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Per strada, davanti al Veterans’ Building, Franz prese a scrutarsi ai lati e indietro, adesso molto più a caso di prima: provava un senso non tanto di paura quanto di cautela, come se fosse un selvaggio in missione in una giungla di cemento e percorresse il fondo di una gola rettilinea, fiancheggiata da muraglie pericolose. Poiché si era tuffato volutamente nel rischio, si sentiva quasi baldanzoso.

Proseguì per due isolati e svoltò in Larking Street, camminando in fretta ma senza far rumore. C’erano pochi passanti. La luna gibbosa, era quasi allo zenit. In Turk Street una sirena ululava, a qualche isolato di distanza. Franz continuò a guardarsi intorno, cercando il paramentale del suo binocolo e lo spettro di Thibaut, forse uno spettro materiale formato dalle fluttuanti ceneri del vecchio mago, o da una loro parte. Quelle cose potevano non essere reali, poteva esserci ancora una spiegazione naturale (oppure poteva darsi che lui fosse pazzo): ma fintanto che non ne era sicuro, in un senso o nell’altro, era meglio stare in guardia.

Lungo Ellis Street, la rientranza dove cresceva il suo albero preferito era nera, ma le estremità dei rami, simili a dita, sporgevano verdi nella luce bianca dei lampioni.

A cinque o sei isolati di distanza, verso ovest, in O’Farrel Street, Franz scorse la mole modernistica della cattedrale di St Mary, grigiastra e pallida al chiaro di luna, e pensò, inquieto, a un’altra Signora.

Svoltò in Geary Street, passando davanti a negozi bui, a due bar illuminati, e all’ampia bocca sbadigliante del garage De Soto, sede dei taxi blu, e raggiunse il tendone bianco-sporco che contrassegnava il numero 811.

Nell’atrio c’erano due tipi dall’aria dura, seduti sul ripiano di piccole piastrelle esagonali di marmo sotto le due file delle cassette postali d’ottone. Probabilmente erano ubriachi. Lo seguirono con occhi vacui mentre prendeva l’ascensore.

Uscì al sesto piano e chiuse senza far rumore le due porte (il cancelletto pieghevole della cabina e la porta senza vetri del piano); si avviò in punta di piedi, superando la finestra nera e la nera porta del ripostiglio, col foro rotondo che occhieggiava vuoto al posto della maniglia, e si fermò davanti all’ingresso.

Rimase in ascolto per un po’ di tempo e non udì niente. Aprì le due mandate della serratura ed entrò. Si sentì invadere dall’eccitazione e dalla paura. Questa volta non accese il luminoso lampadario centrale; si fermò, attento, ascoltando, in attesa che i suoi occhi si abituassero alla penombra.

Nella stanza regnava la massima oscurità. All’esterno, dietro la finestra aperta, la notte era pallida (grigio-scura, piuttosto) per la luna e il riverbero indiretto delle luci della città. C’era un gran silenzio, rotto solo dal rombo e dal ringhio fievole e distante del traffico, e dal tumulto del suo sangue. All’improvviso, dalle tubature, giunse un ruggito massiccio e cupo, come se qualcuno a un piano o due di distanza avesse aperto un rubinetto dell’acqua. Il rumore cessò di colpo com’era incominciato, e ritornò il silenzio.

Arditamente, Franz chiuse la porta e avanzò a tentoni lungo la parete, intorno al guardaroba, evitando con cura il tavolino sovraccarico, verso la testata del letto, e là accese la luce. Fece scorrere lo sguardo sulla sua Amante dello Studioso che giaceva snella, buia e imperscrutabilmente silenziosa contro la parete, e sulla finestra aperta.

A due metri dalla finestra, nell’interno, giaceva sul pavimento il grande rettangolo di cartone rosso fluorescente. Franz si avvicinò e lo raccolse. Era piegato irregolarmente in mezzo, e un po’ strappato agli angoli. Scosse la testa, l’appoggiò al muro, e tornò alla finestra. I due frammenti del cartone, gli angoli mancanti, erano ancora fissati con le puntine da disegno all’intelaiatura. Le tende ricadevano in perfetto ordine. C’erano pezzetti di carta giallastra sulla scrivania e sul pavimento ai suoi piedi. Non ricordava se avesse ripulito i brandelli del giorno prima. Notò che il mucchietto ordinato di vecchie riviste non ancora esaminate era scomparso. Le aveva messe via da qualche parte? Non ricordava neppure quello.

Era possibile che una forte raffica di vento avesse strappato il cartone… ma non avrebbe scompigliato anche le tende, non avrebbe fatto volare le briciole di carta dalla scrivania? Franz guardò fuori, le rosse luci della torre della TV: tredici piccole e fisse, sei più vivide e lampeggianti. Più in basso, fra la torre e lui, la gobba di Corona Heights era visibile come una macchia scura sullo sfondo delle luci giallastre delle finestre e dei lampioni, e di alcune altre luci, bianche e verdi e più vivide, in curve serpentine. Franz scosse di nuovo la testa.

