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Franz udì Gunnar che diceva, in tono concitato: — Cal, tutto a posto? Franz! — E poi Saul: — Cosa diavolo è successo, in questa stanza? — E di nuovo Gunnar: — Mio Dio, sembra che tutta la sua biblioteca sia stata messa nello Stracciafogli! — Ma Franz poteva vedere, di loro, soltanto le scarpe e le gambe. Che strano. C’era un terzo paio di gambe: calzoni marrone e scarpe marrone sciupate, un po’ scalcagnate. Fernando, naturalmente.

Molte porte si aprirono lungo il corridoio, molte teste si affacciarono. La porta dell’ascensore si aprì e ne sbucarono di corsa Dorotea e Bonita, ansiose e preoccupate. Ma Franz si ritrovò a fissare (perché la loro presenza davvero lo sconcertava) una decina o più di scatoloni impolverati di cartone ondulato, ammonticchiati ordinatamente lungo la parete del corridoio, di fronte al ripostiglio delle scope, accanto a tre vecchie valigie e a un baule.

Saul si era inginocchiato accanto a lui e gli tastava con fare professionale il petto e il polso, sollevandogli le palpebre con un tocco leggero per controllare le pupille, e non diceva nulla. Poi rivolse a Cal un cenno rassicurante.

Franz riuscì a lanciargli un’occhiata interrogativa. Saul gli sorrise con disinvoltura e disse: — Sai, Franz, Cal ha lasciato il concerto come un pipistrello scappato dall’inferno. Si è inchinata insieme agli altri solisti, ha aspettato che s’inchinasse anche il direttore, ma poi ha afferrato il mantello (l’aveva portato sul palcoscenico durante il secondo intervallo e l’aveva posato sulla panchetta accanto a lei; io le avevo riferito il tuo messaggio) e se n’è andata di corsa passando in mezzo al pubblico. Tu credevi di averlo offeso, andandotene all’inizio. Credimi, è stata una cosa da niente in confronto al modo in cui l’ha trattato lei! Quando l’abbiamo rivista, stava fermando un taxi: correva in mezzo alla strada per bloccarlo. Se fossimo stati meno svelti, ci avrebbe piantati in asso. Ha continuato a smaniare per tutto il tempo che abbiamo impiegato per salire.

— E poi ci ha preceduti di nuovo quando ognuno di noi pensava che sarebbe stato l’altro a pagare il tassista, e lui ci ha gridato dietro, e noi due siamo tornati a pagarlo — proseguì Gunnar, dietro la spalla di Saul. Era in piedi, nella stanza, al limitare della grande marea di ritagli di carta, come se non osasse smuoverla. — Quando siamo entrati, lei stava salendo di corsa le scale. Intanto l’ascensore era giunto al terreno, e l’abbiamo preso, ma è arrivata prima lei. Ehi, Franz — chiese, tendendo il braccio per indicare — chi ha disegnato col gesso quella grande stella sopra il tuo letto?

A questa domanda, Franz vide le piccole scarpe marrone scalcagnate farsi avanti a passo deciso tra la neve di carta. Fernando bussò di nuovo sul muro sopra il letto, come per richiamare l’attenzione, poi si voltò e disse in tono autorevole: — Hechiceria occultado en muralla!

— Stregoneria nascosta nel muro — tradusse Franz, come un bambino deciso a dimostrare che non è malato. Cal gli sfiorò le labbra con aria di rimprovero, per ordinargli di riposare.

Fernando alzò un dito, come per annunciare: “Vi faccio vedere!”. E tornò indietro a grandi passi, girando cautamente attorno a Cal e Franz che stavano sulla soglia. Proseguì svelto nel corridoio, passando davanti a Dorotea e Bonita, si fermò davanti alla porta del ripostiglio delle scope e si girò. Si fermò anche Gunnar, che l’aveva seguito per curiosità.

Il peruviano indicò un paio di volte la porta chiusa e poi gli scatoloni ammonticchiati, e mimò un uomo che cammina piegando le ginocchia. (“Li ho tirati fuori io. L’ho fatto in silenzio.”) Estrasse un grosso cacciavite dalla tasca dei calzoni, l’inserì nel buco dove un tempo stava la maniglia, lo girò e aprì la porta nera. Poi, brandendo il cacciavite, entrò.

Gunnar lo seguì e guardò all’interno, per poi riferire a Franz e Cal: — Ha sgombrato lo stanzino. Mio Dio, quanta polvere! Sapete, c’è perfino una finestrella. Adesso Fernando è inginocchiato accanto alla parete tra lo sgabuzzino e la tua stanza; dall’altra parte della parete c’è il punto dove ha bussato. C’è un piccolo armadietto, in basso. C’è uno sportello. Cosa contiene, le valvole? Il materiale per la pulizia? Qualche presa? Non lo so. Adesso sta usando il cacciavite per aprirlo. Be’, mi venisse un colpo!

Indietreggiò per lasciar uscire Fernando che sorrideva trionfalmente e reggeva davanti al petto un libro grigio, alto e sottile. Il peruviano s’inginocchiò accanto a Franz e glielo tese, aprendolo con un gesto teatrale. Si alzò uno sbuffo di polvere.

Le due pagine aperte a caso erano coperte da cima a fondo, notò Franz, da file ininterrotte di segni astronomici e astrologici, tracciati in inchiostro nero, nitidamente e convulsamente, e da altri simboli enigmatici.

Franz allungò la mano tremante e poi la ritrasse di scatto, come se temesse di scottarsi le dita.

Riconobbe la scrittura della Maledizione.

Doveva essere il Libro cinquanta, il Grande Cifrario menzionato nella Megalopolisomanzia e nel diario di Smith (B): il registro che Smith aveva visto una volta e che era un elemento essenziale (A) della Maledizione, e che era stato nascosto, quasi quarant’anni prima, dal vecchio Thibaut De Castries perché compisse la sua opera al fulcro (O) ossia al (Franz rabbrividì, alzando lo sguardo verso il numero della sua porta) Rodi 607.

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