Mentre Franz percorreva guardingo Beaver Street, scrutando le ombre tra le luci stradali relativamente rare, pensava che De Castries aveva cessato di essere un semplice diavolo da pagliaio, che infestava la solitaria gobba di Corona Heights (e anche la stanza di Franz, all’811 Geary Street?) per diventare un demone o uno spettro o un paramentale ubiquitario, presente nell’intera città, in tutti i suoi colli sparsi. Quanto a questo, per restare in discorso materialistico, senza dubbio alcuni degli atomi distaccatisi dal corpo di De Castries durante la sua vita e le sue esequie, quarant’anni prima, adesso erano intorno a Franz, lì, in quel preciso momento, e nell’aria stessa che lui respirava? Gli atomi erano così infinitamente piccoli e infinitamente numerosi… E c’erano anche gli atomi di Francis Drake (mentre navigava davanti alla futura Baia di San Francisco, a bordo della Golden Hind) e di Shakespeare e di Socrate e di Salomone (e di Dashiell Hammett e di Clark Ashton Smith). Quanto a questo, non era forse vero che gli atomi destinati a diventare Thibaut De Castries circolavano già nel mondo prima che venissero erette le piramidi, e convergevano lentamente verso il luogo (nel Vermont? in Francia?) dove sarebbe nato quel vecchio diavolo? E prima ancora, quegli atomi di Thibaut non erano forse sfrecciati fulminei dal luogo della violenta nascita dell’universo fino al punto dello spaziotempo dove sarebbe nata la Terra, con tutti i suoi strani mali, usciti dal vaso di Pandora?
A vari isolati di distanza, si levò il suono di una sirena. Molto più vicino, un gatto scuro saettò in un foro nero tra due muri troppo vicini per lasciar passare un essere umano. Franz pensò che i grandi edifici minacciavano di schiacciare l’uomo fin da quando era stata costruita la prima megacittà. In verità la paziente di Saul, la pazza (?) signora Willis, non era poi tanto fuori strada, e neppure Lovecraft (e Smith?) col suo timore, carico di fascino morboso, per le stanze immense, con i soffitti che erano una sorta di cielo interno, e le pareti lontane che erano orizzonti, entro edifici ancora più immensi. San Francisco era coperta, come da un’eruzione, da quei grandi edifici, e ogni mese ne spuntavano altri. Anch’essi recavano scritti i segni dell’universo? A chi erano appartenuti, gli atomi vagabondi che contenevano? E i paramentali erano la loro personificazione oppure i loro parassiti o i loro predatori naturali? Comunque, tutto si concatenava logicamente e ineluttabilmente, proprio come il diario in carta di riso era passato da Smith (che scriveva con l’inchiostro viola) a De Castries (che vi aveva aggiunto una mortale postilla segreta in nero) e poi a Ricker (che era un fabbro e non un bibliofilo) e a Soames (che aveva una figlia precocemente sexy) fino a Westen, sensibile alle cose sexy e alle bizzarrie.
Un taxi blu che scendeva lentamente e silenziosamente passò come uno spettro vicino a Franz, e si fermò accanto al marciapiede di fronte.
Non c’era da stupirsi, se Byers aveva preferito che Franz si tenesse il diario e la maledizione appena scoperta! Byers era un veterano della campagna contro i paramentali, con le sue difese rappresentate da catenacci e luci e stelle e segni e labirinti e liquori, droga e sesso, e sesso outré… Fa Lo Suee aveva portato Shirley Soames per Byers, non solo per se stessa: quei toccamenti gaiamente ostili erano stati compiuti per divertirlo. Molto efficiente e ricco d’inventiva, come sistema. Un individuo doveva pur dormire. Forse anche lui, pensò Franz, avrebbe imparato a usare il metodo di Byers, escluso il liquore: ma quella notte no, a meno che non vi fosse costretto.
I fari di un’invisibile vettura in Boe Street illuminarono l’angolo più avanti, all’inizio di Beaver Street. Mentre Franz scrutava in cerca delle figure che potevano essersi nascoste nel buio e che adesso si sarebbero rivelate, pensò al perimetro di difesa interiore di Byers, cioè il suo atteggiamento estetico nei confronti della vita, la sua teoria che l’arte e la realtà, la finzione e la vita, fossero una cosa sola, così che non era necessario sprecare energie per distinguerle.
