Franz si sentiva come, secondo lui, doveva sentirsi un pugile suonato. I suoi occhi e le sue orecchie stavano ancora in guardia, pronti a seguire il minimo suono e il minimo movimento, ma stancamente, quasi con riluttanza, lottando contro la tentazione di arrendersi. Nonostante tutti i traumi e le sorprese di quella giornata, la sua mente serale (asservita alla biochimica del suo corpo) stava prendendo il sopravvento. Presumibilmente, Fernando era andato in qualche posto (ma perché? a prendere cosa?) e alla fine sarebbe tornato, come aveva fatto capire: ma quando? e ancora, perché? In verità, a Franz non importava molto. Quasi automaticamente, cominciò a mettere un po’ d’ordine.
Poco dopo si sedette con un sospiro di stanchezza sull’orlo del letto e guardò il tavolino incredibilmente ingombro, chiedendosi da dove poteva cominciare. Sul fondo, ben ordinato, c’era il suo lavoro in corso, che da due giorni non guardava né degnava di un solo pensiero. I segreti del sovrannaturale… Che ironia! Sopra c’erano il telefono, il binocolo rotto, il grosso portacenere traboccante e annerito (ma non fumava da quando era rientrato, quella sera, e adesso non ne aveva voglia), la scacchiera con metà dei pezzi in posizione, e accanto la lavagna piatta con i gessetti, i prismi, e alcuni pezzi degli scacchi catturati, e infine i bicchieri e la bottiglia quadrata di Kirschwasser, ancora stappata, dove lui l’aveva posata dopo avere offerto da bere a Fernando per l’ultima volta.
A poco a poco, quella confusione cominciò ad apparire bizzarramente buffa ai suoi occhi, e del tutto irrimediabile. Sebbene i suoi occhi e le sue orecchie continuassero la loro sorveglianza automatica, quasi gli veniva da ridere. La sua mente, alla sera, aveva invariabilmente un lato sciocco, una tendenza ai giochi di parole e a mescolare tra loro le frasi fatte, e agli epigrammi un po’ folli: un’ilarità che nasceva dalla stanchezza. Ricordava con che precisione lo psicologo F.C. McKnight aveva descritto la transizione dalla veglia al sonno. I brevi passi logici diurni della mente si allungano a poco a poco, e ogni balzo mentale è un po’ più strano e pazzo, fino a quando (senza mai un’interruzione) arrivano i salti giganteschi, del tutto imprevedibili, e allora si sogna.
Prese la carta topografica della città, che aveva lasciato aperta sul letto, e senza ripiegarla la depose come una coperta sopra il caos del tavolino.
— Dormi, piccolo mucchio di ciarpame — disse con tenerezza e ironia.
E posò sopra la carta la riga che aveva usato, come un mago che depone la bacchetta incantata.
Poi (mentre gli occhi e le orecchie continuavano il servizio di guardia) si voltò a mezzo verso la parete su cui Fernando aveva tracciato col gesso la stella e cominciò a mettere a letto anche i suoi libri, come aveva fatto con le cianfrusaglie sul tavolino, a sistemare la sua Amante dello Studioso. Un’operazione casalinga, tra cose familiari, che era l’antidoto ideale anche per le paure più folli.
Sulle pagine ingiallite e ossidate di Megalopolisomanzia (la parte che parlava dell’“elettromefitica sostanza della città”) posò delicatamente il diario di Smith, aperto al punto della maledizione.
— Sei molto pallida, mia cara — osservò (si riferiva alla carta di riso). — Eppure la parte sinistra del tuo volto ha tutti quegli strani nei neri, un’intera pagina. Sogna una bella festa satanista in abito da sera, tutto bianco e nero come Marienbad, in una sala da ballo color crema con agili levrieri russi color panna che si aggirano come cerimoniosi ragni giganti.
Toccò una spalla che era formata soprattutto dall’Outsider di Lovecraft, con le pagine vecchie di quarant’anni (carta Winnebago Eggshell) aperte a La cosa sulla soglia. Mormorò alla sua amante: — Adesso non svenire sulla soglia, cara, come l’infelice Asenath Waite. Ricorda, tu non hai otturazioni dentarie (che io sappia) che permettano di identificarti con sicurezza. — Diede un’occhiata all’altra spalla. Copie di Wonder Stories e di Weird Tales, sciupate e prive di copertina, con in cima L’esumazione di Venere di C.A. Smith. — Quello è un modo molto migliore di andarsene — commentò. — Tutto marmo rosa sotto i vermi e la putredine.
