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Nel corridoio davanti alla porta di Cal si potevano scorgere gli stessi elementi che caratterizzavano il corridoio del piano di Franz: la finestra del condotto di ventilazione dipinta di nero, la porta priva di maniglia dello sgabuzzino, la porta verniciata d’oro opaco dell’ascensore, e la presa dell’aspirapolvere, a filo terra, chiusa da un tappo a pressione: un residuo dell’epoca in cui il motore dell’unico impianto dell’intero edificio era in cantina, e la cameriera si limitava a maneggiare un lungo tubo che terminava in una spazzola.

Ma prima che Franz, incamminatosi lungo il corridoio, li avesse oltrepassati tutti, sentì giungere, da davanti a lui, una risatina allegra, uguale a quella che, secondo lui, dovevano avere le sue cameriere immaginarie. Poi alcune parole che non riuscì a distinguere, pronunciate da un uomo, rapidamente, a bassa voce, in tono scherzoso. Che fosse Saul? Sembrava effettivamente giungere dall’alto. Poi di nuovo la risata della giovane donna, un po’ più forte e improvvisa, come se qualcuno le avesse fatto il solletico. Infine un rumore di piedi leggeri e svelti, che scendevano le scale.

Lui arrivò alla scala esattamente in tempo per intravvedere, in fondo alla rampa che aveva di fronte, una figura snella, indistinta, che spariva dietro l’angolo: solo un’impressione di capelli scuri e di un abito nero, e di caviglie e di polsi bianchi, in rapido movimento.

Franz si avvicinò alla tromba delle scale e guardò in basso, e fu colpito dalla constatazione che la serie di piani, sotto di lui, assomigliava alla serie di immagini riflesse che si vedono quando ci si mette tra due specchi. Il rumore di passi rapidi continuò fino al piano terreno, ma la donna si tenne accanto al muro, lontana dalla ringhiera, come se fosse spinta dalla forza centrifuga, e Franz non la vide più.

Mentre guardava in basso, nel pozzo lungo e stretto, debolmente illuminato dal lucernario, e pensava alla figura vestita di nero e alla risata, un vago ricordo gli riaffiorò nella memoria e per qualche istante non lo lasciò pensare ad altro. Anche se si rifiutava di affiorare completamente, quel pensiero afferrò Franz con la forza di un brutto sogno o di una robusta sbornia. Franz era fermo in uno spazio buio, che sapeva di muffa, talmente stretto da dargli la claustrofobia. Da sopra la stoffa dei calzoni, sentì una mano femminile che gli si posava sui genitali, e udì una risata bassa e perversa. Scrutò nei propri ricordi, e scorse, spettrale e indistinto, il breve ovale di una faccia minuta; poi la risata si ripeté, come per deriderlo. In qualche modo, aveva l’impressione di essere avvolto in una rete di tentacoli neri. Sentì il peso di un’eccitazione malsana, di un senso di colpa e quasi di paura.

Il ricordo tenebroso si dileguò quando Franz si rese conto che la figura sulle scale doveva essere quella di Bonita Luque, con indosso il pigiama nero e la vestaglia e le pantofole nere con le piume che la madre le aveva passato e che ormai le andavano strette, ma che si metteva ancora qualche volta, quando girava per il palazzo la mattina presto, a sbrigare le commissioni che le affidava Dorotea. Sorrise, sprezzante, al pensiero che quasi gli dispiaceva (ma in realtà no!) di non essere più ubriaco e non potersi più concedere fantasie autolesionistiche.

Cominciò a salire la scala, ma si fermò quasi subito nel sentir parlare Gunnar e Saul, al piano di sopra. Non voleva vedere nessuno dei due, in quel momento; per prima cosa, semplicemente perché non se la sentiva di condividere con altre persone, diverse da Cal, il suo umore e i suoi progetti di quel giorno; dopo qualche istante, però, nell’ascoltare le loro parole sempre più chiare e più nitide, i suoi motivi divennero più ingarbugliati.

Gunnar: — Ma cos’è successo?

Saul: — Sua madre l’ha mandata a chiedere se uno di noi ha perso un registratore a cassette. Secondo lei, la cleptomane del secondo piano ne ha uno che non è suo.

Gunnar osservò: — “Cleptomane” non è una parola un po’ troppo difficile, per la signora Luque?

Saul rispose: — Oh, mi pare che abbia detto “fregona”. Io ho spiegato alla ragazza che il mio è ancora qui.

Gunnar chiese: — Ma perché Bonita non è venuta a chiederlo anche a me?

Saul rispose: — Perché le ho detto che non hai un registratore a cassette. Che ti piglia, ti senti escluso?

— No!

