Cal disse: — Franz, per tutto il giorno ho pensato, di tanto in tanto, con l’angolino della mia mente che non suonava il concerto brandeburghese, a quel “Rodi 607” che ti ha spinto a trasferirti qui. Era un posto preciso? E se sì, dov’era?
— “Rodi 607”? Cosa significa? — chiese Saul.
Franz raccontò di nuovo la storia del diario in carta di riso, del memorialista dall’inchiostro viola che forse era Clark Ashton Smith, e dei suoi possibili colloqui con De Castries. Poi disse: — Il 607 non può essere un indirizzo, come per esempio il nostro 811 Geary Street. A San Francisco non esiste una strada che si chiami “Rodi”: ho controllato. Quella che ci va più vicino è una Rhode Island Street: ma è nel Potrero, mentre dalle annotazioni del diario è chiaro che quel 607 è qui in centro, a poca distanza da Union Square. E una volta l’autore del diario dice di aver osservato dalla finestra Corona Heights e il Monte Sutro. Naturalmente, a quell’epoca non c’era la torre della TV. E…
— Diavolo, nel 1928 non c’erano neppure il ponte della Baia e il Golden Gate — interruppe Gunnar.
— … e Twin Peaks — continuò Franz. — E poi dice che Thibaut chiamava sempre le cime gemelle di Twin Peaks “i seni di Cleopatra”.
— Chissà se i grattacieli hanno i seni — rifletté Saul. — Devo chiederlo alla signora Willis.
Dorotea sgranò di nuovo gli occhi, si indicò il seno, disse: — Oh, no! — e scoppiò in un’altra risata.
Cal disse: — Forse Rodi è il nome di un palazzo o di un albergo. Per esempio il “Palazzo Rodi”.
— No, a meno che il nome non sia stato cambiato dopo il 1928 — obiettò Franz. — Adesso non c’è niente che si chiami così, a quanto mi risulta. Il nome “Rodi” non dice niente a nessuno di voi?
Non diceva niente.
Gunnar commentò: — Chissà se questo palazzo ha mai avuto un nome, povero vecchio male in arnese.
— Già — fece Cal. — Anche a me piacerebbe saperlo.
Ma Dorotea scosse la testa. — È solo l’811 Geary Street. Forse una volta era un albergo: sapete, con il portiere di notte e le cameriere. Ma non so.
— Associazione Palazzi Anonimi — osservò Saul, senza alzare gli occhi dalla sigaretta drogata che si stava preparando.
— Adesso chiudiamo il finestrino, eh? — disse Dorotea, facendo seguire l’azione alle parole. — Okay fumare le canne, ma non… come si dice?… non bisogna fargli troppa réclame.
Varie teste annuirono, saggiamente.
Dopo un po’, tutti si accorsero che avevano fame e pensarono che dovevano andare a mangiare al ristorante tedesco giù all’angolo, perché quella era la sera dei sauerbraten. Dorotea si lasciò convincere ad accompagnarli, e, nell’uscire, chiamò la figlia Bonita e il taciturno Fernando, che adesso era raggiante.
Mentre camminavano a fianco, dietro il gruppo degli altri, Cal chiese a Franz: — Il tuo “Taffy” è una cosa molto più seria di quel che ci hai detto, vero?
Lui dovette ammetterlo, anche se cominciava a nutrire strani dubbi a proposito di alcuni particolari della giornata: la foschia di tutte le sere, non del tutto sgradevole, pareva essere scesa anche nella sua mente, come lo spettro della vecchia confusione dell’alcolista. Alto sulla città, il disco un po’ gibboso della luna rivaleggiava in luminosità con i lampioni.
Franz disse: — Quando mi è parso di vedere quella cosa alla mia finestra, ho cercato tutte le spiegazioni possibili, per non doverne accettare una… be’, soprannaturale. Ho addirittura pensato che potevi essere tu col tuo vecchio accappatoio.
— Sì, potevo essere io, ma non lo ero — replicò lei, calma. — Ho ancora la tua chiave, sai. Me l’ha data Gunnar il giorno che doveva arrivare il tuo grosso pacco di libri e Dorotea era fuori. Te la restituirò dopo cena.
— Non c’è fretta.
— Vorrei proprio che riuscissimo a spiegare l’enigma di quel Rodi 607. E a scoprire il nome del nostro palazzo, se mai l’ha avuto.
— Cercherò di trovare un sistema. Cal, davvero tuo padre imprecava sul nome di Robert Ingersoll?
— Oh, sì: “In nome di…” e così via. E su William James, anche; e su Felix Adler, l’uomo che ha fondato la Cultura Etica. I suoi correligionari, che erano piuttosto atei, lo trovavano strano: ma a lui piaceva il suono del linguaggio religioso. Considerava la scienza un sacramento.
