Il versante di Corona Heights rivolto verso il parco Buena Vista, quello che dava le spalle al centro della città, aveva una pendenza superiore a quel che non sembrasse. Alcune volte, Franz dovette frenare l’impulso di affrettare il passo, e imporsi di procedere cautamente. Poi, a metà della discesa, due grossi cani cominciarono a girargli intorno ringhiando; non sanbernardo, ma grandi dobermann neri, di quelli che gli facevano venire in mente le SS. E il loro padrone, che si trovava più in basso, impiegò parecchio tempo prima di decidersi a richiamarli. Franz attraversò quasi di corsa il prato verde ai piedi della collina e il cancello nell’alta rete di recinzione.
Per qualche momento, pensò di telefonare alla signora Luque o addirittura a Cal, per chiedere loro di dare un’occhiata in camera sua, ma poi esitò all’idea di esporle a un possibile pericolo… o di disturbare Cal che si stava esercitando. Quanto a Gunnar e Saul, dovevano essere fuori.
E poi non sapeva esattamente cosa aspettarsi, e comunque preferiva sbrigarsela da solo.
Presto (ma non troppo presto per lui) si trovò a camminare in fretta lungo il Buena Vista Drive East. Il parco costeggiato da quella strada, un’altra altura, ma coperta di alberi, saliva accanto a lui, verde scuro e pieno d’ombre. Adesso che Franz era di quell’umore, gli sembrava che non fosse affatto una “bella vista” come diceva il suo nome, ma piuttosto l’ambiente ideale per sordidi traffici di eroina e per gli omicidi. Il sole, ormai, era tramontato del tutto, e volute irregolari di nebbia s’incurvavano dietro di Franz. Quando arrivò in Duboce Street avrebbe voluto scendere di corsa, ma lì i marciapiedi erano troppo ripidi, i più ripidi che avesse mai visto sui sette e più colli di San Francisco, e dovette di nuovo mordere il freno e posare con prudenza il piede, e perdere tempo. La zona sembrava tranquilla quanto Beaver Street, ma c’era poca gente in giro, adesso che con la sera era sceso il freddo; e Franz, ancora una volta, mise in tasca il binocolo.
Prese il tram con la scritta N-JUDAH, nel punto dove sboccava dalla galleria sotto il Buena Vista Park (con tutte quelle gallerie, le colline di San Francisco dovevano essere un colabrodo, pensò) e scese per la Market Street fino al Civic Center, la piazza del municipio. Tra la folla che a quella fermata salì con lui su un 19-POLK, una figura massiccia e pallida che stava dietro di lui lo fece sussultare: ma era solo un muratore dagli occhi stanchi, coperto dalla polvere bianchiccia di qualche lavoro di demolizione.
Scese dal 19 a Geary. Nell’androne dell’811 di Geary Street c’era soltanto Fernando che passava l’aspirapolvere, con un suono grigio e cavernoso come adesso lo era la giornata, là fuori. Franz avrebbe voluto fermarsi a chiacchierare, ma il portiere, basso, massiccio e cupo come un idolo peruviano, conosceva l’inglese ancor meno della sorella, e per giunta era piuttosto duro d’orecchio. Si scambiarono un saluto, gravemente, e poi un Senyor Lókey e un Miistar Juestón, perché Fernando pronunciava “Westen” alla spagnola.
Franz prese il cigolante ascensore e salì fino al sesto piano. Provò l’impulso di fermarsi prima da Cal o dagli amici, ma era una faccenda di… be’, di coraggio, affrontare direttamente il pericolo. Il corridoio era buio (una delle lampade del soffitto doveva essersi fulminata), e la finestra del pozzo di ventilazione e la porta senza maniglia dello stanzino vicino alla sua camera erano ancora più scuri del solito. Mentre si avvicinava alla porta del proprio appartamento, si accorse che gli batteva forte il cuore. Preoccupato e nel contempo convinto di comportarsi come uno sciocco, infilò la chiave nella serratura e, stringendo il binocolo nell’altra mano, a mo’ di arma impropria, spalancò in fretta la porta e accese la luce centrale.
Il bagliore della lampada da 200 watt gli mostrò che la stanza era vuota e intatta. Sul lato interno del letto ancora sfatto, la sua coloratissima Amante dello Studioso pareva ammiccare ironicamente. Comunque, Franz non si sentì sicuro finché non ebbe controllato (anche se nel farlo si vergognò di se stesso) nel bagno e non ebbe aperto l’armadio a muro e il guardaroba, e non ebbe scrutato al loro interno.