Il petto era il monumentale volume della Lettland, appropriatamente aperto al capitolo misterioso e provocatorio: “Mistica mammaria: freddo come…” Pensò alla strana scomparsa dell’autrice femminista, avvenuta a Seattle. Nessuno avrebbe mai conosciuto il resto dei suoi lavori.
Passò le dita sulla vita piuttosto snella, nera e screziata di grigio, formata dai racconti di spettri di James: su quel libro, un giorno, era piovuto a rovesci, e poi il volume era stato asciugato laboriosamente, pagina per pagina, ma era rimasto raggrinzito e scolorito… Raddrizzò un poco l’annuario sottratto alla biblioteca (che rappresentava i fianchi), ancora aperto alla sezione Alberghi, e disse a bassa voce: — Ecco, così starai più comoda. Sai, cara amica, adesso sei doppiamente Rodi 607. — E si chiese, piuttosto intontito, cos’aveva inteso dire con quelle parole.
Sentì l’ascensore fermarsi al piano, e le porte aprirsi, ma non l’udì ripartire. Aspettò, teso, ma non bussarono alla sua porta, non ci furono passi nel corridoio. Attraverso la parete, da chissà dove, venne il tonfo leggero di una porta ostinata che veniva aperta o chiusa con discrezione, e poi più nulla.
Franz toccò Il glifo del ragno nel tempo, che stava subito sotto l’annuario. Prima, quel giorno, la sua Amante dello Studioso stava distesa prona, ma adesso giaceva sul dorso. Per un momento si chiese (cos’aveva detto, la Lettland?) perché i genitali esterni femminili venivano paragonati a un ragno. Il ciuffo tentacolato dei peli? La bocca che si apriva verticalmente come le mandibole di un ragno, anziché orizzontalmente come le labbra del volto umano e le labbra nascoste delle cinesi nelle leggende dei vecchi marinai? Il vecchio Santos-Lobos, squassato dalla febbre, suggeriva che la cosa riguardava il tempo richiesto per tessere una ragnatela, l’orologio del ragno. E che nicchia deliziosa, per una ragnatela!
Le sue dita, lievi come piume, passarono su Knochenmädchen in Pelze (mit Peitsche): altre pelosità scure, che adesso si mutavano nelle soffici pellicce che avvolgevano le fanciulle-scheletro, e Ames et fantômes de douleur, l’altra coscia. De Sade (o il suo imitatore postumo), stancatosi della carne, aveva cercato davvero di far urlare la mente e singhiozzare gli angeli: “lo spettro del dolore” divenuto “i dolori degli spettri”.
Quel libro, insieme a Fanciulle-scheletro in pelliccia (con frusta), lo indusse a pensare che, sotto le sue mani ansiose, c’era una gran quantità di morti. Lovecraft era morto piuttosto in fretta nel 1937, scrivendo ostinatamente fino all’ultimo, prendendo appunti sulle sue ultime sensazioni (chissà se aveva visto i paramentali, allora?). Smith se n’era andato più lentamente un quarto di secolo dopo, col cervello rosicchiato da piccoli colpi apoplettici. Santos-Lobos, bruciato dalle febbri e ridotto a una brace pensante. E la Lettland, quando era scomparsa, era morta? E poi Montague (il suo Burocrazia bianca formava un ginocchio, però la carta stava ingiallendo), soffocato da un enfisema mentre stava ancora scrivendo appunti sulla nostra cultura autosoffocante.
La morte e la paura della morte! Franz ricordava quanto l’aveva depresso Il colore venuto dallo spazio di Lovecraft, quando l’aveva letto, da adolescente: l’agricoltore del New England e i suoi familiari che marcivano vivi, avvelenati da sostanze radioattive provenienti dai confini dell’universo. Ma nello stesso tempo era un racconto così affascinante. Cos’era tutta la letteratura dell’orrore soprannaturale se non un tentativo di rendere più emozionante la stessa morte… di estendere la stranezza e la meraviglia fino al termine stesso della vita? Ma mentre pensava questo, si rendeva conto di essere stanchissimo. Stanco, depresso, con pensieri morbosi… Gli aspetti sgradevoli della sua mente serale, la faccia buia della medaglia.
E a proposito di oscurità, dove stava Nostra Signora delle Tenebre? (Suspiria de profundis formava l’altro ginocchio, e De profundis un polpaccio. “Cosa pensi di lord Alfred Douglas, mia cara? Ti eccita? io credo che Oscar fosse anche troppo, per lui.”) La torre della TV, là fuori, era la statua di Nostra Signora delle Tenebre? Era abbastanza alta e turrita. La notte era “il suo triplice velo nero”? E le diciannove luci rosse, fisse o lampeggianti, “la luce abbagliante di un’ardente infelicità?” Be’, lui era infelice per due. Doveva farla ridere. Vieni, dolce notte, e avviluppami.
