllato nella speranza di trovare qualsiasi traccia. E questa è solo una delle tante operazioni in corso in questo palazzo, signor Wonder. E gli sforzi non si concludono all’interno di questo palazzo. Comunque, basti dire che abbiamo preso in considerazione anche questi tre ritagli di giornale che parlano di lei e Tubber. E ora, che cos’ha da dire per spiegare questa storia?»

Ed esplose: «Come sarebbe a dire? Non ho niente da spiegare. È la verità!»

«Quale sarebbe la verità?» chiese Yardborough.

«Ezechiele Giosuè Tubber ha scagliato una maledizione contro la vanità femminile. E funziona. Poi ha maledetto la radio e la televisione. Questo è accaduto nel mio programma. E funziona.»

Yardborough si alzò. «Va bene, venga con me, signor Wonder.»

«Non vuole sentire tutti i particolari?» chiese Ed, sorpreso.

«Lei è fuori della mia giurisdizione» gli spiegò Yardborough. L’uomo raccolse le carte relative a Ed e lo precedette nella sala d’attesa dove stava la segretaria. I due agenti in borghese erano ancora lì e aspettavano pazientemente come solo i poliziotti sanno aspettare.

Yardborough li chiamò con energia. «Quest’uomo è diventato precedenza “A”. Se gli capita qualcosa, per voi sono guai seri.» Poi a Ed Wonder: «Mi segua.»

S’infilarono di nuovo nel corridoio e superarono più di un ingresso. Solo una volta le guardie li fermarono per chiedere i documenti di identità. Infine, tutti e quattro arrivarono a un altro ufficio, molto più vasto, dato che l’anticamera conteneva ben tre scrivanie con relative segretarie. C’erano in giro molti poliziotti, il contingente di guardia era composto da quattro o cinque individui piuttosto nervosi che aspettavano il loro turno.

«Si sieda» disse Yardborough a Ed; poi andò a confabulare con una delle tre segretarie e le piazzò sotto gli occhi l’incartamento di Ed parlando a bassa voce. Lei annuì.

Yardborough si voltò verso Ed. «Buona fortuna» gli disse. E ai due agenti di guardia: «Rimanetegli attaccati come francobolli fino a nuovo ordine.»

«Sì, signore» risposero insieme. Yardborough se ne andò.

«Che cosa diavolo sta succedendo?» chiese Ed.

Johnson sembrava molto impressionato. «È la prima volta che ci viene affidato un caso di precedenza “A”» gli comunicò.

«Oh, meraviglioso» disse Ed a denti stretti. «Ma che cosa significa precedenza “A”?»

«E chi ne sa niente» disse l’altro poliziotto.

Aspettò per circa mezz’ora prima che apparisse alla porta di uno dei vari uffici interni un tipo nervoso che chiamò: «Edward Wonder!»

Ed si alzò. Le due guardie del corpo gli si avvicinarono.

Il nuovo venuto si diresse verso Ed. «È lei Ed Wonder?»

«In persona.»

«Venga con me.» Mentre entravano nell’ufficio segreto, l’uomo continuava a scorrere la pratica di Ed e i tre ritagli di giornale. I due agenti rimasero nell’anticamera.

Nell’ufficio c’erano due scrivanie. Dietro una sedeva un maggiore dell’esercito senza giacca, che aveva appeso alla spalliera della sedia, e il nodo della cravatta allentato. Aveva l’aspetto di una persona che non dormiva da giorni.

Il tipo nervoso disse: «Sono Bill Oppenheimer. E questo è il maggiore Leonard Davis. Lei è stato segnalato come precedenza “A”.»

Lanciò il rapporto e i ritagli al maggiore Davis che cominciò stancamente a esaminarli.

«Che cosa diavolo vuole dire precedenza “A”?» chiese Ed.

«È la qualifica delle persone che credono di sapere cosa ha messo fuori uso la radio e la TV.»

«E perché non aggiungete anche il cinema?» Ed si sentiva ancora scombussolato. Gli avvenimenti incalzavano troppo rapidamente per le sue capacità di assimilazione.

