L’istante successivo, Franz udì un clang sordo e un debole tintinnìo, e si ritrovò a osservare a occhio nudo lo scuro mare di tetti, cercando di individuare una cosa svelta e pallida che gli dava la caccia e che approfittava di ogni riparo per nascondersi: un comignolo, una cupola, un serbatoio dell’acqua, un attico grande o piccolo, una grossa tubatura, un cassonetto per i rifiuti, un lucernario, il basso muretto di un terrazzo, il parapetto di un pozzo di ventilazione. Il cuore gli batteva all’impazzata; respirava affannosamente.
Freneticamente, i suoi pensieri guizzarono in un’altra direzione; cominciò a scrutare i pendii intorno a lui, e la protezione offerta dalle rocce e dai cespugli. Chi sapeva con quale velocità si spostava un paramentale? Come un ghepardo? Come il suono? Come la luce? Forse era già tornato a Corona Heights. Vide anche il suo binocolo, ai piedi della roccia contro cui l’aveva scagliato involontariamente quando aveva proteso convulsamente le mani per allontanare quella cosa dai suoi occhi.
Si arrampicò fino alla vetta. Nel verde prato sottostante, le bambine se n’erano andate, con la loro accompagnatrice e l’altra coppia e i tre animali. Ma mentre stava notando questo, un grosso cane (uno dei dobermann? o qualcosa d’altro?) l’attraversò a balzi, verso di lui, e sparì dietro un ammasso di rocce ai piedi del pendìo. Franz aveva pensato di scendere da quella parte… ma non poteva farlo con quel cane (e quanti altri? e cos’altro?) in agguato. C’erano troppi nascondigli, su quel versante di Corona Heights.
Scese in fretta, montò sul suo sedile di pietra, e restò immobile a guardare, socchiudendo gli occhi, finché non trovò la fenditura dove c’era la sua finestra. Era coperta dall’ombra; anche col binocolo non sarebbe riuscito a vedere niente.
Balzò giù, sul sentiero, aggrappandosi alle rocce, e lanciando rapide occhiate intorno a sé, raccolse il binocolo rotto e se l’infilò in tasca, anche se non gli piaceva il modo con cui le lenti tintinnavano… e neppure lo scricchiolìo della ghiaia sotto i suoi cauti passi, a dire il vero. Piccoli suoni come quelli potevano tradire la posizione di una persona.
Una cosa vista per un solo istante non poteva cambiare a tal punto la vita, vero? Eppure era stato così.
Tentò di rimettere ordine nella sua situazione, senza abbassare la guardia. Tanto per cominciare, le entità paramentali non esistevano: facevano semplicemente parte della pseudo-scienza anni 1890 di De Castries. Ma lui ne aveva vista una; e, come aveva detto Saul, non c’era altra realtà che quella delle sensazioni immediate di un individuo. Vista, udito, dolore: questi erano reali. Nega la tua mente, nega le tue sensazioni, e negherai la realtà. Perfino il tentativo di razionalizzare era una negazione. Ma naturalmente c’erano le sensazioni false, le illusioni ottiche e le altre illusioni… Ma andiamo! Prova a dire a una tigre, mentre ti balza addosso, che è un’illusione! Perciò restavano solo l’allucinazione e, ovviamente, la pazzia. Erano parti della realtà mentale… e chi poteva dire fin dove si spingeva, la realtà mentale? Come aveva detto Saul: “Chi crede a un pazzo se dice di avere appena visto uno spettro? È una realtà interiore o una realtà esterna? Chi può dirlo?” Comunque, pensò Franz, doveva tenere ben presente la possibilità di essere pazzo… senza per questo abbassare la guardia.
