Franz si ritrovò nel corridoio, di fronte alla porta chiusa del suo appartamento. Tremava leggermente, dalla testa ai piedi. Un tremore sottile, generale.
Poi ricordò perché era uscito. Per controllare il numero sulla porta, il piccolo rettangolo scuro su cui era inciso, in grigio chiaro, “607”. Voleva vederlo con i suoi occhi, voleva vedere la sua stanza dall’esterno (e dissociarsi dalla maledizione, allontanarsi dal bersaglio).
Aveva la sensazione che, se avesse bussato in quel momento (come doveva avere bussato tante volte, a quella stessa porta, Clark Ashton Smith), gli avrebbe aperto Thibaut De Castries, con la sua faccia dalle guance scavate, ridotta a una ragnatela di sottili rughe grigie, come incipriata di cenere.
Se fosse rientrato senza bussare, avrebbe trovato la stanza esattamente come lui l’aveva lasciata. Ma se avesse bussato, il vecchio ragno si sarebbe scosso dal sonno…
Provò un senso di vertigine, come se il palazzo cominciasse a ripiegarsi con lui all’interno, a ruotare lentamente, almeno all’inizio… Era una sensazione simile al panico del terremoto.
Doveva orientarsi subito, si disse, per non precipitare insieme all’811. Si avviò per il buio corridoio (la lampadina entro il globo, sopra la porta dell’ascensore, era ancora spenta), passando davanti al nero ripostiglio delle scope, alla finestra dipinta di nero del pozzo di ventilazione, all’ascensore, e salì in punta di piedi due piani, aggrappandosi al mancorrente per non perdere l’equilibrio; passò sotto il lucernario delle scale, entrò nella sinistra stanza nera che sotto un lucernario più grande ospitava il motore dell’ascensore e le leve, lo Gnomo Verde e il Ragno, e uscì sul tetto incatramato.
Le stelle erano in cielo, esattamente dove dovevano essere, anche se naturalmente erano un po’ offuscate dallo splendore della luna quasi piena, che adesso era al sommo della volta celeste, un po’ verso sud. Orione e Aldebaran salivano a oriente. La Stella Polare era al suo posto immutabile. Tutt’intorno si estendeva l’orizzonte spigoloso, frastagliato dalle sagome dei grattacieli contrassegnati da insegne rosse e dalle rare luci gialle delle finestre, come se fossero in qualche modo coscienti della necessità di risparmiare energia. Il vento, moderato, proveniva da ovest.
Ora che la vertigine l’aveva finalmente abbandonato, Franz s’incamminò verso il fondo del tetto, superando i bocchettoni degli sfiatatoi (simili a pozzi quadrati, circondati da un basso parapetto) attento alle basse tubature coperte di pesanti reti metalliche in cui era facile inciampare, finché non si fermò al limite occidentale del tetto, sopra la sua stanza e quella di Cal. Posò una mano sul basso muricciolo. A poca distanza dietro di lui c’era il pozzo di aerazione, che passava accanto alla finestra nera da lui incontrata nel corridoio e a quelle degli altri piani. Sullo stesso condotto, ricordò, si aprivano le finestre dei bagni di un’altra serie di appartamenti e una fila verticale di finestrelle piccolissime, che potevano appartenere solo ai ripostigli in disuso: in origine, pensò, dovevano avere la funzione d’illuminarli un poco. Guardò, verso ovest, le luci lampeggianti della torre e la gobba buia e irregolare di Corona Heights. Il vento si rinfrescò un poco.
E infine Franz pensò: “Questo è l’Hotel Rodi. Io vivo al Rodi 607, il posto che ho cercato dappertutto. In realtà, non c’è nessun mistero. Dietro di me sta la Transamerica Pyramid (5)”. Girò la testa verso il punto dove sfolgorava la sua singola luce rossa; le finestre illuminate del grattacielo erano strette come i fori di una scheda meccanografica. “Davanti a me (e si voltò) stanno la torre della TV (4) e l’altura gobba e incoronata (1) dove sono sepolte le ceneri del vecchio Re Ragno, e io sono al fulcro (O) della maledizione”.