Nel piccolo e accogliente ristorante, Gunnar e Saul stavano accostando due tavoli fra i sorrisi d’approvazione di Rose, la cameriera dai capelli biondi e dalle guance rosse. Saul finì col sedersi tra Dorotea e Bonita, e Gunnar accanto alla ragazzina. Bonita aveva gli stessi capelli neri della madre, ma la superava già di mezza testa, e per il resto aveva un aspetto alquanto anglosassone: un tipo nordeuropeo con la figura snella e la faccia sottile; e non c’erano tracce di spagnolo nella sua voce da tipica studentessa americana. Franz aveva sentito dire che il padre, che aveva chiesto il divorzio e che non veniva mai nominato, era irlandese. Sebbene fosse gradevolmente snella, in pullover e calzoni, sembrava complessivamente un po’ goffa: ben diversa dalla figura indistinta e frettolosa che lui aveva intravisto per un momento quella mattina e che gli aveva fatto ritornare in mente un ricordo antipatico.
Franz si sedette accanto a Gunnar; accanto a lui c’era Cal, e poi veniva Fernando, che era vicino alla sorella. Rose venne a prendere le ordinazioni.
Gunnar passò alla birra scura. Saul ordinò una bottiglia di vino rosso per sé e i Luque. Il sauerbraten era delizioso, le crocchette di patate con salsa di mele erano una cosa dell’altro mondo. Bela, il cuoco “tedesco” (in realtà era ungherese) dalla faccia ben lustra, aveva superato se stesso.
In una pausa della conversazione, Gunnar disse a Franz: — È proprio strano, quello che ti è capitato a Corona Heights. Un’esperienza molto vicina, per quanto può esserlo ai giorni nostri, a quel che si potrebbe chiamare soprannaturale.
Saul lo sentì e intervenne subito: — Ehi, com’è che uno scienziato materialista come te parla del soprannaturale?
— Piantala, Saul — replicò Gunnar con una risata. — Mi occupo della materia, sicuro. Ma di che cos’è costituita? Di particelle invisibili, di onde e di campi di forza. Di niente di solido. Non tentare di insegnare ai gatti ad arrampicarsi sulle piante.
— Hai ragione — fece Saul sogghignando. — Non esiste altra realtà che le sensazioni immediate del singolo individuo, la sua coscienza. Tutto il resto è deduzione. Perfino l’esistenza degli altri individui è una deduzione.
Cal osservò: — Io penso che l’unica realtà siano i numeri… e la musica, che in pratica è la stessa cosa. Gli uni e l’altra sono reali, e gli uni e l’altra hanno potere.
— I miei computer sono d’accordo con te fino in fondo — le disse Gunnar. — Non conoscono altro che i numeri. Quanto alla musica… be’, potrebbero impararla.
Franz dichiarò: — Mi fa piacere sentirvi parlare così. Vedete, l’orrore soprannaturale è il mio pane quotidiano, sia quella schifezza dei Segreti del sovrannaturale sia…
— No! — protestò Bonita.
— … la roba più seria. Ma a volte volta la gente mi dice che l’orrore sovrannaturale non esiste più, che la scienza ha risolto tutti i misteri o può risolverli, che “religione” è solo un altro nome per il volontariato e l’assistenza sociale, e che la gente d’oggi è troppo sofisticata e istruita per lasciarsi spaventare dagli spettri, sia pure per divertimento.
— Non farmi ridere — ribatté Gunnar. — La scienza ha soltanto ampliato l’area dell’ignoto. E se c’è un dio, il suo nome è Mistero.
Saul disse: — Manda i tuoi scettici coraggiosi ed eruditi dal mio signor Edwards o dalla mia signora Willis, o almeno ricordagli le loro stesse paure sepolte. Oppure mandali da me, e io racconterò loro la storia dell’infermiera invisibile che terrorizzava il reparto agitati al St Luke. E poi c’era… — Esitò, guardando Cal. — No, è una storia troppo lunga per raccontarla in questo momento.
Bonita aveva l’aria delusa. Sua madre disse, sollecita: — Ma ci sono tante cose strane. A Lima. Anche in questa città. Bruhas… come si dice? Streghe! — E rabbrividì, soddisfatta.
Suo fratello fece un largo sorriso per far vedere di avere capito e alzò una mano per annunciare uno dei suoi rari commenti. — Hay hechiceria - disse in tono veemente, come per spiegarsi. — Hechiceria occultado en murallas. - Si curvò un poco, guardando verso l’alto. — Murallas muy altas.
Tutti annuirono cortesemente, come se avessero compreso.
Franz chiese sottovoce a Cal: — Cos’è l’hechi-eccetera?
Lei bisbigliò: — Stregoneria, credo. Stregoneria nascosta nei muri. Nei muri molto alti. — E scrollò le spalle.
