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Nel corridoio, Franz passò davanti alla porta nera, priva di maniglia, dello stanzino delle scope, in disuso da anni, e allo sportello, chiuso con il lucchetto, di un vecchio scivolo per la biancheria o di un montacarichi (nessuno ricordava che cosa fosse, esattamente), e alla grande porta dorata dell’ascensore con accanto la strana finestra nera; scese le scale protette da una passatoia rossa, che scendevano da un piano all’altro con rampe ad angolo retto, sei gradini, poi tre, poi sei, intorno alla tromba rettangolare, sormontata dal lucernario sporco, due piani sopra il suo.

Non si fermò al piano di Gunnar e Saul, il quinto, quello sotto il suo, ma si limitò a dare un’occhiata alle loro porte, l’una di fronte all’altra, situate accanto alle scale, e poi scese al quarto piano.

A ogni pianerottolo vide le stesse finestre nere che non si potevano aprire, le stesse porte nere senza maniglia, nei corridoi vuoti dalla passatoia rossa. Era strano: i vecchi edifici avevano spazi segreti che non erano esattamente nascosti, ma che non venivano mai presi in considerazione, come i cinque pozzi di ventilazione del suo, con le finestre dipinte di nero (chissà quando) per nascondere la sporcizia, e i ripostigli delle scope caduti in disuso, che avevano perso la loro funzione quando non era più stato possibile trovare domestiche a basso costo, e, negli zoccoli delle pareti, le aperture rotonde, rigorosamente tappate, del sistema aspirapolvere generale che sicuramente non veniva più usato da decenni. Franz pensava che nessuno, in quell’edificio, li vedesse mai consapevolmente, tranne lui, che era stato da poco richiamato alla realtà dalla torre TV e da tutto il resto. Quel giorno, lo fecero pensare per un momento ai vecchi tempi in cui quel palazzo era probabilmente un piccolo hotel, con i fattorini dalla faccia di scimmia e le cameriere che nella fantasia di Franz dovevano essere francesi, con gonne corte e risate sommesse e maliziose (ma che più probabilmente erano chissà che sguattere sciatte, commentò la sua ragione). Bussò al 407.

Era una delle giornate in cui Cal aveva l’aria di una seria studentessa diciassettenne, coronata di lievi sogni, e non della donna di ventisette anni che era in realtà. Capelli lunghi e scuri, occhi azzurri, sorriso sereno. Erano andati a letto due volte, ma ora non si baciarono: sarebbe parso presuntuoso da parte di lui, perché Cal non si offerse di farlo, e del resto Franz non aveva ancora deciso di impegnarsi fino in fondo in quella relazione.

Cal lo invitò a entrare e a fare colazione con lei. Benché identica a quella di Franz, la stanza di Cal sembrava molto più bella, addirittura troppo per quel palazzo; lei l’aveva riverniciata completamente, con l’aiuto di Gunnar e di Saul. Però, da quel piano non si godeva di nessuna vista. C’erano un leggìo per gli spartiti, accanto alla finestra, e un organo elettronico che era costituito quasi unicamente dalla tastiera e che aveva anche una cuffia per fare esercizio senza disturbare, oltre agli altoparlanti.

— Sono sceso perché ho sentito che hai messo Telemann — disse Franz.

— Forse l’ho fatto apposta per chiamarti — rispose con disinvoltura la ragazza, indaffarata con i fornelli e il tostapane. — La musica ha una sua magìa, sai?

— Pensi al Flauto magico? — chiese lui. — Tu saresti capace di trasformare in un flauto magico anche un registratore.

— In tutti gli strumenti a fiato c’è una magìa — gli assicurò Cal. — Dicono che Mozart abbia cambiato la storia del Flauto magico quando era già arrivato a metà, perché era simile a quella di un’opera concorrente, Il fagotto incantato.

Franz rise e disse: — Le note musicali, comunque, posseggono almeno un potere sovrannaturale. Possono levitare, salire nell’aria. Anche le parole possono farlo, naturalmente, ma meno bene.

— E come fai a saperlo? — chiese lei, girando la testa.

— L’ho scoperto nei cartoon e nelle vignette — spiegò Franz. — Le parole hanno bisogno di essere sostenute da un fumetto, ma le note si alzano in volo da sole, dal pianoforte o da quel che è.

— Hanno piccole ali nere — rifletté lei. — Perlomeno le crome e le note ancor più brevi. Ma quel che dici è vero. La musica è in grado di volare, è assoluta libertà, e riesce a liberare anche le altre cose, le fa volare e danzare.

Franz annuì. — Vorrei che tu liberassi le note della tua tastiera, comunque, e che le lasciassi danzare fino a me, quando ti eserciti al clavicembalo — disse, indicando lo strumento elettronico — invece di tenerle chiuse nella cuffia.

