28

Il chiaro di luna entrava dalla finestra e creava una lunga polla a forma di bara sul pavimento, dietro il tavolino, gettando per contrasto il resto della stanza in un’ombra più cupa.

Franz era completamente vestito, e i piedi gli facevano male, dentro le scarpe.

Si accorse, con immensa gratitudine, che finalmente era sveglio davvero, che Daisy e l’orrore vegetativo che l’aveva annientata erano scomparsi, svaniti più rapidamente del fumo.

Adesso era acutamente consapevole dello spazio che lo circondava: l’aria fresca sulla faccia e sulle mani, gli otto angoli principali della sua stanza, l’apertura oltre la finestra (che scendeva per sei piani tra il suo edificio e il palazzo accanto fino al livello della cantina), il settimo piano e il tetto più sopra, il corridoio al di là della parete dietro la testata del letto, lo stanzino delle scope dall’altra parte del muro che recava il ritratto di Daisy e la stella di Fernando, il pozzo di ventilazione al di là del ripostiglio.

E tutte le altre sensazioni, e tutti i suoi pensieri, sembravano ugualmente vividi e nitidi. Si disse che aveva di nuovo la mente mattutina, ripulita dal sonno, fresca come l’aria di mare. Meraviglioso! Aveva dormito tutta la notte (Cal e i ragazzi avevano bussato delicatamente alla sua porta e se n’erano andati sorridendo e scrollando le spalle?) e adesso si era svegliato un’ora prima dell’alba, mentre incominciava il lungo crepuscolo astronomico, solo perché si era addormentato così presto. Aveva dormito anche Byers? Ne dubitava, nonostante i suoi flessuosi, decadenti sonniferi.

Ma poi si accorse che la luce della luna entrava ancora dalla finestra, come prima che lui si addormentasse. E quindi aveva dormito solo un’ora, o anche meno.

La sua pelle fremette lentamente, i muscoli delle gambe si tesero, tutto il suo corpo si scosse, come in attesa di… non sapeva cosa.

Sentì un tocco paralizzante alla nuca. Poi le sottili liane pungenti (le sentiva, anche se adesso erano meno numerose) si mossero con un lieve fruscio, attraverso i suoi capelli, oltre l’orecchio, sulla guancia destra e sul mento. Spuntavano dalla parete… no… non erano liane: erano le dita dell’esile mano destra della sua Amante dello Studioso, che si era levata a sedere nuda accanto a lui, un’altra forma pallida, indistinta nell’oscurità. Aveva una testa piccola, aristocratica (capelli neri?), collo lungo, spalle maestosamente ampie, un’elegante vita alta, stile impero, fianchi snelli, e gambe lunghe, lunghe: una forma molto simile a quella della scheletrica torre d’acciaio della TV, un Orione molto più sottile (con Rigel che fungeva da piede, non da ginocchio).

Le dita della mano destra (lei gli aveva insinuato il braccio intorno al collo) gli passarono sulla guancia verso le labbra, mentre lei si girava e inclinava leggermente il volto. Era ancora privo di lineamenti contro lo sfondo dell’oscurità, eppure Franz si chiese all’improvviso se la strega Asenath (Waite) Derby aveva rivolto uno sguardo altrettanto intenso a suo marito Edward Derby, quando erano a letto, mentre il vecchio Ephraim Waite (Thibaut De Castries?) guardava insieme a lei attraverso i suoi occhi ipnotici.

Lei accostò ancora di più la faccia, e le dita della sua destra salirono delicatamente verso le narici e l’occhio di Franz, mentre dall’oscurità alla sua sinistra l’altra mano avanzava, sorretta dal braccio esile come un serpente, verso il volto di lui. Tutti i suoi movimenti e le sue pose erano eleganti e bellissimi.