Ispezionò in fretta l’appartamento: questa volta non si sentì affatto sciocco, nel farlo. Nel guardaroba, spostò di scatto gli indumenti appesi e guardò dietro. Notò un impermeabile chiaro di Cal, rimasto lì da qualche settimana. Guardò dietro la tenda della doccia e sotto il letto.

Sul tavolo, tra la porta del ripostiglio e quella del bagno, stava la posta non ancora aperta. In cima c’era la lettera di un’organizzazione per la lotta contro il cancro, alla quale aveva inviato offerte dopo la morte di Daisy. Aggrottò la fronte e strinse le labbra per un attimo, contraendo la faccia in una smorfia di dolore. Vicino al mucchietto della corrispondenza c’erano una piccola lavagna, qualche gessetto bianco, e i prismi con i quali giocava di tanto in tanto, suddividendo i raggi solari nei loro spettri e poi negli spettri degli spettri. Si rivolse alla sua Amante dello Studioso: — Ti rivestiremo di abiti allegri, mia cara, come un arcobaleno, quando questa storia sarà finita.

Prese una carta della città e una riga, e si recò accanto al letto; estrasse dalla tasca il binocolo rotto e lo depose delicatamente su un angolo libero del tavolino. Provò un senso di sicurezza nel pensare che adesso il paramentale proboscidato non poteva raggiungerlo senza passare sui cocci di vetro, come quelli che una volta venivano cementati in cima ai muri per tener lontani gli intrusi… finché non si accorse che quel senso di sicurezza era assurdo.

Estrasse anche il diario di Smith, e si stese accanto alla sua Amante dello Studioso, aprendo la carta topografica. Poi aprì il volume alla pagina della maledizione di De Castries, meravigliandosi ancora una volta che avesse potuto sfuggirgli per tanto tempo, e rilesse la parte cruciale:


Il fulcro (O) e il Cifrario (A) saranno qui, al suo amato Rodi 607. Io riposerò nel mio luogo designato (1) sotto lo Scanno del Vescovo, le ceneri più pesanti che lui abbia mai sentite. Poi, quando i pesi saranno su, sul Monte Sutro (4) e su Monkey Clay (5) [(4) + (1) = (5)], la sua vita SIA schiacciata.


E adesso, si disse, occorreva risolvere quel problema di geometria nera… o forse era fisica nera? Come l’aveva chiamata De Castries, secondo quello che Klaas aveva riferito a Byers? Oh, sì: “metageometria neopitagorica”.

Monkey Clay era l’elemento meno comprensibile della maledizione, d’accordo. Bisognava partire da lì. Con Byers avevano parlato dell’argilla di cui sono fatti l’uomo e la scimmia, ma non erano arrivati a nulla. Doveva essere un luogo, come il Monte Sutro o Corona Heights (“sotto lo Scanno del Vescovo”). C’era una Clay Street, a San Francisco: ma una Monkey?

La mente di Franz fece un balzo, da Monkey Clay a Monkey Wards. Perché? Lui aveva conosciuto un tale che lavorava nella grande azienda rivale della Sears Roebuck; e diceva che lui e gli altri operai chiamavano così la loro ditta.

Un altro balzo, da Monkey Wards a Monkey Block. Ma certo! Monkey Block, l’“isolato delle scimmie”, era il nomignolo appioppato a un immenso palazzo di appartamenti della vecchia San Francisco, demolito da molto tempo, dove gli artisti e i bohémien abitavano a basso prezzo, nei “ruggenti anni Venti” e durante la depressione. “Monkey” era l’abbreviazione della via in cui sorgeva: Montgomery. Un’altra strada di San Francisco, e per giunta una trasversale di Clay Street! (C’era anche qualcosa d’altro, a tale proposito, ma la sua mente era in fiamme e lui non poteva aspettare.)

Eccitatissimo, collocò la riga sulla carta topografica, fra il Monte Sutro e l’intersezione tra la Clay e la Montgomery Street, all’estremità settentrionale del quartiere degli affari: e vide che la linea retta attraversava al centro Corona Heights (e passava anche piuttosto vicino all’intersezione tra la Geary e la Hyde Street, dove abitava lui, notò con una lieve smorfia).