Poi spense la luce centrale e si avvicinò alla finestra, ancora aperta. Le doppie tende, come ricordava, erano verdi all’interno e all’esterno di un colore marroncino chiaro, sbiadito dal sole; ma se in un certo momento il vento le aveva spinte fuori, un’altra raffica doveva averle ributtate dentro. Tra la nebbia che si stava addensando sulla città si scorgeva ancora vagamente la gobba bitorzoluta di Corona Heights. La torre della TV era completamente velata. Franz guardò in basso e vide che il davanzale della finestra, la piccola scrivania che vi stava appoggiata contro e il tappeto ai suoi piedi erano cosparsi di frammenti di carta marrone che assomigliavano ai ritagli prodotti dalla macchina distruggidocumenti di Gunnar. Si ricordò che il giorno prima, proprio in quel punto, aveva esaminato alcune vecchie riviste, per staccare le pagine che intendeva conservare. E, dopo, che cosa aveva fatto? Aveva buttato via le riviste? Non riusciva a ricordare, ma probabilmente sì. Non le vide lì in giro, comunque: c’era solo il mucchietto ben impilato di quelle che doveva ancora esaminare. Be’, un ladro che rubava solo vecchie riviste con pagine mancanti non rappresentava una minaccia seria: era semplicemente un premuroso raccoglitore di carta straccia.
Infine, la tensione che aveva provato fin da quando era in cima alla collinetta l’abbandonò. Si accorse di avere sete. Andò a prendere una bottiglietta di analcolico nel piccolo frigo e la bevve avidamente. Mentre il caffè bolliva sul fornello, rifece in fretta la sua metà del letto e accese la lampada da notte. Portò lì il caffè e i due libri che aveva mostrato a Cal quella mattina, si sdraiò comodamente e lesse qua e là, riflettendo.
Quando si accorse che fuori era ormai buio, si versò altro caffè e scese, con la tazza piena, fino da Cal. La porta era socchiusa. All’interno, vide per prima cosa le spalle di Cal, che si alzavano al ritmo della musica da lei suonata con precisione e con passione; la ragazza aveva gli orecchi coperti dai grandi auricolari imbottiti della cuffia. Franz ebbe l’impressione di udire qualcosa, ma non riuscì a capire se era lo spettro di un concerto o soltanto il lievissimo tonfo dei tasti.
Gunnar e Saul chiacchieravano a bassa voce sul divano, e Gunnar aveva accanto a sé una bottiglia verde. Ricordando le frasi irritate che aveva udito quella mattina, Franz cercò qualche segno di tensione: ma sembrava che tra loro regnasse la massima armonia. Forse s’era immaginato troppe cose, nelle parole di quei due.
Saul Rosensweig (un uomo magro, con i capelli scuri, lunghi fino alle spalle, e gli occhi cerchiati di nero) gli rivolse un sorriso e disse: — Ciao. Calvina ci ha invitati per tenerle compagnia mentre si esercita, anche se un paio di manichini potrebbero fare benissimo lo stesso lavoro. Ma Calvina, in fondo, è una puritana romantica. Sotto sotto, desidera frustrarci.
Cal si era tolta la cuffia e si era alzata. Senza rivolgere una parola o un’occhiata a nessuno (e neppure agli oggetti della stanza), prese dei vestiti dal cassetto e sparì come una sonnambula nel bagno. Poco dopo, si sentì scorrere l’acqua della doccia.
Gunnar sorrise a Franz e disse: — Salve. Siediti e unisciti alla confraternita del silenzio. Come va la vita dello scrittore?
Parlarono pigramente del più e del meno. Saul si preparò con attenzione una sigaretta lunga e sottile. L’odore di resina del fumo era gradevole, ma Franz e Gunnar, sorridendo, rifiutarono di tirare qualche boccata. Gunnar alzò la bottiglia verde e bevve un lungo sorso.
Cal ricomparve dopo un tempo straordinariamente breve, fresca e pudica in un abito marrone scuro. Si versò un bicchiere del succo d’arancia che teneva in frigo e si sedette.