— Tu saresti l’unico ad apprezzare la cosa.

— Ci sono Gunnar e Saul.

— Le loro stanze sono in un’altra colonna. E, poi, anche tu ti stuferesti di scale e arpeggi.

— Non esserne tanto sicura — disse Franz. Poi aggiunse, per stuzzicarla: — Ma forse le note del clavicembalo sono troppo metalliche per fare magìa.

— Detesto questa definizione — rispose lei — comunque ti sbagli. Anche con le note metalliche (bah!) si può fare della magìa. Ricorda le campanelle di Papageno: nel Flauto magico la magìa assume varie forme.

Mangiarono i toast e le uova, bevvero il succo d’arancia. Franz parlò a Cal della sua decisione di spedire il manoscritto delle Torri del tradimento così com’era.

— Così, i miei lettori continueranno a ignorare il rumore fatto da una macchina distruggidocumenti quando lavora, ma che importa? Ho visto il programma alla televisione, ma quando il mago dei satanisti ha infilato nella macchina la pergamena con le rune magiche, hanno fatto uscire del fumo, che mi sembra una soluzione un po’ stupida.

— Sono contenta di sentirtelo dire — osservò lei, irritata. — Ti sforzi troppo di dare una logica a quel programma cretino. — Poi sorrise. — Comunque, forse hai ragione tu. In parte è dovuto al fatto che cerchi sempre di fare del tuo meglio in tutto, ed è per questo che ti giudico un vero professionista.

Franz sentì un’altra fitta di rimorso, ma riuscì facilmente a vincerla.

Mentre Cal gli versava un’altra tazza di caffè, lui disse: — Mi è venuta una bella idea. Andiamo a Corona Heights, oggi. Da lassù si dovrebbe vedere bene il panorama del centro e della baia interna. C’è il tram per quasi tutto il tragitto, e poi non dovrebbe rimanere molto da arrampicarsi.

— Dimentichi che devo esercitarmi per il concerto di domani sera. E, poi, non posso rischiare di rovinarmi le mani — rispose lei, in tono di leggero rimprovero. — Ma non lasciarti fermare da me — aggiunse, con un sorriso, come per chiedergli scusa. — Perché non chiedi a Gunnar o a Saul di accompagnarti? Credo che oggi siano a casa. E Gunnar è abilissimo, se c’è da arrampicarsi. Dov’è Corona Heights?

Franz glielo riferì, e si ricordò che l’amore di Cal per San Francisco non era fresco e appassionato come il suo: lui aveva lo zelo del neofita.

— Dev’essere vicino al Buena Vista Park — commentò Cal. — Non andare a spasso da quelle parti, ti prego. Ci sono stati alcuni delitti, recentemente. Qualche regolamento di conti, legato al mondo della droga. L’altro lato del Buena Vista è vicinissimo all’Haight.

— Non ne ho alcuna intenzione — la rassicurò lui. — Anche se forse sei un po’ troppo prevenuta nel giudicare l’Haight. Si è calmato molto, negli ultimi anni. Anzi, questi due libri li ho comprati proprio laggiù, in una di quelle favolose librerie antiquarie.

— Oh, sì, mi avevi promesso di mostrarmeli — disse lei.

Franz le porse quello che stava aperto sul tavolino, e spiegò: — È uno dei più affascinanti libri di pseudo scienza che abbia mai visto: ci sono delle ispirazioni davvero geniali, in mezzo alle idiozie. Manca la data, ma dev’essere stato pubblicato attorno al 1900, secondo me.

Megalopolisomanzia — pronunciò Cal, leggendo con attenzione le sillabe. — Che cosa vuol dire? Predire il futuro mediante… mediante la lettura delle città?

— La lettura delle grandi città — corresse lui, con un cenno d’assenso.

— Già, il “mega”.

Franz proseguì: — Predire il futuro e varie altre cose. E, a quanto pare, servirsi di questa conoscenza per fare magìa. Anche se De Castries la definisce “una nuova scienza”, come se lui fosse un altro Galileo. Comunque, De Castries era molto preoccupato per gli “immensi quantitativi” di acciaio e di carta che si accumulano nelle grandi città. E per l’“olio di carbone” (gasolio) e per il gas naturale. E anche per l’elettricità, benché la cosa appaia incredibile, perché calcola accuratamente tutta l’elettricità che c’è in tante migliaia di chilometri di filo, e quante migliaia di tonnellate di gas da illuminazione ci sono nei gasometri, quanto acciaio nei nuovi grattacieli, quanta carta negli archivi statali e nei giornali scandalistici e così via.

