Un mago, un mercante, un lord fra i mercanti… qui non vedo penuria di stolti.
Era una notte di luna, con l’argenteo Occhio di Selûne che scivolava nel cielo fra brandelli di nubi lucenti che correvano rapidi sopra le guglie orgogliose di Waterdeep. I maghi nelle loro torri e le guardie sui bastioni sollevarono lo sguardo e rabbrividirono, mentre ciascuno di essi pensava a quanto lui stesso apparisse piccolo e insignificante di fronte al veloce e indifferente fuoco degli dei.
Molto meno numerosi furono invece i mercanti che si preoccuparono di sollevare lo sguardo dalle monete e dalle merci… o da più soffici tentazioni… che avevano fra le mani a quell’ora, perché così sono fatti i mercanti. Centinaia di essi stavano russando nel loro letto, sfiniti dalle fatiche della giornata, ma molti altri erano ancora desti e stavano abbracciando qualcosa, anche se la maggior parte di essi aveva le mani strette soltanto intorno a un boccale che si andava rapidamente svuotando.
Non c’erano però boccali, abbracci o più soffici tentazioni in una particolare stanza di un piano rialzato, dalle finestre sprangate che si affacciavano sulla Via Jembril, nel Rione dei Commerci; invece, quella stanza conteneva soltanto il minimo di arredi indispensabile… un tavolo e sei sedie dallo schienale rigido… e un gruppo di uomini avvolto da un’atmosfera glaciale.
Sei mercanti occupavano quelle sedie in quella gelida notte di inizio primavera dell’Anno dei Draghi Ribelli, e tutti e sei sedevano impassibili, fissandosi a vicenda. Gli sguardi scintillanti d’ira di cinque di essi lasciavano supporre che la salute del sesto uomo, che sedeva isolato a capo del tavolo, non avrebbe continuato a fiorire per più di pochi altri istanti se non fosse stato per la presenza delle due impassibili guardie del corpo, che erano ferme con aria guardinga accanto alla sedia del loro padrone, una balestra carica e pronta all’uso in una mano e l’altra mano appoggiata sull’impugnatura della spada.
Poi il sesto uomo parlò, con voce lenta e in tono tagliente.
Fuori, nella notte, un’ombra si mosse, e un’invisibile testimone della riunione dei mercanti si protese maggiormente verso l’unica fessura presente nelle imposte delle finestre del primo piano. Tenendosi appesa a testa in giù alla statua di un’arpia di pietra che decorava il tetto nel punto più vicino all’imposta, l’ombra mise a repentaglio il proprio equilibrio quanto più le era possibile e si sforzò di sentire ciò che veniva detto, mentre le sue braccia snelle cominciavano già a tremare per lo sforzo di impedirle di precipitare sull’acciottolato scuro della strada sottostante.
«Signori, non vi rimangono proprio altre scuse da accampare», sogghignò l’individuo che sedeva in disparte rispetto agli altri. «Avrò il mio denaro questa notte… oppure mi consegnerete un atto di cessione delle vostre botteghe».
«Ma…» sbottò uno degli altri uomini, troncando però sul nascere ciò che era stato sul punto di dire, qualsiasi cosa fosse, e abbassando con aria impotente lo sguardo sulla spoglia superficie del tavolo che aveva davanti, il volto incupito dall’ira.
«Dunque ci vuoi rovinare, Caethur?» chiese il mercante che gli sedeva accanto, la voce scossa da un tremito. «Preferisci lasciarci in mezzo a una strada invece di dissanguarci per un’altra stagione? Perché, considerato che potresti chiederci degli interessi più elevati, concederci altro tempo e tenerci indebitati in eterno, costretti a pagarti per il resto della nostra vita e a cederti più denaro di quanto valgano le nostre botteghe?»
Caethur, che si sentiva senza dubbio protetto dalla presenza minacciosa delle due guardie del corpo che aveva alle spalle, si protese in avanti con un sorriso sempre più ampio… e tutt’altro che gradevole… dipinto sul volto.