L’ufficiale alzò gli occhi dalle carte. «Pensavamo che fosse un fenomeno distinto!» esclamò.

«Non lo è» gli disse Ed deciso.

Bill Oppenheimer si sedette sull’orlo del tavolo e sospirò stancamente. «Finora, signor Wonder, il maggiore e io abbiamo intervistato circa trecento persone in questo ufficio. Tutti credevano di sapere la ragione dell’interruzione delle trasmissioni radio-televisive. Tutti quanti erano arrivati qui con una classificazione di precedenza “A”. Abbia la cortesia di raccontarci la sua storia, dettagliatamente. Tutti i particolari di cui è a conoscenza.»

Il maggiore sbuffò e lasciò cadere la pratica di Ed sul tavolo. «Prima di tutto, ci spieghi un po’ cosa voleva dire a proposito del cinema.»

«La stessa cosa che ha messo fuori uso TV e radio impedisce che le pellicole cinematografiche si proiettino regolarmente» disse Ed, e aggiunse: «Se proprio volete saperlo, anche la Moda Domestica ha la stessa origine.»

Il maggiore accese un interruttore e disse concitato al citofono: «Azione immediata. È stato suggerito che l’interruzione dei cinema sia collegata con il fenomeno che ha colpito radio e TV. Ulteriori comunicazioni appena possibile.» Spense il citofono. «Allora» disse a Ed Wonder. «Fuori la sua storia, dalla A alla Z.»


Ed fece un resoconto completo con tutti i particolari che i due vollero sentire. Aggiornò il racconto fino agli ultimi sviluppi, compresa la scomparsa di Buzz De Kemp.

Quando ebbe finito, i due uomini rimasero a guardarlo immobili per alcuni istanti, strabuzzando gli occhi.

Infine, Bill Oppenheimer si schiarì la gola e domandò al maggiore: «Che ne pensi Lenny?»

Il maggiore si prese il mento in una mano e storse la bocca. «Ho rinunciato a pensare» rispose. «Ne ho sentite di tutti i colori, non so più che cosa dire.»

Ed era irritato. «Ah, facciamo gli spiritosi» borbottò. «Proprio divertente!»

Oppenheimer riprese, speranzoso: «Pensi che sia il caso di sbatterlo fuori immediatamente?»

«Non sono stato io a chiedere di venire qua» intervenne Ed. «Sono stato sequestrato con la forza.»

Lo ignorarono. Il maggiore scosse la testa e disse: «Non possiamo sbatterlo fuori. Non possiamo cacciare via nessuno fino a che non abbiamo controllato le spiegazioni parola per parola a partire da quel fatidico martedì.» Riaccese il citofono e ordinò: «Desidero che siano controllati tutti i movimenti di Ed Wonder, di Kingsburg, New York, a partire da martedì scorso. Voglio un rapporto completo, immediatamente. Sguinzagliate una squadra di rilevamento. Inoltre, se i seguenti nominativi non sono già stati controllati, mandate la polizia a sequestrarli e preparate rapporti completi su tutti. Priorità “A”: Buzz De Kemp, Jensen Fontaine, Helen Fontaine, Matthew Mulligan, Ezechiele Giosuè lubber. Sì, ho detto Ezechiele Giosuè Tubber. E Nefertiti Tubber. Tutti di Kingsburg, tranne gli ultimi due visti ultimamente a Saugertis.»

Oppenheimer sospirò e parlò a sua volta nel proprio citofono. «Alice, prepari immediatamente la registrazione dell’ultimo rapporto. Cinquanta copie. Solita lista di distribuzione. Priorità “A”. Questo tizio è abbastanza coerente.»

I due uomini fissarono di nuovo Ed Wonder senza parlare. Il maggiore aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito.

Senza alcuna nota ironica nella voce, finalmente Oppenheimer disse: «Maledizioni, eh?»

Arrivò una comunicazione al citofono del maggiore. Le sue sopracciglia si alzarono. «Mandatelo su subito.»

