Arrivato a casa sua, all’811 Geary Street, Franz diede un’occhiata alla posta (niente che meritasse di essere aperto subito) e poi si guardò intorno. Aveva lasciato aperto il finestrino sopra il battente. Dorotea aveva ragione: un individuo magro e atletico poteva introdursi da lì. Lo chiuse, poi si affacciò alla finestra e controllò da una parte e dall’altra, in alto (c’era una finestra come la sua, poi il tetto), e in basso (quella di Cal, due piani più sotto, poi altre tre, e infine il sudicio fondo del cortiletto interno, un cul-de-sac pieno di cianfrusaglie cadute durante gli anni). Nessuno poteva arrivare alla sua finestra, a meno di usare una lunga scala. Ma notò che la finestra del suo bagno distava soltanto un passo da quella dell’appartamento accanto. Andò ad assicurarsi che fosse ben chiusa.
Poi staccò dalla parete il grande schizzo nero della torre TV, che spiccava sul vivace sfondo rosso fluorescente, e l’incastrò nella finestra aperta, con la parte rossa verso l’esterno, fissandolo con puntine da disegno. Ecco! Illuminato dal sole, sarebbe stato inconfondibile, da Corona Heights.
Indossò un maglioncino sotto la giacca (sembrava che facesse un po’ più fresco del giorno prima) e s’infilò in tasca un altro pacchetto di sigarette. Non indugiò per prepararsi un sandwich (in fin dei conti, aveva mangiato due toast da Cal), e all’ultimo momento si ricordò di mettersi in tasca il binocolo e la cartina, e il diario di Smith: forse avrebbe avuto bisogno di consultarlo, a casa di Byers. (Gli aveva telefonato, prima, e aveva ricevuto uno dei suoi soliti inviti, loquaci ma piuttosto indifferenti, ad andarlo a trovare quando voleva, nel pomeriggio, e a restare per la festicciola della sera, se voleva. Alcuni ospiti sarebbero venuti in maschera, ma il costume non era obbligatorio.)
Come tocco finale, piazzò l’annuario del 1927 nel punto corrispondente al sedere della sua Amante dello Studioso, e con una carezza intima le disse in tono allegro: — Ecco, mia cara, ti ho trasformata in una ricettatrice di libri rubati: ma non preoccuparti, restituirai il maltolto.
Poi, senza ulteriori commiati, chiuse con due giri di chiave la porta e se ne andò nel vento e nel sole.
All’angolo non c’erano autobus in arrivo, perciò si avviò per gli otto brevi isolati in direzione di Market Street, a passo sostenuto. In Ellis Street impiegò qualche secondo per guardare (tributare un piccolo atto di adorazione?) il suo albero preferito di tutta San Francisco: un pino a candeliere alto sei piani, sostenuto da alcuni cavi metallici robusti e sottili, che agitava le verdi dita sopra una staccionata di legno marrone bordato di giallo, fra due edifici più alti, in una stretta area non edificata, trascurata chissà come dai satrapi dei grattacieli. Bastardi inefficienti!
Un isolato più avanti, l’autobus lo raggiunse e lui salì: aveva già fatto gran parte della strada, ma con l’autobus avrebbe risparmiato un minuto. Quando prese la coincidenza con I’N-JUDAH nella Market Street, ebbe un soprassalto (e dovette scostarsi in fretta) perché un ubriaco pallido, che portava un abito sformato, sporco, grigio chiaro (ma senza camicia), arrivò in diagonale, uscito dal nulla e, a quanto pareva, diretto al suo stesso tram. Pensò: “A momenti mi veniva un colpo…” e poi scacciò quel pensiero, come aveva fatto in casa di Cal quando gli era venuta in mente la malattia che aveva ucciso Daisy.
Anzi, scacciò tanto bene ogni pensiero cupo, da avere l’impressione che il cigolante tram risalisse Market Street e poi Duboce Street, nella viva luce del sole, come il carro del generale ritornato vincitor in un trionfo romano. (E lui non doveva indossare la toga rossa e avere accanto uno schiavo che gli rammentava continuamente a bassa voce: “Ricorda che sei mortale”? Fantasticheria affascinante!) Smontò all’imboccatura della galleria e salì l’erta Duboce Street, respirando profondamente. Quel giorno sembrava meno ripida, o forse lui era più fresco. (Ed è sempre più facile salire che scendere, se si ha fiato a sufficienza, dicevano gli esperti alpinisti.) Anche il quartiere sembrava particolarmente ordinato e accogliente.