— Oh poveri noi! — commentò Cal. — Chissà cosa direbbe, se vivesse al giorno d’oggi.

— Che si sono realizzate le sue predizioni più allarmanti, senza dubbio. Lui ha fatto ipotesi sulla crescente minaccia delle automobili e della benzina, ma soprattutto delle auto elettriche, che portano in giro, nelle batterie, secchi e secchi di corrente continua. Ed è andato assai vicino a prevedere il nostro problema dell’inquinamento: parla addirittura della “vasta congerie di giganteschi tini fumiganti” pieni di acido solforico, occorrenti per la fabbricazione dell’acciaio.

“Ma la cosa che lo preoccupava di più erano gli effetti psicologici o spirituali (lui li chiama ‘paramentali’) di tutto quel che si accumula nelle grandi città, della sua pura e semplice massa, solida e liquida.”

— Un vero hippy ante-litteram — osservò Cal. — E che razza di persona era? Dove abitava? Che cos’altro faceva?

— Nel libro non c’è nessuna indicazione di queste cose — rispose Franz — e in biblioteca non ho trovato nessun riferimento a lui. Nel libro parla spesso del New England e della costa orientale del Canada, e anche di New York, ma solo in generale. Parla di Parigi (ce l’aveva con Parigi per via della torre Eiffel) e della Francia, e cita anche l’Egitto.

Cal annuì. — E che cos’è l’altro libro?

— Una cosa molto interessante — disse Franz, porgendoglielo. — Come vedi, non è un libro vero e proprio, ma un diario di fogli bianchi, di carta di riso, sottile come la carta velina, ma più opaca, rilegato in tessuto di seta a coste che doveva essere color rosa tea, prima di sbiadire. Gli appunti, scritti con una stilografica dalla punta molto fine, e con un inchiostro viola, occupano circa un quarto del volume. Le altre pagine sono in bianco. Quando li ho comprati, i due libri erano legati insieme con un vecchio pezzo di spago. Dovevano essere rimasti così per decenni: vedi, ci sono ancora i segni.

— Già — riconobbe Cal. — Dal 1900, allora. Che bel diario, mi piacerebbe averne uno identico.

— Vero, eh? Comunque, non possono averli uniti prima del 1928. Un paio di annotazioni portano la data, e sembra che l’intero diario sia stato compilato nel giro di qualche settimana.

— Era un poeta? — chiese Cal. — Vedo qui delle righe della stessa lunghezza. E sai chi fosse? Il vecchio De Castries?

— No, non era De Castries, anche se era una persona che lo conosceva e che aveva letto il suo libro. Ma credo anch’io che fosse un poeta. Anzi, penso di avere scoperto chi fosse, anche se non è facile averne la certezza, perché non mette mai la firma. Ma doveva essere Clark Ashton Smith.

— È un nome che ho già sentito — disse Cal.

— Probabilmente, l’avrai sentito da me — ammise Franz. — Anche lui scriveva storie di orrore sovrannaturale. Racconti ricchissimi e tragici: cineserie alla maniera delle Mille e una notte. Un’atmosfera tra l’ironico e il macabro, come quella del libro Death’s Jest-Book, di Beddoes. Viveva non lontano da San Francisco e conosceva il vecchio circolo di artisti locali. Una volta è andato a trovare George Sterling a Carmel, e potrebbe essersi trovato qui a San Francisco nel 1928, quando cominciava a scrivere le sue storie migliori.

“Ho fatto una fotocopia del diario e l’ho data a Jaime Donaldus Byers, che è un esperto sulla figura di Smith e che abita qui a Beaver Street. Che, a proposito, è proprio vicino a Corona Heights, l’ho visto sulla cartina. Lui l’ha fatta vedere a De Camp, che la ritiene veramente di Smith, e a Roy Squires, che non ne è tanto sicuro. Byers non sa cosa dire. A quel che afferma, non ci sono prove che Smith si sia fermato così a lungo a San Francisco in quel periodo, e anche se la scrittura assomiglia effettivamente a quella di Smith, è molto più agitata dei campioni in suo possesso. Però, io ho l’impressione che Smith abbia tenuto segreto il viaggio, e che in quel periodo avesse dei buoni motivi per essere un po’ agitato.”

— Oh! — disse Cal. — Vedo che hai preso davvero a cuore la cosa. Ma ti capisco. È très romantique già solo tenere in mano questo diario con la sua seta a coste e la sua carta di riso.