E mentre pensava, si muoveva con cautela, e tuttavia rapidamente, scendendo il pendìo, tenendosi un po’ lontano dal sentiero di ghiaia per fare meno rumore, pronto a balzare via se qualcosa si fosse avventato verso di lui. Continuò a lanciare occhiate da una parte e dall’altra e a voltarsi indietro, notando i possibili nascondigli e le distanze. Aveva l’impressione che qualcosa di grossa taglia lo stesse seguendo, qualcosa di straordinariamente astuto, che si muoveva da un riparo all’altro, qualcosa di cui lui vedeva (o credeva di vedere) soltanto l’ultimo guizzo prima che sparisse. Uno dei cani? O più di uno? Forse aizzati da quelle bambine dalla faccia estatica e dal piede leggero? Oppure…? Si ritrovò a immaginare che non erano cani, ma ragni, grossi come i cani e altrettanto pelosi. Una volta, a letto, con i seni e le braccia illuminati dalla prima luce dell’alba, Cal gli aveva confidato un sogno, in cui due grossi levrieri russi che la seguivano si erano trasformati in due ragni, altrettanto grandi, con lo stesso elegante pelame color crème…
E se ci fosse stato un terremoto proprio adesso (lui doveva tenersi pronto a tutto), e il suolo si fosse aperto in crepe fumanti e avesse inghiottito i suoi inseguitori… e anche lui?
Giunse ai piedi della cresta, e poco dopo girò intorno al museo Josephine Randall Junior. La sensazione di essere seguito si attenuò… o almeno quella di essere seguito da vicino. Era piacevole trovarsi di nuovo a poca distanza dalle abitazioni umane, anche se sembravano vuote e anche se dietro gli edifici poteva nascondersi chissà cosa. Quello era il posto dove insegnavano ai bambini e alle bambine a non aver paura dei ratti e dei pipistrelli e delle tarantole giganti e di altre entità. Dov’erano i bambini, comunque? Un saggio Pifferaio di Hamelin li aveva condotti lontano da quella località pericolosa? Oppure erano saliti tutti sul camioncino del Sidewalk Astronomer ed erano partiti verso altre stelle? Con i suoi terremoti e le sue invasioni di grandi ragni pallidi e di entità ancor più malsane, San Francisco non era più una città sicura. Oh, sciocco, sta’ in guardia!
Quando si lasciò alle spalle l’edificio basso e scese la rampa, passando davanti ai campi da tennis, e raggiunse finalmente la breve strada trasversale senza uscita che segnava il confine di Corona Heights, i suoi nervi si calmarono un po’, e anche il turbine dei suoi pensieri rallentò; tuttavia sussultò atterrito quando udì giungere, da chissà dove, un brusco stridore di pneumatici sull’asfalto, e per un momento pensò che l’auto parcheggiata all’altra estremità della via laterale si fosse lanciata verso di lui, guidata da quei poggiatesta che sembravano piccole pietre tombali.
Mentre si avvicinava a Beaver Street, scendendo una stretta scalinata fra due edifici, ebbe un’altra fuggevole visione di un terremoto dietro di lui, e di Corona Heights, convulsa ma intatta, che sollevava le grandi spalle brune e la testa rocciosa e si scrollava di dosso il museo Josephine Randall Junior, per poi scendere in città.
Solo quando si avviò lungo Beaver Street cominciò finalmente a incontrare qualcuno. Gli tornò in mente, come se quel ricordo appartenesse a una vita precedente, la sua intenzione di andare a trovare Byers (gli aveva perfino telefonato), e si chiese se doveva farlo o no. Non era mai stato da lui: i suoi precedenti incontri con lui, a San Francisco, erano avvenuti nell’appartamento di un comune amico, nell’Haight. A Cal, qualcuno aveva detto che quella casa faceva venire i brividi; però non lo sembrava, dall’esterno, con la fresca tinteggiatura verde-oliva e i fregi dorati.
Prese improvvisamente la decisione quando un’ambulanza, sulla Castro Street che lui aveva appena attraversato, si lanciò a sirene spiegate verso di lui, e quel suono atroce e snervante gli divenne all’improvviso insopportabile, mentre il veicolo attraversava Beaver Street. Franz si catapultò su per i gradini, verso la porta color oliva, lievemente arabescata d’oro, e cominciò a battere il martelletto bronzeo a forma di tritone.
Poi, all’improvviso, capì che l’idea di non tornare subito a casa sua, all’811, gli era tutt’altro che antipatica. Casa sua era pericolosa quanto Corona Heights, se non di più.