In cima, due giovani che si tenevano per mano (evidentemente una coppia d’innamorati) stavano entrando fra le ombre screziate e le verdi profondità del parco Buena Vista. Perché quel luogo, il giorno prima, gli era sembrato tanto sinistro? Qualche altra volta avrebbe percorso quel sentiero fino al punto più alto del parco piacevolmente frondoso e poi sarebbe sceso dall’altra parte, nel festoso Haight, a torto ritenuto pericoloso. Insieme a Cal, e magari anche agli altri: il picnic proposto da Saul.
Ma quel giorno l’attendeva un altro percorso: aveva altro da fare. Una cosa urgente, per di più. Diede un’occhiata all’orologio e proseguì a passo svelto, soffermandosi appena ad ammirare la splendida vista della cresta di Corona Heights dalla cima di Park Hill. Poco dopo varcò il cancelletto della recinzione di rete metallica e attraversò il prato verde, dietro pendii bruni coronati di rocce. Alla sua destra, due bambine, sull’erba, servivano una specie di tè delle bambole. Guarda, erano le stesse che aveva visto correre il giorno prima. E lì vicino, il loro sanbernardo stava sdraiato accanto a una giovane donna in blue jeans sbiaditi, che gli accarezzava con una mano il folto mantello mentre con l’altra si pettinava i lunghi capelli biondi.
E sulla sinistra due dobermann (per Dio, gli stessi!) stavano allungati a sbadigliare accanto a un’altra coppia di giovani, sdraiati vicino ma senza toccarsi. Quando Franz rivolse loro un sorriso, l’uomo lo ricambiò e agitò la mano in un vago gesto di saluto. Era davvero, come avrebbe detto un poeta dei luoghi comuni, “una scena idilliaca”. Tutto diverso dal giorno prima. Adesso l’ipotesi di Cal sui tenebrosi poteri parapsicologici delle bambine sembrava eccessiva, anche se affascinante.
Avrebbe voluto indugiare, ma il tempo passava. Devo andare a casa di Taffy, pensò ridacchiando tra sé. Salì per l’irregolare pendìo coperto di ghiaia (non era poi tanto ripido!) soffermandosi solo una volta per riprendere fiato. Sopra la sua spalla la torre della TV si ergeva altissima, colorata, fresca e vistosa ed elegante come una puttana nuova di zecca (perdonami, Dea). Franz si sentiva un po’ pazzo.
Quando arrivò alla Corona, notò una cosa che il giorno prima gli era sfuggita. Molte rocce, almeno da quella parte, erano state scarabocchiate con vernici spray chiare e scure e di vari colori, ormai quasi tutte sbiadite. I nomi e le date erano molto meno frequenti delle figure. Stelle irregolari a cinque e a sei punte, un sole, falci, triangoli e quadrati. E c’era un fallo piuttosto stilizzato, con accanto un segno che sembrava una coppia di parentesi: la yoni e il lingam. A Franz venne in mente nientemeno che il Grande Cifrario di De Castries! Sì, notò con un sogghigno: c’erano simboli che potevano essere considerati astronomici o astrologici. I cerchi con croci e frecce… Venere e Marte. E un disco con le corna poteva essere il Toro.
Certo hai degli strani gusti in fatto di arredamento della casa, Taffy, pensò. E adesso controlliamo se sei andato a rubare il mio osso.
Comunque, scrivere con la vernice spray sulle rocce era un’abitudine diffusa in quei tempi progressisti e giovanilistici. I graffiti delle alture. Però, ricordava che all’inizio del secolo il mago nero Aleister Crowley aveva trascorso un’intera estate dipingendo a enormi lettere rosse, sui pontili del fiume Hudson, FA’ CIÒ CHE VUOI È L’UNICO COMANDAMENTO e OGNI UOMO E OGNI DONNA SONO STELLE, per scandalizzare e istruire i newyorkesi che passavano in barca sul fiume. Si chiese malignamente che aspetto sarebbero venute ad avere, dopo una cura a base di allegre vernici spray, le misteriose montagne coronate di rocce che figuravano in Colui che sussurrava nel buio e nell’Orrore di Dunwich e nelle Montagne della follia di Lovecraft, dove ogni monte era alto come l’Everest (o anche in Un frammento del Mondo delle Tenebre di Fritz Leiber, se era solo per quello).