Ritraendosi violentemente, Franz alzò la mano sinistra per difendersi, e con uno scatto convulso del braccio destro e delle gambe contro il materasso si sollevò, rovesciando il tavolino e mandando tutti gli oggetti ammucchiati a rotolare e a cadere con fracasso (i bicchieri e la bottiglia e il binocolo) insieme a lui sul pavimento, dove, dopo avere fatto un giro completo su se stesso, Franz rimase a giacere sull’orlo della polla di chiaro di luna (esclusa la testa, che era nell’ombra verso la porta). Quando si era girato, la sua faccia si era avvicinata al grande portacenere che si rovesciava e alla bottiglia caduta di Kirschwasser, e lui aveva aspirato zaffate di fetido catrame del tabacco e di alcool amaro e pungente. Sentiva, sotto di sé, le dure forme dei pezzi degli scacchi. Adesso fissava stralunato il letto che aveva lasciato, e per il momento vedeva solo l’oscurità.

Poi dall’oscurità si erse, ma non troppo, la lunga sagoma pallida della sua Amante dello Studioso. Sembrava guardarsi intorno, come una mangusta o una donnola, con la piccola testa che s’inclinava di qua e di là sull’esile collo; e poi, con un fruscio asciutto che straziava i nervi, avanzò contorcendosi e fremendo verso di lui, attraverso il tavolino e tutta la roba dispersa e in disordine, protendendo le mani dalle lunghe dita e le braccia pallide e scarne. Mentre Franz tentava di alzarsi in piedi, sentì le mani stringersi sulla sua spalla e sul suo fianco, in una morsa dolorosamente forte, e di colpo gli balenò nella mente un verso: “Siamo fantasmi, ma con scheletro d’acciaio”. Con una forza improvvisa, nata dal terrore, Franz si liberò dalle mani che l’imprigionavano. Ma non riuscì ad alzarsi: riuscì soltanto a spostarsi lungo la macchia di chiaro di luna e poi giacque riverso, dibattendosi, sull’orlo più lontano, con la testa ancora nell’ombra.

Le carte e i pezzi degli scacchi e il contenuto del portacenere si sparpagliarono ancora di più. Un bicchiere scricchiolò quando lui l’urtò col tacco. Il telefono rovesciato prese a squittire come un topo furioso e pedante, da una strada vicina una sirena cominciò a ululare come un cane torturato, ci fu un grande suono lacerante come nel sogno (le carte disperse mulinarono e si alzarono dal pavimento come se fossero state ridotte a brandelli), e fra tutto risuonavano le urla gutturali e stridenti che erano le urla dello stesso Franz.

La sua Amante dello Studioso avanzò contorcendosi nel chiaro di luna. La faccia era ancora in ombra, ma Franz poteva vedere che il corpo sottile dalle spalle ampie era formato, a quanto pareva, solo da carta lacerata e premuta insieme, chiazzata di bruno e di giallognolo dagli anni, come se fosse formata dalle pagine masticate di tutte le riviste e di tutti i libri che l’avevano composta sul letto, mentre intorno al volto in ombra ricadevano i neri capelli (copertine strappate dei libri?). Gli arti lunghi e sottili, in particolare, sembravano fatti interamente di carta avorio pallida, contorta e intrecciata. Sfrecciò verso di lui con rapidità terribile e lo cinse bloccandogli le braccia e infilò con un movimento a forbice le lunghe gambe tra le sue, sebbene Franz si dibattesse e scalciasse convulsamente e intanto, completamente sfiatato dalle urla, ansimasse e piagnucolasse.

Poi lei girò la testa e l’alzò, e il chiaro di luna le investì la faccia. Era sottile e affusolata, come quella di una volpe o di una faina, e come tutto il resto era formata di carta compatta, a grumi e crepe, ma era coperta da uno strato bianco livido (la carta di riso?) punteggiato da una pioggia di piccoli e irregolari segni neri (l’inchiostro di Thibaut?). Non aveva occhi, tuttavia sembrava che gli scrutasse nel cervello e nel cuore. Non aveva naso. (Era quella, la Senza Naso?) Non aveva bocca… ma il lungo mento cominciò a fremere e a sollevarsi come il muso di una bestia, e Franz vide che aveva un’apertura.