Dopo pochi istanti entrò un uomo che posò due copie di un rapporto sulle due scrivanie e uscì rapidamente. Senza badare a Ed Wonder, i due uomini s’immersero nella lettura.

Oppenheimer alzò gli occhi per primo. Guardò il maggiore Davis. «Precedenza assoluta?»

«Sì.» Il maggiore si alzò, prese la giacca e commentò: «All’inferno!» Fece per infilarsi la giacca, ma la riappese alla sedia ripetendo: «All’inferno!» Poi, in maniche di camicia, sempre con la cravatta allentata, si avviò alla porta. «Mi segua» disse a Wonder. Ed scosse le spalle, si alzò dalla sedia e lo seguì. Oppenheimer chiudeva la fila, con la pratica di Ed e il nuovo rapporto appena arrivato sotto il braccio.


Nell’anticamera, Johnson e Stevens si alzarono di scatto e si fecero avanti.

«Siete le guardie del corpo del signor Wonder?» domandò il maggiore.

«Sì, signore.»

Il maggiore richiamò con un cenno due delle altre guardie del corpo presenti. «Voi due lascerete il compito attuale e aiuterete a proteggere il signor Wonder. Con la vostra vita, se necessario. Precedenza assoluta.»

«Sì, signore.» Contemporaneamente le quattro guardie alzarono un lembo della giacca e posero la mano sul calcio della pistola ben visibile dentro una fondina speciale appesa alla cintura.

«Che diavolo!» protestò Ed. Ma nessuno gli badò.

«Ora venite tutti con me» ripeté il maggiore, e fece strada.

Questa volta salirono al piano superiore. L’agitazione qui era molto più attenuata. Attraversarono un atrio, e poi un altro. Infine si fermarono davanti a una porta presidiata da un agente. Mentre si avvicinavano, l’agente appoggiò saldamente la mano al calcio della pistola e non la mosse di lì fino a che il maggiore e Oppenheimer ebbero mostrato i loro documenti e presentato gli altri.

Oppenheimer aggiunse: «Un altro ospite. Ora siete in sei. Farete turni. Un uomo all’esterno, uno all’interno, continuamente. Vi manderò il tenente Edmonds con ulteriori disposizioni. Fino a che non arriva, rimanete qui tutti e sei.»

Ci fu un coro di “Sì, signore”, poi Oppenheimer aprì la porta ed entrò. Era una stanza arredata con grande lusso.

Buzz De Kemp sollevò gli occhi dal romanzo tascabile che stava leggendo comodamente seduto in poltrona. Ghignò, si tolse il sigaro di bocca, e disse: «Salve, Piccolo Ed. Hanno pizzicato anche te, eh?»

Ed Wonder era sbalordito. Si sedette su un divano e chiuse gli occhi.

Oppenheimer e il maggiore guardarono il giornalista. Il primo disse: «Abbiamo appena letto il suo rapporto sull’affare Tubber. A grandi linee collima con quanto ci ha riferito Wonder. Questo fa alzare la vostra qualifica da “A” a “Precedenza assoluta”.»

«Ne siamo lusingati» rispose Buzz raggiante. «Quanti altri ne esistono con precedenza assoluta?»

«Parecchie centinaia almeno, negli Stati Uniti del Benessere. Devo controllare di nuovo per sapere quanti ce ne sono in Inghilterra, nell’Europa Confederata e nel Complesso Sovietico. Ed è probabile che, a quest’ora, anche gli Stati Neutrali Alleati si siano mossi.»

Buzz fischiò piano. «Sta diventando un affare colossale.»

«Colossale come una guerra» disse secco il maggiore.

Ed stava cominciando ad ambientarsi. Con aria sommessa domandò: «A che ora si serve il pranzo da queste parti? Se devo essere trattato come un prigioniero, vorrei almeno mangiare una volta ogni tanto.»

Oppenheimer ribatté: «Non è prigioniero. È un volontario che lavora per il governo.»

«C’è qualche differenza?» chiese.

«Ritorneremo fra poco.»

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