«Sì», ribatté in tono di trionfo, poi si appoggiò allo schienale della sedia, congiunse le mani e appoggiò il mento alla punta delle dita, mormorando: «Hammuras, rovinarti mi darà un enorme piacere. Lo stesso vale per te, Nael, e soprattutto per te, Kamburan».
Immobile, continuando a sorridere, spostò poi lo sguardo sugli altri due mercanti seduti, e aggiunse con un sospiro:
«Peraltro, quasi mi addolora infliggere la stessa sorte anche a voi due gentiluomini, al punto che mi potrei sentire addirittura incline a concedervi quell’ulteriore stagione di proroga di cui parlava Hammuras se, per esempio, accadesse qualcosa che mettesse a tacere per sempre la lingua troppo tagliente di Kamburan. Io…»
Uno degli ultimi due mercanti da lui interpellati calò con violenza la mano sul piano del tavolo, interrompendolo.
«No, Caethur, non ci spingerai ad attaccarci a vicenda mentre tu gongoli in disparte. Affonderemo o ci salveremo insieme.»
Accanto a lui, l’altro mercante annuì con aria furente.
Caethur rivolse a entrambi un accenno di sorriso, agitando le dita coperte di anelli in modo tale che le fasce d’oro tempestate di gemme che le adornavano scintillassero alla luce della lampada come altrettanti bicchieri di quel nuovo vino che i nobili di Waterdeep avevano battezzato «stelle scintillanti».
«Benissimo, signori», ribatté in tono leggero, «allora siamo arrivati al momento in cui le parole devono cedere il posto ai fatti, in un modo o nell’altro. Kamburan, perché non cominci tu?».
Con riluttanza, il mercante dalla barba bianca infilò una mano nella tunica di seta color fiamma ed estrasse… con mosse lente e caute, perché due balestre gli si erano puntate contro a titolo di ammonimento… un cofanetto di legno lucido grande appena più del palmo della sua mano. In silenzio, lo aprì in modo da mettere in mostra agli occhi di tutti il fuoco freddo della fila di gemme contenuta all’interno: sette beljuril, verdi come il mare e scintillanti per le scariche di fuoco che già si stavano accumulando al loro interno.
Posato con delicatezza il cofanetto sul tavolo, Kamburan lo spinse verso Caethur, ma esso si arrestò prima di raggiungere l’usuraio.
In risposta a un cenno di Caethur, una delle guardie del corpo si fece avanti con disinvoltura e chiuse il cofanetto, facendolo scivolare in avanti fino al suo padrone, che però non accennò a toccarlo.
«Saremmo dovuti andare da Mirt», borbottò Hammuras.
«La vita è piena di “avremmo dovuto”, vero, Hammuras?» ribatté Caethur, scoccando al mercante di spezie un sorriso degno di uno squalo. «Io avrei dovuto scegliere di trattare di affari con commercianti più astuti e operosi, e in questo modo non mi sarei mai trovato nella spiacevole situazione di dover recuperare il possibile dal naufragio di quelle che sarebbero dovute essere cinque fiorenti attività commerciali».
«Questo non è vero!» ringhiò Nael. «Sai bene quanto noi che questi sono stati tempi difficili! I mostri marini hanno mandato a monte una stagione di spedizioni per mare, poi ci sono state le guerre in Amn e nel Tethyr, e la conseguente cessazione dei commerci con quelle terre…»
«Non è forse vero che ogni mercante di Waterdeep si è trovato a fronteggiare queste stesse difficoltà?» chiese in tono mite Caethur, allargando le mani e inarcando un sopracciglio. «E tuttavia… mirate… non sono tutti seduti qui, intorno a questo tavolo. Ci siete soltanto voi cinque».
Il suo sguardo si spostò poi su Hammuras, e la sua mano si protese in un gesto invitante.