Ma quella difesa non era una razionalizzazione? si chiese Franz. Un tentativo per non affrontare lo schiacciante interrogativo: “I paramentali sono reali o no?”
Tuttavia, come si poteva rispondere a questa domanda se si era in fuga e si diventava sempre più deboli e stanchi?
E poi all’improvviso Franz scoprì come poteva salvarsi per il momento, o almeno acquistare tempo per riflettere senza pericolo. E quel metodo non comportava il ricorso ai liquori, alle droghe o al sesso, né una diminuzione della vigilanza. Cercò a tentoni il taccuino, vi frugò… Sì, il biglietto c’era. Accese un fiammifero e diede un’occhiata all’orologio. Non erano ancora le otto, se si affrettava sarebbe arrivato in tempo. Si voltò. Il taxi blu, dopo aver fatto scendere il passeggero, stava percorrendo Beaver Street, con la luce LIBERO accesa. Franz scese dal marciapiede e agitò la mano per fermarlo. Si accinse a salire, poi esitò. Un’occhiata attenta gli rivelò che l’interno buio e lustro era vuoto. Salì e sbatté la portiera, notando con un moto di approvazione che i vetri dei finestrini erano alzati.
— Al Civic Center — disse. — Il Veterans’ Building. C’è un concerto.
— Oh, già — fece il tassista, un uomo piuttosto anziano. — Se per lei non fa niente, non vorrei passare da Market Street: ci sono dei lavori. Facendo il giro, arriveremo prima.
— Benissimo — replicò Franz, assestandosi sul sedile, mentre il taxi svoltava verso nord in Noe Street, accelerando. Franz sapeva (o credeva) che le normali leggi fisiche non erano valide per i paramentali, sempre che questi esistessero davvero: quindi, trovarsi a bordo di un veicolo in moto non gli dava maggior sicurezza. Però era questa l’impressione che aveva, e di conseguenza si sentiva un po’ sollevato.
L’abituale scenario di una corsa in taxi lo distrasse in parte: le buie facciate delle case e dei negozi che sfrecciavano via, i rallentamenti agli angoli, la gara con i semafori per passare prima del rosso. Però continuava a scrutare, girando la testa per guardarsi indietro, ora a sinistra e ora a destra.
— Quand’ero bambino, e abitavo qui — disse il tassista — non scavavano tante buche in Market Street. Ma adesso non fanno altro. Colpa della BART. E lo fanno anche nelle altre strade. Tutti quei maledetti grattacieli. Staremmo meglio se non ci fossero.
— Sono d’accordo con lei.
— Proprio — confermò il tassista. — Sarebbe più facile, girare in macchina. Attento, bastardo!
Anche se non arrivò certo all’orecchio del guidatore, quest’ultima osservazione, pronunciata in tono abbastanza blando, era rivolta a una vettura che stava cercando d’infilarsi nella corsia di destra di McAllister Street. Lungo una via laterale Franz scorse un enorme globo arancione, librato in alto come un pianeta Giove che fosse tutto una Macchia Rossa. Era la pubblicità del distributore di benzina Union 76. Svoltarono nella Van Ness Street e subito si fermarono accanto al marciapiede. Franz pagò, aggiungendo una mancia generosa, e attraversò l’ampio marciapiede verso il Veterans’ Building, varcò la grande porta a vetri ed entrò nel maestoso atrio pieno di sculture moderne realizzate con tubi di venti centimetri di diametro, che sembravano grovigli di giganteschi vermi metallici in guerra tra loro.
Insieme a qualche altro spettatore ritardatario, si diresse in fretta all’ascensore. Provò un senso di claustrofobia, e nel contempo di sollievo, quando le porte si chiusero. Al quarto piano si unì alla folla del pubblico arrivato all’ultimo momento. Tutti consegnavano il biglietto e ritiravano il programma prima di entrare nella sala da concerto, che era di media grandezza e bianca come l’avorio, col soffitto a cassettoni e te file di poltroncine pieghevoli (già quasi tutti occupate, sembrava).