Franz mormorò: — Nei muri dove? Come il proiettore di raggi dolorifici del signor Edwards?
Gunnar disse: — Comunque mi sto chiedendo una cosa, Franz: se hai davvero riconosciuto la tua finestra, mentre eri sul Corona Heights. Hai detto che i tetti erano come un mare visto dalla riva. E questo mi ricorda le difficoltà che ho incontrato a cercare un determinato punto nelle foto di gruppi di stelle o nelle immagini della Terra prese dai satelliti. È il guaio di tutti gli astronomi dilettanti… e anche dei professionisti. Capita spesso d’imbattersi in due o più immagini che sono quasi identiche.
— Ci avevo pensato anch’io — replicò Franz. — Controllerò.
Appoggiandosi alla spalliera della sedia, Saul disse: — È una buona idea: andiamo tutti a fare un picnic a Corona Heights, uno di questi giorni. Io e te, Gunnar, potremmo portare le ragazze: gli farebbe piacere. Ti va, Bonny?
— Oh, sì — rispose prontissima la tredicenne Bonita.
E questo parve chiudere l’argomento.
Dorotea disse: — Grazie per il vino. Ma ricordate sempre di dare due giri alla chiave e di chiudere anche il finestrino, quando uscite.
Cal commentò: — E adesso, spero di dormire per dodici ore filate. Franz, la chiave te la renderò un’altra volta. — Saul le lanciò un’occhiata.
Franz sorrise e chiese a Fernando se aveva voglia di fare una partita a scacchi con lui, più tardi. Il peruviano sorrise amabilmente.
Bela Szlawik, con il viso arrossato per il calore dei fornelli, diede lui stesso il resto, quando andarono a pagare il conto, mentre Rose andava ad aprire la porta.
Quando furono sul marciapiede, Saul guardò Franz e Cal: — Cosa ne direste di venire con Gunnar nella mia stanza, prima di giocare a scacchi? Mi piacerebbe raccontarvi quella storia.
Franz annuì. Cal rispose: — Io no. Vado subito a letto. — Saul annuì con aria comprensiva.
Bonita aveva sentito. — Gli vuoi raccontare la storia dell’infermiera invisibile — disse, in tono d’accusa. — Voglio sentirla anch’io.
— No, è ora di andare a dormire — sentenziò la madre, in tono non troppo autoritario. — Vedi che Cal va a letto.
— Non m’importa — ribatté Bonita, strofinandosi contro Saul. — Per favore… per favore… — chiese con insistenza.
Saul l’afferrò all’improvviso, l’abbracciò e le soffiò rumorosamente sul collo. Lei lanciò uno strillo, chiassoso e felice. Franz, quasi automaticamente, guardò Gunnar e lo vide prima rabbrividire e poi dominarsi: ma notò che serrava le labbra. Dorotea sorrideva beata, come se stessero soffiando sul collo a lei. Fernando aggrottò un po’ la fronte, e gonfiò il petto con una dignità quasi militaresca.
Poi, altrettanto in fretta, Saul scostò da sé la ragazzina e le disse, in tono pratico: — Sta’ a sentire, Bonny; quella che voglio raccontare a Franz è un’altra storia, molto noiosa, che può interessare solo agli scrittori. La storia dell’infermiera invisibile non esiste. L’ho inventata per citare un esempio che desse valore alle mie parole.
— Non ti credo — dichiarò Bonita, guardandolo negli occhi.
— Va bene, hai ragione — disse allora lui, lasciandola andare e facendo un passo indietro. — C’era davvero l’infermiera invisibile che terrorizzava il reparto agitati del St Luke, e se non ho voluto raccontarla non è perché è troppo lunga (anzi, è molto corta) ma perché è troppo spaventosa. Però, adesso te la sei voluta, e io la racconterò a te e a questa brava gente. Perciò, radunatevi intorno a me, tutti quanti.
Lì nella strada buia, pensò Franz, con la luce della luna che gli brillava sugli occhi luccicanti, sul volto scavato e sui lunghi capelli scuri, Saul aveva tutta l’aria di uno zingaro.
— Si chiamava Wortly — esordì Saul, abbassando la voce. — Olga Wortly, IP (infermiera professionale). Non è il suo vero nome perché ha finito per occuparsene la polizia, che la sta ancora cercando: ma assomiglia a quello vero. Dunque, Olga Wortly IP faceva il turno del pomeriggio (dalle quattro a mezzanotte) nel reparto agitati del St Luke. E a quell’epoca non c’era terrore. Anzi, quando lo faceva lei, il turno del pomeriggio era il più tranquillo, perché era molto generosa con i sonniferi e così quelli del turno di notte non avevano mai fastidi con dei pazienti che non volessero dormire, e qualche volta il turno di giorno faticava a svegliare qualche paziente per il pranzo, figurarsi poi per colazione.