Comprese che era quello, ciò che stava sotto le vesti ampie e i veli neri della Dama Misteriosa di De Castries, la donna che l’aveva seguito fino alla tomba, un concentrato d’intellettualità, tutta libri e studi (una vera Amante dello Studioso!) la Regina della Notte, colei che stava in agguato sulla vetta, la cosa che perfino Thibaut De Castries temeva, Nostra Signora delle Tenebre.

I cavi delle braccia e delle gambe intrecciate si attorsero più stretti intorno a Franz, e la faccia, ritornando nell’ombra, si abbassò in silenzio verso la sua: e tutto ciò che Franz poté fare fu di distogliere il volto.

In un lampo pensò alla scomparsa delle vecchie riviste ritagliate, e comprese che erano quelle, fatte a pezzi, a costituire la materia prima della figura pallida che lui aveva visto due volte alla finestra da Corona Heights.

Scorse sul soffitto nero, al di sopra del muso circondato da capelli neri che si abbassava lentamente, una piccola chiazza di colori dolci, armoniosi, fantasmagorici: lo spettro, in tinte pastello, del chiaro di luna, rifratto da uno dei prismi che giacevano nella macchia di luce sul pavimento.

La faccia asciutta, ruvida, dura, premette contro la sua, bloccandogli la bocca e schiacciandogli le narici: il muso affondò nel suo collo. Si sentì schiacciare da un peso immane, soverchiante. (La torre della TV e la Transamerica! E le stelle?) E sentì nella bocca e nel naso, soffocante, l’arida polvere amara di Thibaut De Castries.

Poi, proprio in quell’attimo, la stanza fu invasa da una fulgida luce bianca. Come se gli avessero iniettato uno stimolante ad azione istantanea, Franz riuscì a distogliere la faccia da quell’orrore rugoso e a girare le spalle.

La porta del corridoio era spalancata, la chiave era ancora nella serratura. Cal era sulla soglia, con la schiena contro lo stipite e la mano destra tesa sull’interruttore. Ansimava, come se avesse corso. Portava ancora l’abito bianco da concerto e il mantello di velluto nero, aperto. Guardava al disopra di lui, un po’ oltre, con un’espressione incredula e inorridita. Poi lasciò ricadere la mano dall’interruttore, e lentamente il suo corpo scivolò in avanti piegandosi soltanto alle ginocchia. Rimase con la schiena eretta contro lo stipite, le spalle dritte, il mento alto, e le palpebre non sbatterono neppure una volta sugli occhi colmi di orrore. Poi, quando si fu accovacciata come uno stregone, i suoi occhi si spalancarono ancora di più, con l’ira del virtuoso. Abbassò il mento, adottò la sua più feroce espressione professionale e disse, con una voce aspra che Franz non le aveva mai sentito:

— In nome di Bach, Mozart e Beethoven, in nome di Pitagora, Newton e Einstein, per Bertrand Russell, William James e Eustace Hayden, vattene! Tutte voi forme dissonanti e prive di ordine, andatevene immediatamente!

E mentre Cal parlava, le carte tutt’intorno a Franz (adesso lui poteva vedere che erano a brandelli) si sollevarono scricchiolando, la stretta sulle sue braccia e sulle sue gambe si allentò, e lui poté strisciare verso Cal, agitando violentemente le braccia in parte libere. A metà dell’eccentrico esorcismo i pallidi frammenti incominciarono a turbinare, e all’improvviso decuplicarono di numero (adesso non c’era più niente a trattenere Franz), così che alla fine lui strisciò verso Cal in mezzo a una fitta nevicata di carta.

Gli innumerevoli brandelli caddero frusciando sul pavimento tutt’intorno a Franz. Appoggiò la testa in grembo a Cal, che adesso sedeva eretta sulla soglia, per metà dentro e per metà fuori, e giacque ansimando, stringendole la vita con una mano e tenendo l’altra protesa nel corridoio, come per segnare sul tappeto il punto dove era giunto. Sentì sulla guancia le rassicuranti dita di Cal, mentre lei, con l’altra mano, gli scostava distrattamente i frammenti di carta dalla giacca.

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