— Saul — disse, con un sorriso — tu sai benissimo che il mio nome non è Calvina ma Calpurnia: la Cassandra romana che continuava a mettere in guardia Cesare. Sarò una puritana, ma non ho preso il nome da Calvino. I miei genitori erano presbiteriani, è vero, ma mio padre era passato in giovane età agli unitarianisti, e quando è morto era un convinto culturista etico. Invocava Emerson e imprecava su Robert Ingersoll. Invece mia madre era una Bahai, una cosa molto meno seria. E non possiedo due manichini, altrimenti potrei servirmi di quelli. No, niente “canna”, grazie. Devo conservarmi pura fino a domani sera. Gunnar, grazie per essere venuto. Fa piacere avere qualcuno nella stanza, anche quando non posso parlare con nessuno. È utile, soprattutto quando comincia a scendere la sera. Quella birra ha un profumo meraviglioso, ma purtroppo… è come per l’“erba”. Franz, hai un’aria strana. Cos’è successo a Corona Heights?
Lieto che Cal avesse pensato a lui e l’avesse osservato con tanta attenzione, Franz raccontò la propria avventura. Notò con sorpresa che, narrandola, diventava quasi banale, meno spaventosa, anche se, paradossalmente, assai più interessante: la solita croce (nonché delizia) degli scrittori.
Gunnar riassunse, in tono allegro: — Dunque, sei andato a fare indagini sull’apparizione, o quel che era, e hai scoperto che ha scambiato posto con te e ti fa le boccacce dalla tua finestra, a tre chilometri di distanza. “Taffy andò a casa mia…” L’hai proprio detta giusta.
Saul osservò: — La tua storia di Taffy mi ricorda un mio paziente, il signor Edwards. Si era messo in mente che due suoi nemici, in una macchina parcheggiata di fronte all’ospedale, puntassero su di lui un proiettore di raggi dolorifici. L’abbiamo portato sul posto perché vedesse con i suoi occhi che non c’era nessuno, a bordo delle macchine parcheggiate. Lui era molto contento e continuava a ringraziarci, ma quando l’abbiamo riportato nella sua stanza ha subito lanciato un urlo di dolore. A quanto ci ha detto, i suoi nemici avevano approfittato della sua assenza per nascondere nel muro un proiettore di quei raggi.
— Oh, Saul — disse Cal, in tono di blando rimprovero — non siamo pazienti del tuo ospedale, o almeno non ancora. Franz, mi domando se per caso non c’entravano quelle due bambine dall’aria tanto innocente. Hai detto che correvano e danzavano, come la tua apparizione bruno-pallida. Sono sicura che, se esiste una cosa come l’energia psichica, le bambine ne hanno in abbondanza.
— Hai davvero una notevole immaginazione artistica. A me, quella spiegazione non è neppure venuta in mente — rispose Franz, rendendosi conto che cominciava a togliere valore all’intero episodio. Ma non poteva evitarlo. — Saul, può darsi che fosse una mia proiezione, almeno in parte; e con questo? E poi la figura era vaga, e non faceva niente di veramente sinistro.
Saul disse: — Senti, io non suggerivo nessun parallelo. Questa è un’idea tua e di Cal. Mi è solo venuto in mente un altro episodio bizzarro.
Gunnar rise. — Saul non ci ritiene completamente pazzi. Solo psicotici marginali.
Si sentì bussare. Poi la porta si aprì ed entrò Dorotea Luque. Fiutò l’aria e guardò Saul. Assomigliava al fratello, ma in versione più snella, e aveva un bellissimo profilo incaico e capelli neri come l’ossidiana. Era venuta a portare a Franz un pacchetto di libri, arrivato per posta.
— Mi chiedevo se era qui, e poi ho sentito la sua voce — disse. — Ha trovato le cose da scrivere che fanno paura, col suo… come si chiama? — Mimò un binocolo con le mani, accostandosele agli occhi, e poi si guardò intorno senza capire, quando tutti risero.
Mentre Cal le versava un bicchiere di vino, Franz si affrettò a spiegare. Con sua grande sorpresa, la donna prese molto sul serio la figura che lui aveva visto alla finestra.
— È sicuro che non hanno rubato niente? — chiese con ansia. — C’è una ladra al secondo piano, credo.
— Il televisore portatile e il registratore c’erano — la rassicurò Franz. — Sono le prime cose che i ladri portano via.
