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Nella stanza di Saul c’era un tale assortimento di cianfrusaglie senza capo né coda (dal punto di vista dell’ordine, era l’antitesi della stanza di Gunnar) che veniva da domandarsi se le avesse abbandonate dove erano finite per caso, ma poi ci si accorgeva che non c’era niente di buttato da parte, o dimenticato; si vedeva che ognuno di quegli oggetti aveva un valore affettivo per il suo proprietario: le foto tristi e scattate senza alcuna arte, quasi tutte di persone anziane (erano pazienti dell’ospedale, e Saul indicò loro il signor Edwards e la signora Willis); i libri, che andavano dal Manuale di Merck a Colette, da La famiglia dell’uomo a Henry Miller, da Edgar Rice a William S. Burroughs e a George Borrow (La Bibbia in Spagna, Galles selvaggio e Zincali); una copia dell’Occulto subliminale di Nostig (che con la sua presenza sorprese Franz); una quantità di lavori in perline colorate, hippy, indiani e amerindi; pipette per fumare hashish; un boccale da birra pieno di fiori freschi; un poster per la misura della vista; una carta geografica dell’Asia, e un gran numero di quadretti e di disegni, geometrici o surrealistici compreso un sorprendente quadro astratto in acrilico su cartone nero che brulicava di forme frementi, colorate come gemme o come insetti, e che sembrava riprodurre in miniatura l’amata confusione di quella stanza.

Saul l’indicò, dicendo: — L’ho fatto io, l’unica volta che ho fiutato la cocaina. Se esiste una droga capace di dare qualcosa alla mente anziché sottrarglielo (e ne dubito), è la cocaina. Se mai ritornassi sulla strada della droga, sceglierei quella.

— “Ritornassi”? — chiese ironicamente Gunnar, indicandogli le pipe da hashish.

— La canapa indiana è un gioco — dichiarò Saul. — Una frivolezza, un ammorbidente sociale da classificare col tabacco, il caffè e il tè. Quando Anslinger ha convinto il Congresso a classificarlo, a tutti i fini pratici, come droga pesante, ha davvero rovinato l’evoluzione del popolo americano e la sua mobilità sociale.

— Davvero? — cominciò Gunnar in tono scettico.

Ma Franz intervenne: — Certo non viene visto come l’alcool, che in genere ha la benedizione della comunità, o almeno quella delle agenzie pubblicitarie: “Bevete liquori e sarete sexy, sani e ricchi” ci promette la pubblicità, soprattutto quella della Velluto Black Velvet. A proposito, Saul, è strano che tu abbia parlato della paraldeide nella tua storia. L’ultima volta che sono stato “separato” dall’alcool, per usare l’espressione medica, tanto delicata, mi hanno dato un po’ di paraldeide per tre notti di fila. Era davvero deliziosa, dava lo stesso effetto che mi aveva dato l’alcool quando l’avevo bevuto per la prima volta: una sensazione che credevo di non provare mai più, un calore rosa, brillante, dentro di te.

Saul annuì. — Fa lo stesso effetto dell’alcool, senza causare gli stessi guasti immediati nel sistema nervoso. Quindi l’individuo distrutto dall’abuso del normale liquore reagisce in modo splendido. Ma naturalmente anche quella può dare assuefazione: sono sicuro che lo sai. Ehi, chi vuole un po’ di caffè? Ho solo quello in polvere, però.

Mise subito l’acqua a bollire e versò alcuni cucchiaini di polvere bruna nelle tazze colorate, mentre Gunnar chiedeva: — Non pensi che l’alcool sia la droga naturale dell’umanità? Ormai, millenni di uso e di esperienza ci hanno pennesso di conoscerne gli effetti e di abituarci a essi.

— Il tempo c’è stato effettivamente — commentò Saul. — Almeno quello necessario per eliminare tutti quegli italiani, greci, ebrei e altri appartenenti a popoli mediterranei che avevano nei suoi confronti una forte debolezza genetica. Gli indiani d’America e gli eschimesi non hanno avuto la stessa fortuna. Ci sono ancora dentro. Ma anche la canapa indiana e il peyote e il papavero e il fungo sacro, l’amanita muscaria, hanno una storia molto lunga.

— Sì, ma quelli hanno effetti psichedelici, distorcono la coscienza direi, anziché ampliarne la sfera — protestò Gunnar. — Mentre l’alcool ha un effetto più semplice.

— Io ho avuto anche delle allucinazioni causate dall’alcool — intervenne Franz, in parziale contraddizione con le parole dell’amico — benché non così forti come quelle provocate dall’acido lisergico, a quanto ho sentito dire. Ma solo durante l’astinenza, per i primi tre giorni. Negli armadi e negli angoli bui, e sotto i tavoli, mai alla luce viva, vedevo fili neri, o qualche volta rossi, grossi come i cavi del telefono, che vibravano e si agitavano. Mi ricordavano le zampe di ragni giganti e così via. Sapevo che erano allucinazioni: potevo resistere, grazie al Cielo. La luce viva le spazzava via sempre.

— L’astinenza è una cosa strana, e a rischio — osservò Saul mentre versava nelle tazze l’acqua bollente. — È allora che gli alcolizzati hanno il delirium tremens, non quando bevono: sono sicuro che sai anche questo. Ma i pericoli e le sofferenze causati dell’astinenza dalle droghe pesanti sono stati alquanto esagerati: fanno parte del mito. L’ho scoperto quand’ero studente, ai tempi d’oro dell’Haight-Ashbury, prima di diventare interno, e correvo di qua e di là a somministrare Thorazina agli hippy scoppiati che erano in overdose o che erano convinti di esserlo.

— È vero? — chiese Franz, prendendo il suo caffè. — Ho sempre sentito dire che non c’è niente di peggio che smettere di punto in bianco con l’eroina.