Mentre si diceva questo, fatalisticamente, le stelle sembrarono affievolirsi ancora di più, assumere un pallore malaticcio: e lui sentì una nausea, una pesantezza, in se stesso e tutt’intorno, come se il vento, rinforzandosi, avesse portato qualcosa di maligno dall’ovest fino a quel tetto buio, come se un morbo universale o un inquinamento cosmico si levasse a spirale da Corona Heights, sull’intero panorama della città e salisse fino alle stelle, contaminando perfino Orione e lo Scudo… come se, con l’aiuto delle stelle, lui avesse cercato di mettere tutto a posto, e adesso qualcosa rifiutasse di stare nel posto che gli era stato assegnato, rifiutasse di rimanere sepolto e dimenticato, come il cancro di Daisy, e interferisse con la legge universale dell’ordine e del numero.
Udì all’improvviso uno scalpiccio e un fruscio, dietro di lui, e si voltò di scatto. Non c’era niente, niente di visibile, eppure…
Si accostò al più vicino pozzo di ventilazione e guardò giù. La luce della luna penetrava fino al suo piano, dove la finestrella dello stanzino delle scope era aperta. Più sotto c’era solo la luce fioca di due delle finestre dei bagni: luce indiretta che filtrava dai soggiorni di quegli appartamenti. Udì un suono, come di un animale che fiutasse… o forse era il suo respiro pesante riflesso dalla lamiera di cui era foderato il condotto? E gli sembrò di scorgere (ma era molto indistinto) qualcosa che aveva troppe zampe e che si muoveva rapidamente, in su e in giù.
Tirò la testa all’indietro, e poi verso l’alto, come se guardasse le stelle per chiedere aiuto: ma gli sembravano solitarie e indifferenti quanto le finestre lontane che un uomo scorge mentre sta per essere assassinato in una brughiera o gettato nella Grande Palude di Grimpen in piena notte. Il panico s’impadronì di lui: tornò indietro, precipitosamente. Quando attraversò la nera stanza dell’ascensore, i grandi interruttori di rame scattarono con fracasso e le leve emisero un acuto strido, affrettando la sua fuga, come se alle sue calcagna ci fosse stato un Ragno mostruoso agli ordini dello Gnomo Verde.
Ritrovò un po’ di padronanza mentre scendeva le scale; ma al suo piano, quando passò davanti alla finestra dipinta in nero (vicino al globo spento), ebbe la sensazione che ci fosse qualcosa di estremamente agile acquattato dall’altra parte, aggrappato al pozzo di ventilazione… qualcosa che era una via di mezzo tra una pantera nera e una scimmia-ragno, ma forse con tante zampe quante ne aveva un ragno, e forse con la faccia cinerea di Thibaut De Castries… e in procinto di avventarsi su di lui sfondando il vetro irrobustito dalla rete metallica. E mentre passava davanti alla porta del ripostiglio rammentò la finestrella aperta, tra il ripostiglio e il condotto di aerazione, che non era troppo piccola per un essere come quello. E ricordò che il ripostiglio delle scope confinava proprio col muro accanto al suo letto. Quanti di noi, in una grande città, si chiese, sanno cosa sta dietro le pareti del loro appartamento, dietro la parete contro la quale dormono… nascosto e irraggiungibile come i nostri organi interni? Non possiamo neppure fidarci dei muri che dovrebbero proteggerci.
Nel corridoio, la porta del ripostiglio delle scope parve gonfiarsi di colpo. Per un istante di paura, Franz credette di aver lasciato le chiavi nel suo alloggio; poi se le trovò in tasca, individuò quella giusta, aprì la porta, entrò, e chiuse a doppia mandata l’uscio, per sbarrare la strada alla cosa che forse l’aveva inseguito dal tetto.
Ma poteva fidarsi della sua stanza, con la finestra aperta? Anche se quella finestra, in teoria, era irraggiungibile? Ispezionò di nuovo l’alloggio, e questa volta provò l’impulso di controllare ogni spazio. Aprì perfino i cassetti dello schedario e guardò dietro i raccoglitori, senza per questo sentirsi imbarazzato. Perquisì per ultimo l’armadio, così meticolosamente che scoprì una bottiglia ancora chiusa di Kirschwasser, che doveva aver nascosto più di un anno prima, quando beveva ancora.