Cupo in volto, il mercante di spezie esibì a sua volta un cofanetto, fece vedere i rubini in esso racchiusi e lo spinse lungo il tavolo.
Questa volta il cofanetto si fermò a portata della mano dell’usuraio, ma questi di nuovo non accennò a prenderlo e fissò invece Nael con aria piena di aspettativa.
Il mercante rimase immobile, pallido come il marmo.
«Allora?» lo incitò a bassa voce Caethur, nel silenzio che si era fatto di colpo molto profondo e tuttavia vibrante come la corda di un arco teso.
Nael deglutì a fatica, sollevò il mento, deglutì ancora, poi disse:
«Non ho qui con me né pietre preziose né l’atto di cessione della mia attività, ma…»
Senza attendere nessun segnale, una delle guardie del corpo attivò la balestra, e l’occhio sinistro di Aldurl Nael si trasformò di colpo in un sanguinante ammasso di legno e piume. Il mercante di ottone barcollò sulla sedia, con la testa spinta all’indietro e la bocca spalancata, poi rimase immobile, con il sangue che gli colava a rivoli dalla bocca, sul pavimento.
«… ma è davvero una sfortuna», affermò Caethur, sempre in tono mite, concludendo la frase al posto di Nael. «Per Nael e per tutti voi. In fin dei conti, non possiamo lasciare che ci siano testimoni di un simile assassinio a sangue freddo, giusto?»
Con calma, l’altra guardia azionò la balestra, e Hammuras morì.
Mentre i tre mercanti superstiti urlavano e scattavano in piedi con aria disperata, entrambe le guardie gettarono da parte le balestre ormai scariche e rimossero i cuscini che coprivano uno scaffale applicato allo schienale della sedia di Caethur: altre quattro balestre scintillarono sotto la luce della lampada, cariche e pronte all’uso. Con freddezza, le guardie le afferrarono, e le utilizzarono.
Kamburan continuò a gemere per un tempo sorprendentemente lungo, ma a parte la sua voce, nell’arco di un paio di secondi nella stanza regnò il silenzio.
«A proposito», aggiunse l’usuraio, in tono colloquiale, rivolto ai cadaveri, «le quadrelle utilizzate dai miei uomini sono cosparse di brucia-cervello, per evitare che i maghi ficcanaso dell’Ordine di Sorveglianza possano apprendere qualcosa del nostro incontro… e scoprire in che modo siate stati tanto sbadati da finire tutti con un dardo da guerra piantato nella faccia. Dopo tutto, non vorremo certo varare un’altra sconsiderata moda cittadina, giusto?».
Alzatosi dalla sedia, Caethur rivolse un cenno del capo alle due guardie e indicò con la mano in direzione dei due cofanetti di gemme.
«Quando avrete finito di spogliare i corpi di tutti i documenti e le monete, prendete anche quelli», ordinò.
Mentre oltrepassava la porta e sgusciava fuori dalla stanza, l’usuraio estrasse dalla sacca da cintura un oggetto che sembrava un artiglio: una barra costellata da una fila di piccole daghe, che gli sporsero fra le dita come una serie di artigli avvolti da un fodero quando lui chiuse il pugno intorno a essa. Usando l’altra mano, Caethur sfilò dalla cintura una daga e la usò per rimuovere con cautela il fodero di ogni piccola lama, ciascuna con la punta affilata coperta di una sostanza umida e scura.
Infilata la daga in un’asola della cintura e nascosta dietro la schiena la mano che stringeva gli artigli avvelenati, Caethur attese, canticchiando sotto voce un’allegra canzonetta; quando poi le due guardie del corpo uscirono infine dalla stanza, le fissò con aria accigliata bloccando loro il passo, e accennò alla camera alle loro spalle.
«Vi è sfuggito qualcosa», affermò in tono tagliente.
I due uomini lo fissarono con aria sorpresa e contrariata, ma si girarono di scatto per guardare in direzione dei mercanti morti, perché l’usuraio non era un padrone che convenisse contrariare.