— E l’osso per il brodo? — intervenne Saul. — L’ha preso Taffy?
— E ha chiuso il finestrino? Ha chiuso a chiave la porta? — insistette Dorotea, mimando l’azione con un’energica torsione del polso. — È chiusa con due giri, adesso?
— Io la chiudo sempre a chiave, e non solamente con lo scatto — le assicurò Franz. — Una volta credevo che solo nei romanzi gialli fosse possibile aprire le serrature con un pezzetto di plastica. Ma poi ho scoperto che potevo aprire la mia con una fotografia. Il finestrino, però, non lo chiudo mai. Preferisco lasciarlo aperto per cambiare aria.
— Deve chiudere sempre il finestrino, quando va fuori — sentenziò Dorotea. — Dovete chiuderlo tutti, capite? Uno molto magro può passare dal finestrino, credetemi. Bene, sono contenta che non le hanno rubato niente. Gracias - aggiunse rivolgendo un cenno a Cal e bevendo il vino.
Cal sorrise e si rivolse a Saul e a Gunnar: — Perché una città moderna non può avere i suoi spettri caratteristici, come una volta li avevano i castelli e i cimiteri e i vecchi palazzi di campagna?
Saul disse: — Una mia paziente, la signora Willis, pensa che i grattacieli le corrano dietro. Di notte si rendono ancora più scheletrici, sostiene lei, e si aggirano furtivamente nelle strade per cercarla.
Intervenne Gunnar: — Una volta ho sentito il lampo fischiare sopra Chicago. C’era un temporale sul Loop, e io ero nel South Side, all’università, vicino a dove è stata costruita la prima pila atomica. C’è stato un lampo all’orizzonte, verso nord; poi, dopo circa sette secondi, non il tuono, ma una sorta di gemito acutissimo. Ho pensato che i binari della sopraelevata fossero entrati in vibrazione a causa di una radiofrequenza del lampo.
Cal chiese, interessata: — Ma, la massa stessa di tutto quell’acciaio non potrebbe…? Franz, parla di quel libro.
Franz ripeté quanto aveva riferito a Cal quella mattina, a proposito della Megalopolisomanzia, e aggiunse qualche nuovo particolare.
Gunnar l’interruppe: — E quell’uomo ha scritto che le città moderne sono le nostre piramidi egizie? È un’idea bellissima. Immagina, quando saremo stati sterminati dall’inquinamento nucleare e chimico, soffocati dalla plastica non biodegradabile, dalle maree rosse di alghe morenti, che sono l’atroce culmine della nostra cultura, una spedizione archeologica arriva con l’astronave da un altro sistema solare e comincia a esplorare la nostra civiltà, come un branco di maledetti egittologi! Userebbero sonde robot per spiare nelle nostre città completamente vuote, che sarebbero troppo radioattive per qualunque essere vivente, morte e pericolose come i nostri mari avvelenati. Cosa penserebbero dei grattacieli del World Trade Center di New York, o dell’Empire State Building? O del Sears Building di Chicago? O magari della Transamerica Pyramid che abbiamo qui a San Francisco? O del centro di assemblaggio dei veicoli spaziali di Cape Canaveral, così grande che ci si può volare dentro con un aereo da turismo? Probabilmente penserebbero che erano stati costruiti per fini religiosi e occulti, come Stonehenge. Non immaginerebbero mai che lì dentro la gente viveva e lavorava. Non c’è dubbio: le nostre città saranno le rovine più strane che siano mai esistite. Franz, il tuo De Castries ha avuto una grande idea: la massa di materiale che c’è nelle città. È pesante, pesante.
Saul intervenne: — La Willis dice che i grattacieli diventano pesantissimi di notte quando… chiedo scusa… quando la violentano.
Dorotea Luque spalancò gli occhi, poi scoppiò in una risatina. — Oh, non si dicono queste cose — lo sgridò allegramente, agitando un dito.
Saul aveva negli occhi un’espressione distante, da poeta folle. Tanto per ribadire la propria osservazione di prima, aggiunse: — Riuscite a immaginare le loro forme, alte, grigie e sottili, che avanzano furtivamente per la strada, mostrando ben eretto, come se fosse il loro fallo di pietra, uno dei loro archi rampanti? — La Luque tornò a ridere. Gunnar le versò ancora del vino, e andò a prendere per sé un’altra bottiglia di birra.