Dopo un’attesa esasperante, la maniglia di lucido ottone ruotò, la porta cominciò a schiudersi, e una voce, magniloquente come quella di Vincent Price nelle sue parti più deliranti, disse: — Sì, avevano bussato davvero. Oh, ma è Franz Westen. Avanti, avanti. Ma hai l’aria sconvolta, mio caro Franz, come se ti avesse portato qui l’ambulanza che è appena passata. Cos’hanno combinato ancora, quelle malvage e imprevedibili strade?
Appena Franz fu ragionevolmente sicuro che il volto piuttosto teatrale e la barba ben curata erano proprio quelli di Byers, entrò dicendo: — Chiudi la porta. Sono davvero sconvolto. — E intanto scrutava l’ingresso riccamente arredato, la grande e affascinante stanza di fronte a esso, la scala coperta da una spessa passatoia (saliva verso un pianerottolo illuminato della calda tonalità della luce che filtrava dai vetri istoriati) e il buio corridoio dietro la scala.
Dietro di lui, Byers stava dicendo: — Tutto a suo tempo. Ecco, ho chiuso a chiave, e ho anche tirato il catenaccio, se questo può tranquillizzarti. E adesso, vuoi un po’ di vino? Con un po’ di liquore dentro, direi, a giudicare dalle tue condizioni. Ma dimmi subito se devo chiamare un medico, così non dovremo più preoccuparci.
Adesso stavano uno di fronte all’altro. Jaime Donaldus Byers aveva all’inarca l’età di Franz, cioè sui quarantacinque anni, altezza media, e il portamento orgoglioso e disinvolto di un attore. Indossava una giacca verde di foggia indiana (“giacca Nehru”) con passamanerie dorate, calzoni uguali, sandali di pelle, e una lunga vestaglia viola, aperta ma stretta in vita da una fascia. I capelli castano-rossi, ben pettinati, gli ricadevano sulle spalle. Il pizzo e i baffetti sottili erano ben curati. La carnagione pallida e olivastra, la fronte nobile e i grandi occhi brillanti avevano un che di elisabettiano, facevano pensare a Edmund Spenser. E Byers lo sapeva benissimo.
Franz, la cui attenzione era in tutt’altre faccende affaccendata, disse: — No, no, niente medico. E niente alcool, questa volta. Ma se potessi avere del caffè…
— Ma subito, mio caro Franz. Vieni con me in soggiorno. È tutto là. Ma cosa ti ha sconvolto? Che cosa ti insegue?
— Ho paura… — rispose laconicamente Franz, e si affrettò ad aggiungere: — … dei paramentali.
— Oh, è così che si chiama la grande minaccia, adesso? — disse in tono leggero Byers; però, nell’udire la parola, aveva socchiuso bruscamente gli occhi. — Avevo sempre creduto che fosse la mafia. O la Cia? Oppure qualcosa del tuo I segreti del sovrannaturale, qualche novità? E si può sempre contare sulla Russia. Io mi aggiorno solo irregolarmente. Vivo saldamente nel mondo dell’arte, dove la realtà e la fantasia sono una cosa sola.
Si voltò e lo precedette nel soggiorno, accennandogli di seguirlo. Nell’avanzare verso la stanza, Franz notò un miscuglio di odori: caffè appena fatto, vini e liquori, un incenso pesante e un profumo più acuto. Pensò fuggevolmente alla storia dell’Infermiera Invisibile di Saul, e sbirciò in direzione della scala e del corridoio, che adesso erano dietro di lui.
Byers gli fece cenno di sedersi, mentre si dava da fare accanto a un pesante tavolo su cui stavano bottiglie sottili e due piccole e fumanti caffettiere d’argento. Franz ricordò un verso di Peter Viereck: “L’arte, come il barista, non è mai ubriaca”, e rammentò per un istante gli anni in cui i bar erano per lui luoghi di rifugio dai terrori e dalle sofferenze del mondo esterno. Ma questa volta la paura era entrata nel bar insieme con lui.