Nel momento stesso in cui i due si volsero, Caethur mosse un rapido passo in avanti e li ferì entrambi al collo con gli artigli, balzando poi subito all’indietro per evitare gli spasmi convulsi che sapeva essere sul punto di scatenarsi.
Le guardie erano giovani e forti, e dopo essersi irrigidite entrambe con un identico grugnito di dolore e di sorpresa, riuscirono a girarsi di scatto verso il loro padrone, fissandolo con ira e artigliando l’aria per qualche secondo prima che il veleno bloccasse loro gli arti, facendoli precipitare nel lungo, gelido tunnel oscuro dell’oblio.
Caethur conficcò nel corpo degli uomini che aveva appena ucciso un altro coltello, questo abbondantemente cosparso di brucia-cervello, poi procedette con calma a prelevare ogni oggetto di valore presente in quella stanza piena di cadaveri. Dopo tutto, il brucia-cervello era costoso… e quando si fosse venuto a sapere degli eventi di quella notte, il prezzo richiesto dalle guardie disposte a lavorare per lui sarebbe inevitabilmente salito di parecchio.
D’altro canto, il costo legato al rischio che un singolo uomo potesse informare i Signori di Waterdeep delle sue azioni era ancora più elevato. Il mantello di Kamburan, ancora drappeggiato sullo schienale della sedia, era privo di macchie, e una volta appallottolato intorno al bottino servì egregiamente da sacchetto per trasportarlo; quando ebbe finito, l’usuraio si avvolse nel proprio mantello, senza un capello fuori posto e con il solito sorriso disinvolto dipinto sul viso.
Quella non era la prima volta in cui Caethur l’usuraio usciva da una stanza piena di cadaveri. Dopo tutto, cose del genere erano un aspetto spiacevole, ma fin troppo spesso inevitabile, della sua professione.
Fuori, l’ombra si mosse, oscillando verso l’alto e lontano dall’imposta, per raggiungere il bordo del tetto. Un piede calzato di stivale scivolò, un’imprecazione affiorò vivida e improvvisa in una mente che stava costringendo con freddezza il proprio corpo penzolante nel vuoto a rimanere in silenzio, e con uno scatto deciso l’ombra raggiunse il tetto, allontanandosi.
L’avvertì non appena entrato nel portale: una perturbazione del flusso della Tela, proprio davanti a lui. Qualcuno, o qualcosa, stava lanciando un incantesimo sulla destinazione che aveva scelto o aveva già applicato su di essa una trappola magica.
Soltanto le persone come lui, profondamente in sintonia con la Tela, potevano percepire la cosa, e agire in modo da evitare il pericolo in attesa.
Ridacchiando in silenzio, l’arcimago si spostò di lato, muovendosi attraverso i fluenti veli di nulla azzurro in modo da emergerne altrove, mediante un portale che non fosse collegato a quello da cui era entrato o a quello manomesso su cui si affacciava.
Accoccolata sottovento rispetto a un grosso camino diroccato, Narnra sussultò per il dolore bruciante a una spalla: a quanto pareva, si era procurata uno strappo, ma non era niente di grave, cosa per cui ringraziava gli dei.
Ah, sì, gli dei che vedevano sempre tutto… sollevando lo sguardo, Narnra lanciò un’altra silenziosa imprecazione all’indirizzo di quegli idioti animati da una fede entusiasta che avevano applicato al Plinto un incantesimo per far sì che di notte risplendesse con tanta intensità. Dopo tutto, i ladri non amavano simili fari che illuminavano a dovere il loro campo d’azione.
E Narnra Shalace era una ladra. Quella era stata la sua professione dal giorno in cui sua madre era morta misteriosamente e vicini, clienti e abitanti di Waterdeep che lei non aveva mai visto prima avevano invaso la loro casa per impadronirsi di tutto ciò che era appartenuto a sua madre. Soltanto una fuga frenetica aveva evitato alla furente e terrorizzata Narnra di essere portata via a sua volta, senza dubbio per essere venduta come schiava dal nobile, chiunque fosse, che aveva mandato i suoi uomini a inseguirla.