Ritrovò il seggio di pietra del giorno prima e decise di fumare una sigaretta per calmarsi i nervi, riprendere fiato e rilassarsi, sebbene fosse impaziente di controllare se aveva preceduto il sole. In effetti sapeva di esserci riuscito, anche se con un margine minimo: gliel’assicurava l’orologio.
La giornata era ancora più chiara e soleggiata di quella che l’aveva preceduta. Il forte vento dell’ovest aveva spazzato l’aria e si era fatto sentire fino a San José, che adesso non era coperta dal solito cuscino di smog. Le piccole vette lontane oltre le città dell’East Bay e a nord, nella Marin County, spiccavano nitide. I ponti splendevano.
Perfino il mare di tetti sembrava calmo e amichevole, quel giorno. Franz si sorprese a pensare all’incredibile numero di vite che ospitava, più di settecentomila, mentre un numero ancor più alto lavorava sotto quei tetti: una parte delle immense schiere di pendolari convogliate ogni giorno a San Francisco dai ponti e dalle autostrade e dalla metropolitana BART che passava sotto le acque della baia.
Individuò a occhio nudo la fenditura in fondo alla quale c’era la sua finestra (era piena di sole), e poi tirò fuori il binocolo. Non si preoccupò di appenderselo a tracolla: aveva le mani salde, adesso. Sì, c’era quel rosso fluorescente: sembrava che riempisse la finestra perché lo scarlatto spiccava molto, ma si vedeva che occupava solo il quarto a sinistra in basso. Franz poteva quasi vedere il disegno… no, sarebbe stato troppo: le linee nere erano troppo sottili.
Con tanti saluti ai dubbi di Gunnar (e ai suoi), il giorno prima aveva davvero individuato la sua finestra. Strano, però, come la mente umana fosse capace di gettare dubbi persino su se stessa, pur di spiegare le cose insolite e non convenzionali che pure aveva visto con inconfondibile chiarezza. La mente umana ti lasciava a metà percorso: era una sua caratteristica.
Ma quel giorno, senza dubbio, la visibilità era eccezionale. La Coit Tower, giallo chiara, su Telegraph Hill, che un tempo era stata la struttura più alta di San Francisco e che adesso era una cosuccia da nulla, spiccava sullo sfondo della baia azzurra e il globo celeste-dorato della Columbus Tower… una perfetta gemma antica accanto alle ordinate feritoie delle finestre della Transamerica Pyramid, che sembravano le perforazioni di una scheda meccanografica. E le alte finestre rotonde a poppa del vecchio Hobart Building, che aveva la forma di una nave (una facciata simile alla maestosa e ornatissima cabina dell’ammiraglio su un galeone), accanto alle secche linee verticali d’alluminio del nuovo Wells Fargo Building, torreggiante su di esso come un mercantile interstellare in attesa della partenza. Franz girò il binocolo, regolando il fuoco senza fatica. Oh, si era sbagliato sul conto della Grace Cathedral, con le sue vetrate riccamente colorate e oscuramente suggestive. Accanto alla massa priva di fantasia dei Cathedral Apartments si vedeva il suo esile campanile che si ergeva come uno stiletto seghettato, con sulla punta una piccola croce d’oro.
Franz diede un’altra occhiata alla fenditura della sua finestra, prima che l’ombra l’inghiottisse. Forse avrebbe potuto vedere davvero il disegno, se avesse messo perfettamente a fuoco il binocolo…
Mentre stava guardando, il rettangolo di cartone fluorescente venne strappato via. Dalla sua finestra si sporse una cosa pallida che alzò le lunghe braccia e le agitò verso di lui, selvaggiamente. E in basso, tra quelle braccia, Franz scorse la faccia protesa, una maschera sottile come quella di un furetto, un triangolo di colore bruno pallido senza lineamenti, due punte in alto che potevano essere occhi o orecchie e una che terminava in basso in un mento aguzzo… no, in un muso… o in una corta proboscide… una bocca avida che sembrava fatta per succhiare il midollo delle ossa. Poi l’entità paramentale uscì dal binocolo e si protese verso i suoi occhi.