Prese una matita dal tavolino e tracciò un piccolo 5 all’incrocio Montgomery-Clay, un 4 accanto al Monte Sutro, e un 1 su Corona Heights. Poi notò che la linea assomigliava a una bilancia a due braccia, con il fulcro tra Corona Heights e Montgomery-Clay. C’era anche un equilibrio matematico: 4 più 1 uguale 5… com’era scritto nella maledizione, prima dell’ingiunzione finale. Quel disgraziato fulcro (O), dovunque fosse, sarebbe stato sicuramente schiacciato dai due grandi bracci a leva (“Datemi un punto e schiaccerò il mondo”: Archimede). (E anche nella scritta della maledizione, il minuscolo “la sua vita” era oppresso da quel “SIA” in tutte maiuscole!)

Sì, quello sventurato (O) sarebbe stato sicuramente soffocato, compresso e ridotto letteralmente a nulla, soprattutto se “i pesi saranno su…” E allora?

All’improvviso Franz capì che adesso, qualunque fosse stata la situazione in passato, certamente i pesi c’erano, con la torre della TV piazzata sul Monte Sutro e con la Transamerica Pyramid (il più alto edificio di San Francisco) piazzata all’intersezione Montgomery-Clay! (Il “qualcosa d’altro”, che prima non gli era venuto in mente, era che il Monkey Block era stato demolito per lasciar posto prima a un parcheggio e poi alla Transamerica Pyramid. Sempre più vicino alla soluzione del mistero!)

Ecco perché la maledizione non aveva colpito Smith. Lo scrittore era morto prima che venissero costruite le due strutture. La trappola era scattata solo dopo.

La Transamerica Pyramid e la torre della TV, alta 300 metri… erano in grado di schiacciare, certamente.

Ma era assurdo pensare che De Castries avesse potuto prevedere la costruzione di quelle strutture. Però, la coincidenza (tirare a indovinare) era una spiegazione sufficiente. Bastava scegliere un qualunque incrocio nel centro di San Francisco per constatare che, cinquanta volte su cento, proprio lì, o nelle vicinanze immediate, sorgeva un grattacielo.

Ma allora perché lui tratteneva il respiro, perché sentiva un lieve rombo negli orecchi, perché le sue dita erano fredde e anchilosate?

Perché De Castries aveva detto a Klaas e a Ricker che la prescienza, o la precognizione, era possibile in certi luoghi delle megacittà? Perché aveva chiamato Megalopolisomanzia il suo libro, che adesso stava, color grigio sporco, accanto a Franz?

Qualunque fosse la risposta, adesso i pesi c’erano, senza il minimo dubbio.

E quindi era ancor più importante scoprire l’ubicazione di quel misterioso Rodi 607, dov’era vissuto il vecchio diavolo (o meglio, dove aveva trascinato l’ultima parte della sua esistenza) e dove Smith gli aveva rivolto le sue domande… e dove, secondo la maledizione, era nascosto il registro contenente il Grande Cifrario… e dove la maledizione si sarebbe compiuta. Era proprio come un giallo. Un giallo di Dashiell Hammett? “La X indica il punto” dove è stata (sarà?) scoperta la vittima, schiacciata a morte? Avevano messo una lapide di bronzo all’incrocio fra la Bush e la Stockton Street, dove Brigid O’Shaunessy aveva sparato a Miles Archer nel Falcone maltese di Hammett; ma non c’erano lapidi in memoria di Thibaut De Castries, che invece era una persona realmente esistita. Dov’era la sfuggente X, la misteriosa (O)? Dov’era il Rodi 607? Davvero, avrebbe dovuto chiederlo a Byers, quando ne aveva avuto l’occasione. Doveva telefonargli adesso? No, aveva tagliato i ponti. Beaver Street era un’area dove non voleva più avventurarsi, neppure per telefono. Almeno per ora. Ma rinunciò a lambiccarsi il cervello sulla carta topografica. Era inutile.

Poi lo sguardo gli cadde sull’annuario 1927 di San Francisco, trafugato alla biblioteca quel mattino, che formava la parte centrale della sua Amante dello Studioso. Tanto valeva fare subito la ricerca: trovare il nome del palazzo, se mai ne aveva avuto uno e se a quell’epoca era davvero un albergo. Si mise sulle ginocchia il grosso volume e girò le pagine ingiallite, cercando la sezione “Alberghi”. In un momento diverso da quello, si sarebbe divertito a leggere le vecchie pubblicità dei medicinali e dei parrucchieri.

Pensò a tutti i giri che aveva fatto quella mattina al municipio. Adesso gli sembrava tutto molto lontano e molto ingenuo.

Vediamo: la soluzione migliore era quella di cercare negli indirizzi: non Geary Street (dovevano esserci parecchi alberghi, in quella strada), ma un numero civico 811. Probabilmente ce n’era uno soltanto, ammesso che ci fosse. Incominciò a far scorrere l’indice sulla prima colonna, piuttosto lentamente.

Arrivò alla penultima colonna, prima di trovare un 811. Sì, ed era anche in Geary Street, sicuro. Il nome era… Hotel Rodi.

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