Finì di assestare la sua Amante dello Studioso: L’occulto subliminale del professor Nostìg (“Hai liquidato la foto Kirlian, dottore, ma ci riusciresti col paranaturale?”), le copie di Gnostica (qualche relazione col professor Nostig?), Il caso Mauritius (Etzel Andergast aveva visto i paramentali a Berlino? e Waramme altri, più fumosi, a Chicago?), Ecate, o il futuro della stregoneria di Yeats (“Perché hai fatto distruggere quel libro, William Butler?”) e Viaggio al termine della notte (“I tuoi piedini, cara”). Poi, stancamente, si sdraiò accanto a lei, ancora ostinatamente vigile, pronto a captare il minimo suono, il minimo movimento sospetto. Ricordò che di notte tornava sempre da lei, come se fosse una moglie vera, o almeno una donna, per rilassarsi dopo tutte le tensioni, le prove e i pericoli (ricorda che sei ancora in pericolo!) della giornata.
Pensò che probabilmente avrebbe potuto ancora ascoltare il quinto concerto brandeburghese se si fosse alzato e fosse corso alla sala da concerto, ma era troppo inerte per muoversi… per fare qualcosa di più che rimanere sveglio, di guardia, fino al ritorno di Cal e Gunnar e Saul…
La luce accanto alla testata del letto fluttuò un poco, affievolendosi e poi ravvivandosi bruscamente, e poi affievolendosi di nuovo, come se la lampadina fosse ormai molto vecchia; ma lui era troppo stanco per alzarsi e andare a cambiarla o ad accenderne un’altra. E poi non voleva che la sua finestra fosse troppo illuminata, perché qualcosa poteva vederla, da Corona Heights. (Forse era ancora lassù, invece di essere lì in casa sua: chi poteva saperlo?)
Notò un fioco chiarore intorno ai bordi della finestra: la luna gibbosa, che scendeva verso ovest, cominciava finalmente a sbirciare dall’alto, passando oltre il grattacielo a sud. Franz provò l’impulso di alzarsi e di dare un’ultima occhiata alla torre della TV, di dare la buonanotte alla sua snella dea alta trecento metri e circondata dalla luna e dalle stelle, di mettere a letto anche lei, per così dire, e come se si trattasse di recitare le preghiere: ma la stanchezza glielo impedì. E poi non voleva farsi vedere da Corona Heights, né guardare ancora la tenebrosa macchia di quella collina.
Adesso la luce accanto alla testata del letto splendeva regolarmente, ma sembrava un poco più fioca di prima della fluttuazione, oppure era soltanto un annebbiamento dovuto alla sua mente serale?
Adesso non pensarci. Dimentica tutto. Il mondo era un posto schifoso. La città era un caos, con i suoi grattacieli appariscenti, le sue costruzioni vistose e prive di valore… “Torri del tradimento”, appunto. Era tutto crollato e bruciato nel 1906 (almeno, tutto quello che c’era intorno al suo palazzo), e tra poco sarebbe accaduto ancora, e tutte le scartoffie sarebbero finite nelle macchine tranciadocumenti, con o senza l’aiuto dei paramentali. (E Corona Heights, gobba, color terra d’ombra, non si stava muovendo anche adesso?) E il mondo intero era nelle stesse condizioni, stava morendo d’inquinamento, annegava e soffocava tra veleni atomici e chimici, tra detersivi e insetticidi, miasmi industriali, fumi, fetore d’acido solforico, quantità di acciaio e cemento e alluminio sempre lucidi, plastiche eterne, carta onnipresente, fiumi di gas e di elettricità… Davvero, l’elettromefitica sostanza delle città! Anche se il mondo non aveva bisogno del paranaturale, per morire. Era già nero e canceroso, come la famiglia di contadini di Lovecraft uccisa dalle strane sostanze radioattive di una meteora venuta dai confini del nulla.
Ma non finiva lì. (Franz si accostò maggiormente alla sua Amante dello Studioso.) Il male elettromefitico si diffondeva, si era diffuso (era andato in metastasi) da questo mondo a ogni luogo. L’universo era inguaribilmente malato: sarebbe morto termodinamicamente. Perfino le stelle erano contagiate. Chi pensava che quei punti luminosi significassero qualcosa? Che cos’erano se non uno sciame di moscerini della frutta, fosforescenti e momentaneamente immobilizzati in uno schema del tutto casuale intorno a un pianeta-spazzatura?