Dapprima Franz si allarmò a causa della folla (in mezzo, vi si poteva nascondere qualunque cosa), ma ben presto cominciò a sentirsi rassicurato dalla normalità di quei musicofili, che nella stragrande maggioranza indossavano abiti di taglio tradizionale sia nella varietà consueta sia in quella hippy; poi qualche esteta in abiti fantasiosi, adatti per le esperienze artistiche di genere sublime; e infine i gruppi delle persone anziane, con le signore in semplici abiti da sera con qualche tocco d’argento e i signori in giacca e cravatta. Una giovane coppia attirò l’attenzione di Franz. Tutti e due erano minuti e delicati, tutti e due apparivano meticolosamente lindi. Portavano abiti hippy nuovi di zecca, ben confezionati su misura: lui giacca di pelle e calzoni di velluto a coste, lei tailleur di tela jeans splendidamente sbiadito con grandi chiazze pallide. Sembravano due bambini: ma la barba perfettamente curata di lui e la pudica sporgenza del tenero seno di lei li proclamavano adulti. Si tenevano per mano, come due bambole, come se fossero abituati a trattarsi a vicenda con molta delicatezza. Sembravano due bambini vestiti per il carnevale dai loro nonni.
Una sezione della mente di Franz, consapevole e freddamente calcolatrice, gli disse che lì non era più al sicuro che al buio. Tuttavia le sue paure si assopivano, così come si erano placate quando era arrivato in Beaver Street e poi quando era salito sul taxi.
Poco prima di entrare nella sala dei concerti, scorse in fondo al foyer, di spalle, un uomo piuttosto piccolo, con i capelli grigi, in abito da sera, e una donna alta e snella, con un turbante beige e un vestito ampio e fluente, color marrone chiaro. Sembrava che parlassero tra loro animatamente: e quando si voltarono in fretta verso di lui, provò un brivido, perché gli parve che la donna portasse un velo nero. Poi vide che era una negra, e che la faccia dell’uomo era alquanto porcina.
Mentre avanzava nella sala dei concerti, piuttosto nervosamente, si sentì chiamare per nome: sussultò, poi si avviò in fretta lungo la corsia, verso Gunnar e Saul che stavano tenendo libero il posto in mezzo a loro, in terza fila.
— È quasi ora — borbottò Saul mentre Franz s’infilava al suo posto.
Gunnar, con un sorriso un po’ forzato, posandogli per un attimo la mano sul braccio, gli disse: — Cominciavamo a temere che non venissi. Sai che Cal contava su di te, no? — Poi sul suo volto apparve un’espressione interrogativa, quando, dalla tasca di Franz che si stava assestando la giacca, si sentirono tintinnare i vetri rotti.
— Ho rotto il binocolo su Corona Heights — disse laconico Franz. — Te lo spiego dopo. — Poi un pensiero lo colpì. — T’intendi di ottica? Strumenti ottici, lenti e così via?
— Un po’ — rispose Gunnar, aggrottando la fronte. — E ho un amico che è uno specialista. Ma perché…?
Franz domandò, lentamente: — Sarebbe possibile manomettere un cannocchiale, oppure un binocolo, in modo che una persona vedesse in distanza qualcosa che non c’è?
— Be’… — cominciò Gunnar, con aria perplessa, muovendo le mani in un piccolo gesto d’incertezza. Poi sorrise. — Ecco, se tu cercassi di guardare con un binocolo rotto, immagino che vedresti qualcosa di simile a un caleidoscopio.
— Taffy si è dato al gioco duro? — gli chiese Saul, dall’altra parte.
— Non parliamone, per il momento — disse Franz a Gunnar, e rivolse a Saul una rapida smorfia temporeggiatrice (e dietro di lui, e ai lati. La folla dei frequentatori di concerti formava un terreno quanto mai adatto per tendere un agguato), poi guardò il palcoscenico, dove i sei o sette concertisti erano già seduti lungo una curva concava, poco profonda, appena oltre il podio del direttore d’orchestra; uno degli archi stava ancora accordando pensieroso il suo strumento. La sagoma lunga e stretta del clavicembalo, con la panchetta vuota, stava all’estremità sinistra della curva, un po’ spostata verso il centro del palco per avvantaggiare le sue esili note.