“La Wortly non si fidava della sua assistente, un’IND (infermiera non diplomata) per distribuire i farmaci. E preferiva i miscugli, non appena riusciva a modificare le prescrizioni dei medici, perché pensava che due medicine dessero maggior sicurezza di una: Librium con Thorazina (andava matta per il Tuinal perché contiene due barbiturici, il Seconal rosso e l’Amytal azzurro), idrato di cloralio con fenobarbiturato, paraldeide con Membutal giallo… Anzi, si capiva sempre quando stava arrivando, la nostra fatina dei sogni, la nostra severa dea del sonno, perché la precedeva sempre l’odore paralizzante della paraldeide: ogni volta riusciva a somministrare la paraldeide almeno a un paziente. È un superalcool superaromatico, dovete sapere, che vi fa il solletico alla radice del naso e ha un odore che Dio solo sa (superolio di banana, forse; certe infermiere la chiamano ‘la benzina’) e va somministrata con un succo di frutta per coprirne il sapore, e in un bicchiere di vetro perché scioglie la plastica, e le sue molecole si diffondono nell’aria più veloci della luce!”
Saul aveva ormai in pugno i suoi ascoltatori, notò Franz. Dorotea sembrava estasiata non meno di Bonita; Cal e Gunnar sorridevano indulgenti; perfino Fernando era entrato nello spirito della situazione e sogghignava per i lunghi nomi delle medicine. In quel momento, il marciapiede davanti al ristorante tedesco era un accampamento di zingari illuminato dalla luna. Mancavano solo le fiamme danzanti di un grosso falò.
— Ogni sera, due ore dopo la cena, Olga faceva il giro per distribuire i sonniferi. Qualche volta si faceva accompagnare dall’IND o da un OS (operatore sanitario, ovvero portantino) che le reggevano il vassoio, qualche volta lo teneva lei.
“Diceva: ‘È ora di dormire, signora Binks. Ecco il suo passaporto per il mondo dei sogni. Su, da brava. E adesso questa bella pillola gialla. Buonasera, signorina Cheeseley, ho qui il suo viaggio alle Hawaii: una pillola azzurra per l’oceano, una rossa per il tramonto. E adesso un sorso di quella roba un po’ più amara per mandare giù tutto: pensi alle onde del mare, al loro sapore. Tiri fuori la lingua, signor Finelli, ho qualcosa che le farà bene. Chi l’avrebbe mai pensato, signor Wong, che ci sono nove o magari dieci ore di buio meraviglioso in questa piccola capsula temporale, in quest’astronave di gelatina che parte per le stelle? Eh, l’ha capito dall’odore, vero, che stavo arrivando, signor Auerbach? Questa sera, succo d’ananasso, per togliere il sapore della sua medicina!’ E via di questo passo.
“E così Olga Wortly, infermiera professionale, la nostra dama dell’oblìo, la nostra regina dei sogni, teneva tranquillo il reparto agitati — continuò Saul. — E otteneva anche grandi elogi, perché a tutti piace avere un reparto tranquillo. Finché, una sera, ha esagerato un tantino, e la mattina successiva tutti i pazienti erano OD (overdose) di sonniferi e MAR (morti al ricovero in ospedale, Bonny), ma con un sorriso beato sul volto. E Olga Wortly era sparita, e nessuno l’ha mai più rivista da quel giorno.
“In un modo o nell’altro, sono riusciti a insabbiare la cosa. Mi sembra che abbiano attribuito la causa dei decessi a un’epidemia di epatite galoppante o di eczema pernicioso. E adesso stanno ancora cercando Olga Wortly.
“Più o meno è tutto qui — terminò, con un’alzata di spalle e un sorriso. — Però… — Sollevò l’indice, teatralmente e parlò con un tono di voce basso e misterioso: — Però… dicono che di notte, quando la luna è quasi piena, proprio come adesso, ed è ora di dormire, e l’infermiera sta per passare col vassoio dei sonniferi nei loro bei bicchierini di carta, si leva una zaffata di paraldeide nella stanza delle infermiere (anche se adesso non la usano più), e l’odore va di stanza in stanza, di letto in letto, senza saltarne nemmeno uno, quell’odore inconfondibile: è l’infermiera invisibile che fa il suo giro nelle corsie!”
E tra gli “Ooh!” e gli “Ah!” e le risatine, si avviarono in gruppo verso casa. Bonita sembrava soddisfatta. Dorotea disse, con esagerazione: — Oh, che paura! Se mi sveglio, stanotte, avrò paura che arrivi l’infermiera invisibile a farmi bere quella paraldente.
— Pa-ral-de-i-de — sillabò Fernando, lentamente, ma con straordinaria precisione.