Guardò la finestra, con le sue briciole di carta vecchia, e immaginò De Castries quando abitava lì. Il vecchio Ragno, indubbiamente, aveva trascorso lunghe ore seduto davanti alla finestra, a guardare la sua futura tomba su Corona Heights, e dietro di essa il Monte Sutro ammantato di foreste. Aveva previsto che là sarebbe sorta la torre? I vecchi spiritisti e occultisti credevano che il resto astrale, la polvere eterea di una persona, rimanesse a lungo nelle stanze in cui era vissuta.
Cos’altro aveva sognato, lì, il vecchio Ragno, dondolandosi un po’ sulla sedia? I suoi giorni di gloria nella San Francisco pre-terremoto? Gli uomini e le donne che aveva spinto al suicidio, o che aveva collocato sotto vari fulcri per schiacciarli? Suo padre (avventuriero in Africa o tipografo fallito), la sua pantera nera (se mai ne aveva avuta una), la sua giovane amante polacca (o l’esile fanciulla-Anima), la sua Dama Velata?
Se almeno avesse avuto qualcuno con cui parlare, qualcuno che lo liberasse da quei pensieri morbosi! Se Cal e gli altri fossero ritornati dal concerto! Ma l’orologio indicava che le nove erano passate da pochi minuti. Era difficile credere che le perquisizioni della stanza e la visita al tetto avessero portato via così poco tempo, ma la lancetta dei secondi continuava a girare regolarmente, a scatti quasi impercettibili.
Il pensiero delle ore di solitudine che l’attendevano gli dava la disperazione, e la bottiglia che aveva in mano, con la sua promessa d’oblìo, lo tentava: ma la paura di ciò che poteva accadere se lui si fosse addormentato senza potersi svegliare era ancora più grande.
Posò lo cherry brandy accanto alla posta del giorno prima (ancora chiusa), ai prismi e alla lavagnetta. Aveva creduto che quest’ultima non recasse nessuna scritta: ma adesso gli sembrava che vi fossero dei segni sottili. La portò, con i gessetti e i prismi che vi stavano sopra, accanto alla lampada vicino al letto. Aveva pensato di accendere la luce centrale da 200 watt, ma non gli garbava l’idea che la sua finestra spiccasse clamorosamente illuminata… forse agli occhi di un osservatore in agguato su Corona Heights.
Sulla lavagna c’erano davvero degli esilissimi segni di gesso: cinque o sei triangoli, stretti e con la punta in basso, come se qualcuno, o qualche forza, avesse disegnato leggermente (il gesso forse si era mosso da solo, come la planchette di una tavola ouija) la faccia proboscidata del suo paramentale. E adesso il gesso e uno dei prismi sussultavano come planchette, perché le sue mani tremavano nello stringere la lavagna.
La sua mente era quasi paralizzata e svuotata da un’improvvisa paura: ma una parte, ancora libera, pensava che in magìa una stella bianca a cinque punte, con una punta in alto (o verso l’esterno), protegge una stanza dall’ingresso degli spiriti maligni, come se l’entità vi rimanesse impalata mentre cerca di entrare; perciò non fu molto sorpreso quando si accorse di aver posato la lavagna sul tavolino stracarico e di essersi messo a tracciare stelle sui davanzali delle sue finestre, quella aperta e quella chiusa del bagno, e sopra la porta d’ingresso. Provò una vaga sensazione di ridicolo, ma non ebbe neppure per un istante la tentazione di non completare le stelle. Anzi, la sua immaginazione corse alla possibilità di passaggi e nascondigli ancor più segreti dei pozzi di ventilazione e dei ripostigli delle scope (nell’Hotel Rodi doveva esserci stato un montacarichi, e anche uno scivolo per la biancheria, e chissà quante porte ausiliarie), e si turbò al pensiero di non poter ispezionare meglio le pareti di fondo del ripostiglio e dell’armadio; e alla fine chiuse gli sportelli dell’uno e dell’altro e vi tracciò sopra una stella… e un’altra stella, più piccola, sopra il finestrino della porta d’ingresso.
Stava pensando di disegnare una stella anche vicino al letto, sulla parete adiacente allo stanzino delle scope, quando udì bussare alla porta. Prima mise la catena, poi schiuse di pochi centimetri l’uscio.