Franz guardò il programma. Il quinto concerto brandeburghese costituiva il finale. C’erano due intervalli. Il pezzo d’apertura era:
CONCERTO IN DO MAGGIORE PER CLAVICEMBALO E ORCHESTRA DA CAMERA
di Giovanni Paisiello
1. Allegro
2. Larghetto
3. Allegro (Rondò)
Saul gli diede di gomito. Franz alzò gli occhi. Cal era giunta sul palcoscenico, con molta discrezione. Indossava un abito bianco da sera che le lasciava scoperte le spalle e scintillava un po’ agli orli. Disse qualcosa al flauto e si voltò, guardando di sfuggita il pubblico. Franz pensò che l’avesse visto, ma non poteva esserne sicuro. Cal si sedette. Le luci si abbassarono. Accolto da un’ondata di applausi, il direttore entrò, raggiunse il podio, scrutò i musicisti da sotto le sopracciglia, batté la bacchetta sul leggìo e poi l’alzò seccamente.
A fianco di Franz, Saul mormorò, in tono di preghiera: — E adesso, Calpurnia, in nome di Bach e di Sigmund Freud, fagli vedere di cosa sei capace.
— E in nome di Pitagora — aggiunse Gunnar con un filo di voce.
La musica dolce e ondeggiante degli archi e degli strumenti a fiato dalla voce sommessa e suadente avvolse Franz. Per la prima volta dopo l’escursione a Corona Heights, si sentì completamente al sicuro, tra i suoi amici, fra le braccia del suono ben ordinato, come se la musica fosse un piccolo paradiso di cristallo che li circondava, una perfetta barriera contro le forze paranaturali.
Ma poi intervenne il clavicembalo, con toni di sfida, scacciando la tentazione di lasciarsi scivolare nel sonno cullato, con i suoi nastri di suono scintillanti e frementi che ponevano domande e chiedevano gaiamente e inflessibilmente una risposta. Il clavicembalo disse inequivocabilmente a Franz che anche la sala da concerto era una fuga, non diversa da tutto ciò che gli era stato proposto da Byers in Beaver Street.
Prima di rendersi conto di ciò che stava facendo, anche se ormai sapeva bene ciò che provava, Franz si alzò in piedi, a spalle curve, e passò davanti a Saul, perfettamente consapevole (e tuttavia noncurante) delle ondate di scandalo, di protesta e d’indignazione concentrate silenziosamente su di lui da parte del pubblico… o almeno, così gli sembrava che fosse.
Si fermò solo per accostare le labbra all’orecchio di Saul e dirgli, sottovoce ma chiaramente: — Riferisci a Cal, dopo che avrà suonato il brandeburghese, che la sua musica mi ha imposto di andare a cercare la soluzione dell’enigma del Rodi 607. — E poi passò oltre, in fretta, sfiorando leggermente col dorso della mano sinistra la schiena degli ascoltatori per raddrizzarsi mentre passava, e tenendo la mano destra, come uno scudo, tra sé e le persone cui passava davanti.
Quando arrivò in fondo alla fila, si voltò e vide che la faccia accigliata e pensierosa di Saul, incorniciata dai lunghi capelli bruni, era rivolta verso di lui. Poi risalì in fretta la corsia, in mezzo alle file ostili, sospinto (come da una frusta incrostata di migliaia di minuscoli diamanti) dalla musica del clavicembalo, che non esitava mai. Tenne lo sguardo fisso davanti a sé.
Si chiese perché aveva detto “l’enigma del Rodi 607” e non “l’enigma della reale esistenza dei paramentali”; ma poi si rese conto che l’aveva fatto perché la stessa Cal aveva formulato più volte quell’interrogativo, e perciò avrebbe capito. Era importante che lei comprendesse che lui stava lavorando.
Provò la tentazione di voltarsi per lanciarle un’ultima occhiata, ma riuscì a resistere.