Durante il dialogo, il tono di Gunnar era diventato sempre più irritato, mentre quello di Saul si era raggelato progressivamente, ma con una punta di ironia. Franz aveva sentito vaghe supposizioni sul grado di omosessualità a cui forse giungeva l’amicizia tra Gunnar e Saul, ma era la prima volta che si chiedeva sul serio se ci fosse del vero. No, decisamente, non era il momento di intromettersi.

Saul insistette: — Allora, che c’è? Accidenti, Gun, lo sai che scherzo sempre con Bonita.

In tono quasi indispettito, Gunnar chiese allora: — So di essere un nordeuropeo puritano, ma vorrei sapere fin dove è giusto spingere la liberazione dal tabù anglosassone dei contatti fisici.

E in tono quasi di sfida, Saul rispose: — Be’, fin dove le due parti in causa lo ritengono opportuno, credo.

Qualcuno chiuse la porta, sbattendola. Poi qualcun altro lo imitò. Infine, silenzio. Franz trasse un respiro di sollievo, continuò a salire in punta di piedi… e quando arrivò nel corridoio del quinto piano si trovò quasi a faccia a faccia con Gunnar, fermo davanti alla porta chiusa della sua stanza e intento a fissare con irritazione la porta di Saul. Sul pavimento accanto a lui c’era un oggetto rettangolare, alto fino al ginocchio, in una custodia rivestita di tessuto grigio e con una maniglia metallica.

Gunnar Nordgren era un uomo alto e magro, con i capelli chiarissimi, un vichingo incivilito. Spostò lo sguardo per fissare Franz, e per un momento mostrò un imbarazzo non diverso dal suo. Poi, di colpo, ritornò alla solita giovialità e disse: — Sono contento di vederti. Un paio di giorni fa, mi hai chiesto delle macchine distruggidocumenti. Qui ne ho una, me la sono fatta prestare dall’ufficio fino a oggi.

Alzò il rivestimento, e apparve una cassetta di colore azzurro e argento, munita, nella parte alta, di una feritoia larga una trentina di centimetri, in alto, e di un pulsante rosso. In basso, come poté vedere Franz quando si fu avvicinato, c’era un cestino di rete metallica con qualche centimetro di ritagli di carta a forma di rombo, grossi come un’unghia, che sembravano una nevicata sporca di fuliggine.

Il senso di imbarazzo era del tutto sparito. Alzando lo sguardo, Franz disse: — So che devi andare al lavoro eccetera eccetera, ma potrei sentire il rumore che fa quando è in funzione?

— Certo. — Gunnar aprì la porta, dietro di lui, e fece entrare Franz in una stanza piccola, arredata con pochi mobili: i primi particolari che colpivano l’occhio erano alcune grosse fotografie a colori di corpi astronomici e l’attrezzatura da sci. Mentre srotolava il cavo e lo infilava nella presa, Gunnar spiegò: — Questo è uno “Stracciafogli” della Destroyist. Nomi quanto mai adatti, vero? Il suo unico difetto è di costare cinquecento dollari. I modelli più grossi arrivano anche a duemila. C’è una serie di lame circolari che taglia la carta in strisce, poi ce n’è una seconda serie che le trancia nell’altro senso. Forse non ci crederai, ma queste macchine derivano da quelle per fare i coriandoli. L’idea mi affascina: pare suggerire che l’umanità pensa prima a costruire macchine per il divertimento, e solo in un secondo tempo le usa per fare qualcosa di serio, se possiamo definire serio questo impiego. Insomma, prima viene il gioco, poi il senso di colpa.

Parlava con una soddisfazione o un sollievo tali che Franz dimenticò la sorpresa provata al primo istante, nel constatare che Gunnar si era portato a casa quella macchina. Che cosa aveva distrutto? Gunnar continuò: — Gli ingegnosi italiani… come ha detto Shakespeare? “I veneziani superacuti”?… Be’, sono all’avanguardia mondiale nell’inventare macchine per produrre cose da mangiare e divertimenti. Gelatiere, macchine per la pasta, macchine per il caffè espresso, fuochi pirotecnici, pianole meccaniche… e coriandoli. Ecco qua.

Franz aveva preso di tasca un taccuino e una penna biro. Quando Gunnar accosto la mano al pulsante rosso, lui tese l’orecchio, con cautela, aspettandosi di udire un rumore piuttosto forte.

Invece, udì solo un debole ronzìo, un mormorio, come se il Tempo stesso si schiarisse la gola.

Felice del suggerimento, Franz annotò esattamente quelle parole.

Gunnar inserì un foglio di carta colorata. Una neve celeste scese su quella grigiastra. Il suono divenne appena più forte.

Franz ringraziò Gunnar e lo lasciò ad arrotolare il cavo. Nel salire le scale, oltre il proprio piano, oltre il settimo, fino al terrazzo, provava una forte soddisfazione. L’aver potuto annotare quel dato di fatto era stato proprio il piccolo colpo di fortuna che gli occorreva per iniziare in modo perfetto la giornata.

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