Franz si sforzò di “ascoltare” il quinto concerto brandeburghese che Cal stava suonando. Gli adamantini torrenti (immensamente variati e infinitamente ordinati) dei suoni strappati dai plettri di penne d’oca, che ne facevano il padre di tutti i concerti per piano. La musica ha il potere di liberare le cose, aveva detto Cal, di farle volare. Forse avrebbe spezzato la sua tetraggine. Le campanelle di Papageno erano magiche… ed erano una protezione contro la magìa. Ma, anche se tese l’orecchio, intorno lui tutto era silenzio.
A cosa serviva la vita, tanto? Lui era guarito faticosamente dall’alcolismo solo per ritrovarsi di fronte la Senza Naso con una maschera nuova, triangolare. Fatica sprecata, si disse. Anzi, avrebbe teso la mano per prendere la bottiglia quadrata ancora quasi piena di liquore amaro e pungente; ma era troppo stanco per compiere quello sforzo. Era un vecchio sciocco, se pensava che Cal si curasse di lui; sciocco quanto Byers, con la sua sgualdrina cinese e le sue minorenni, il suo pazzo paradiso di cherubini sexy pronti a palparlo con le esili dita.
Lo sguardo di Franz vagò sul volto del ritratto di Daisy, circondato dall’oscurità, ridotto dalla prospettiva a due occhi socchiusi e a una bocca contratta in una smorfia sopra il mento appuntito.
In quel momento cominciò a sentire un lievissimo fruscio nel muro, come quello di un ratto molto grosso che si sforzasse di non far rumore. Da che distanza veniva? Non riusciva a capirlo. Com’erano i suoni che annunciavano un terremoto? Solo i cavalli e i cani potevano udirli. Poi ci fu un brusìo più forte, poi nient’altro.
Ricordò il sollievo che aveva provato quando il cancro aveva lobotomizzato il cervello di Daisy e lei aveva raggiunto lo stadio presumibilmente insensibile della vita vegetativa (“effetto piatto”, lo chiamavano i neurologi, quando la casa luminosa della mente diveniva uno squallido appartamento senza luce e dai soffitti bassi) e la necessità di anestetizzarsi con l’alcool era diventata per lui un po’ meno incalzante.
La luce dietro la sua testa sfolgorò per un istante, palpitò e si spense. Franz cercò di sollevarsi a sedere, ma faticò a muovere un dito. L’oscurità, nella stanza, assunse forme simili alle Immagini Nere della stregoneria, dei prodigi sbalorditivi e degli orrori olimpici che Goya aveva dipinto esclusivamente per se stesso nella vecchiaia: modo quanto mai adatto per decorare una casa. Il suo dito sollevato si mosse vagamente verso la stella di Fernando, poi ricadde. Un leggero singhiozzo si formò e svanì nella sua gola. Si avvicinò di più all’Amante dello Studioso, toccandole con le dita la spalla lovecraftiana. Pensò che lei era l’unica persona che aveva. La tenebra e il sonno si chiusero su di lui, senza far rumore.
Il tempo passò.
Franz sognò l’oscurità assoluta, e un grande rumore bianco, crepitante, squarciante, come di infiniti fogli che venivano accartocciati, di decine di libri che venivano strappati nello stesso istante, con le copertine rigide dilaniate e schiacciate… un pandemonio cartaceo.
Ma forse non era un rumore tanto forte (solo il suono del Tempo che si schiariva la gola), perché subito dopo ebbe l’impressione di svegliarsi tranquillamente in due stanze, quella vera e quella del sogno. Cercò di unificarle. Daisy giaceva serenamente accanto a lui. Erano entrambi molto felici. Avevano parlato, quella notte, e tutto andava bene. Le sottili dita di Daisy, seriche e asciutte, gli toccavano la guancia e il collo.
Con un freddo tuffo al cuore, gli giunse il sospetto che lei era morta. Ma le dita si mossero, rassicuranti. Sembrava quasi che fossero troppo numerose. No, Daisy non era morta, ma era molto malata. Era viva, ma in uno stadio vegetativo, misericordiosamente placata dal male. Stare sdraiato accanto a lei era orribile e tuttavia ancora un conforto. Come Cal, era così giovane, anche in quella semi-morte. Le sue dita erano così esili e seriche e asciutte, così forti e numerose, e tutte cominciavano a stringere… Non erano dita ma sottili liane nere radicate nel cranio e uscivano a profusione dalle orbite cavernose, sgorgavano lussureggianti dal foro triangolare fra l’osso nasale e il vomere, uscivano come tentacoli dai denti superiori bianchissimi, premevano insidiose e insistenti, come l’erba che spunta dalle crepe del marciapiede, scaturendo dal cranio pallido, squarciando le squamose suture sagittali e temporali.
Franz si levò a sedere con un sussulto convulso, soffocato, con il cuore che gli batteva forte e il sudore freddo che gli imperlava la fronte.