— Avevo una ragione speciale per farlo — rispose Franz, e, senza accorgersene, abbassò un poco la voce. — Ho trovato i due volumi quattro anni fa, devi sapere, prima di venire ad abitare qui, e ho letto molte volte il diario. La persona che scriveva con l’inchiostro viola (chiunque fosse, io resto convinto che sia Smith) parla di essere andato a “trovare Tiberius, al Rodi 607”. In realtà, il diario si limita a riferire i loro discorsi. Quel “Rodi 607” mi era rimasto impresso nella mente, e così, quando ho cercato un alloggio più economico e mi hanno fatto vedere la stanza…

— Ma certo, è il numero del tuo appartamento, il 607 — lo interruppe Cal.

Franz annuì. — Sì, ho avuto come l’impressione che la cosa fosse predestinata, o preparata in qualche modo misterioso. Come se avessi avuto il compito di cercare quel “Rodi 607” e l’avessi trovato. A quell’epoca avevo un mucchio di misteriose idee da ubriaco e non sempre sapevo che cosa facessi o dove fossi: per esempio, ho dimenticato dov’era esattamente la favolosa libreria dove ho trovato i due volumi, e anche il suo nome, ammesso che l’avesse. A dire il vero, a quell’epoca ero quasi sempre ubriaco, punto e basta.

— Certo — confermò Cal. — Anche se eri un ubriaco piuttosto tranquillo. Io, Saul e Gunnar ci chiedevamo chi eri, e assediavamo di domande Dorotea Luque e Bonita — aggiunse, riferendosi alla custode peruviana del palazzo e alla figlia di tredici anni. — Ma anche allora non sembravi uno come tutti gli altri. Dorotea ci ha riferito che scrivevi “ficción che metteva paura, che parlava di espectros y fantasmas y los muertos y las muertas”, ma che secondo lei eri un vero signore.

Franz rise. — Spettri e fantasmi di morti, che idee tipicamente spagnole! Comunque, scommetto che non avresti mai pensato…

— Che un giorno mi sarei infilata nel tuo letto? — terminò Cal. — Non esserne troppo sicuro. Ho sempre avuto fantasie erotiche sugli uomini più vecchi di me. Ma, dimmi, come ha fatto la tua strana mentalità di allora a spiegare la faccenda di Rodi?

— Non se l’è mai spiegata — ammise Franz — anche se sono convinto che l’uomo dall’inchiostro viola avesse in mente un luogo ben preciso, a parte l’ovvia allusione a Tiberio, esiliato da Augusto nell’isola di Rodi, dove il futuro imperatore ebbe modo di studiare, oltre alla retorica, anche le perversioni sessuali e un po’ di stregoneria. Tra l’altro, il diarista dall’inchiostro viola non scrive sempre “Tiberius”. Qualche volta è Theobald o Tybalt, e una volta è anche Thrasillus, che era l’indovino e il mago personale di Tiberio. Ma il “Rodi 607” non manca mai. Una volta c’è Theudebaldo e una volta Dietbold, ma ben tre volte c’è Thibaut, ed è questo a darmi la certezza, oltre a tutto il resto, che la persona che Smith andava a trovare quasi tutti i giorni, per poi parlarne nel diario, era proprio De Castries.

— Franz — disse Cal — tutto questo è davvero affascinante, ma io devo cominciare a esercitarmi. Provare il clavicembalo su un microscopico organo elettronico è già abbastanza dura, e domani sera non è una cosa da ridere, è il quinto brandeburghese.

— Scusa, me n’ero dimenticato. Mi sono comportato da zotico, da maschio sciovinista… — cominciò Franz, alzandosi.

— Adesso, non farne una tragedia — disse Cal, allegramente. — Tutto quel che mi hai raccontato era davvero interessante, ma adesso devo lavorare. Ecco, prendi la tua tazza e anche i tuoi libri, per l’amor di Dio, altrimenti mi metterò a sfogliarli invece di studiare. Sorridi, almeno non sei un porco maschio sciovinista, visto che ti sei accontentato di un solo toast.

“E, Franz — lo chiamò ancora. Lui, con le sue cose in mano, era arrivato alla porta. Si voltò. — Fa’ attenzione, dalle parti di Beaver e del Buena Vista. Fatti accompagnare da Saul o da Gunnar. E ricorda…” Invece di terminare, si portò due dita alle labbra e poi le tese verso di lui per un istante, guardandolo negli occhi con grande serietà.

Lui sorrise, le rivolse un cenno d’assenso con la testa, poi un altro, e si allontanò, felice ed eccitato. Ma, nel chiudersi la porta alle spalle, decise che, indipendentemente dal fatto di andare a Corona Heights, non avrebbe chiesto a nessuno dei due amici di accompagnarlo: era una questione di coraggio, o almeno di indipendenza. No, quel giorno doveva essere un’avventura tutta sua. Maledizione ai siluri, dunque, e avanti tutta!

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