— Fa parte del mito — assicurò Saul, scuotendo i lunghi capelli mentre porgeva a Gunnar il caffè e incominciava a bere il suo. — Il mito che Anslinger ha fatto di tutto per creare negli anni Trenta, quando tutti coloro che avevano occupato posti elevati nei dipartimenti di polizia per la lotta contro il contrabbando di liquori cercavano di assicurarsi posti altrettanto elevati nelle squadre Narcotici. È andato a Washington con un paio di veterinari che s’intendevano del doping dei cavalli da corsa e con la borsa piena di sensazionali ritagli di giornali messicani e centro-americani che parlavano di omicidi e di stupri commessi da peones che erano presumibilmente impazziti per l’effetto della marijuana.

— E molti scrittori si sono precipitati ad accogliere il suo suggerìmento — intervenne Franz. — Nei romanzi, il protagonista tirava una boccata da una strana sigaretta e cominciava ad avere bizzarre allucinazioni, che di solito riguardavano il sesso e il desiderio di uccidere. Ehi, forse potrei proporre un episodio per I segreti del sovrannaturale con la squadra Narcotici — aggiunse pensieroso, parlando tra sé e sé. — È un’idea.

— E le sofferenze causate da un’improvvisa astinenza rientravano nel mito dei narcotici — riprese Saul. — Così, quando i beatnik e gli hippy e tutti gli altri hanno cominciato a prendere le droghe come atto di ribellione contro l’Establishment e la generazione precedente, hanno avuto tutte le spaventose allucinazioni e le crisi di astinenza previste dal mito che i poliziotti si erano inventati. — Fece un sorriso torto. — Sapete, qualche volta ho pensato che è una situazione simile agli effetti a lunga scadenza della propaganda bellica sui tedeschi. Durante la seconda guerra mondiale hanno commesso tutte le atrocità (e anche di più) che erano stati accusati, spesso falsamente, di avere commesso durante la prima guerra. Mi dispiace dirlo, ma la gente cerca sempre di dimostrarsi all’altezza delle peggiori aspettative altrui.

Gunnar commentò: — E, nell’epoca hippy, l’equivalente delle SS naziste è la “famiglia” Manson.

— Comunque — proseguì Saul — è quello che ho imparato quando correvo per l’Haight-Ashbury nel cuore della notte, a somministrare per via rettale la Thorazina ai “figli dei fiori” in overdose. Non potevo usare una siringa perché allora non ero un vero infermiere.

Gunnar intervenne, pensieroso: — È stato così che ho conosciuto Saul.

— Ma non è stato Gunnar a ricevere la Thorazina per via anale — rettificò Saul. — Sarebbe stato troppo romantico. Si trattava di un suo amico in overdose, che l’aveva chiamato, e così lui aveva chiamato noi. Ci siamo conosciuti così.

— Il mio amico si è poi ripreso benissimo — osservò Gunnar.

— E voi due, come avete conosciuto Cal? — chiese Franz.

— L’abbiamo conosciuta quando è venuta ad abitare qui — rispose Gunnar.

— All’inizio abbiamo solamente pensato che su di noi fosse sceso all’improvviso il silenzio — rifletté Saul. — Il precedente inquilino della sua stanza era straordinariamente rumoroso, perfino per questo palazzo.

Gunnar aggiunse: — E poi è stato come se un topolino molto tranquillo e dall’orecchio molto musicale si fosse unito a noi: ci pareva di sentire musica per flauto, ma così piano che pensavamo di immaginarcela.

— Nello stesso tempo — disse Saul — abbiamo incominciato a notare una giovane donna, attraente, riservata e gentile, che entrava o usciva al quarto piano, sempre sola, e che apriva o chiudeva la porta dell’ascensore con molta delicatezza.

E Gunnar: — Poi una sera siamo andati a un concerto di quartetti di Beethoven al Veterans’ Building e lei era tra il pubblico, e così ci siamo presentati.

— Abbiamo preso l’iniziativa tutti e tre — aggiunse Saul. — Alla fine del concerto eravamo grandi amici.

— E il successivo weekend l’abbiamo aiutata a decorare l’alloggio — concluse Gunnar. — Ci pareva di conoscerci da anni.

— O almeno era come se lei ci conoscesse da anni — precisò Saul. — Noi abbiamo impiegato più tempo per imparare a conoscerla: la sua vita incredibilmente ultra-protetta, le sue difficoltà con la madre…

— Il trauma della morte del padre… — aggiunse Gunnar.

— E la sua decisione di arrangiarsi da sola e… — Saul scrollò le spalle — … e di scoprire la vita. — Guardò Franz. — E ci è occorso un tempo ancor più lungo per scoprire quanto fosse sensibile, sotto la sua apparenza distaccata ed efficiente, e le altre sue doti oltre a quelle musicali.

Franz annuì, poi chiese a Saul: — E adesso mi racconterai la storia che la riguarda? Quella che avevi promesso di tenere in serbo per più tardi?

— Come fai a sapere che riguarda Cal? — domandò Saul.

— Perché al ristorante le hai lanciato un’occhiata, prima di decidere di non raccontarla — rispose Franz. — E perché non mi hai invitato a venire da te finché non sei stato sicuro che lei andava a dormire.

— Voi scrittori siete molto acuti — osservò Saul. — Be’, in un certo senso questa è una storia che può ispirare uno scrittore. Uno scrittore del tuo genere: orrore soprannaturale. Quel che t’è successo sul Corona Heights mi ha fatto venire voglia di raccontarla. Lo stesso mondo dell’ignoto, ma una regione diversa.

Franz avrebbe voluto dire: “Mi aspettavo anche questo”, ma si trattenne.

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