Tutti sapevano che a Waterdeep c’erano leggi che si applicavano anche ai nobili e molte altre che, in qualche modo, non si estendevano anche a loro, e inoltre le famiglie nobiliari e quelle di ricchi mercanti possedevano navi e carri in abbondanza, come pure terreni posti fuori dal raggio di applicazione delle leggi di Waterdeep, dove avrebbero potuto far trasportare chiunque e qualsiasi cosa.
Essendosi trovata di colpo senza un soldo, l’orfana Narnra Shalace era andata in caccia sui tetti e nei vicoli, e così era diventata ciò che era adesso… un ennesimo ladro che cercava di sopravvivere in una città che non era per nulla tollerante con chi derubava gli altri.
E adesso era lì, dolorante e intenta a elaborare piani, su un fatiscente tetto del Rione dei Commerci, una giovane ragazza solitaria che era piuttosto agile nel saltare e nell’arrampicarsi, ma non era dotata di vera bellezza, con il fisico snello e dinoccolato, i corti capelli scuri, gli occhi accesi di fuoco nero e il naso aquilino. «L’Ombra di Seta», così si era soprannominata, ma tuttora vedeva gli uomini sogghignare quando pronunciava quel titolo nelle malfamate taverne senza nome vicino ai moli dove gli oggetti rubati potevano essere venduti per poche monete di rame, senza che nessuno facesse domande.
L’inverno era stato difficile, tanto che se non fosse stato per camini come quello accanto a cui si trovava ora, il freddo l’avrebbe uccisa prima ancora che cominciasse a nevicare… e a Waterdeep bisognava lottare per aggiudicarsi gli angoli più caldi dei tetti.
Ultimamente, poi, le capitava spesso di patire la fame, di ritrovarsi affamata e furente, e la paura le era compagna in ogni momento di veglia, inducendola a guardarsi di continuo alle spalle, anche se sapeva benissimo che non serviva a niente; d’altronde, non poteva non essere sgradevolmente consapevole di quanto fossero abili gli altri ladri di quella città… per non parlare della Guardia Cittadina, dell’Ordine di Sorveglianza e di una quantità di abili maghi, il cui numero effettivo era noto soltanto ai Signori Mascherati. Narnra sapeva di non poter tener testa a nessuno di loro, e di non costituire neppure una ridicola sfida per la maggior parte di loro.
Destare la loro attenzione, tranne che come fonte di momentaneo divertimento, avrebbe significato morire.
E così era accoccolata lì, oppressa dal disperato bisogno di monete con cui comprare del cibo e fin troppo propensa a cedere all’ira… cosa che un ladro non si poteva permettere, se voleva sperare di vivere abbastanza a lungo da rivedere l’alba.
Narnra sospirò silenziosamente fra sé nel riflettere che, pur essendo abbastanza agile e snella da potersi aggirare sui tetti, non era però abbastanza avvenente da potersi guadagnare da vivere nella maniera più facile, danzando nuda nelle sale dei banchetti. No, lei era soltanto un’ennesima, solitaria straniera che si arrabattava per guadagnarsi disonestamente da vivere nelle strade di Waterdeep, cosa resa più difficile dal fatto che non possedeva le armi derivanti da un titolo nobiliare o una sua bottega che le rendesse relativamente facile guadagnarsi da vivere disonestamente.
Accigliandosi, tirò fuori la borsa di cui si era impadronita in precedenza, durante una rissa di strada nel Rione dei Moli: quella che doveva essere stata una banda di ladri aveva assalito due mercanti, ma lei si era lanciata nella mischia e aveva sottratto a quei furfanti la loro preda, motivo per cui senza dubbio adesso la stavano cercando…
Tutto per tre monete d’oro… di fattura diversa in quanto provenienti da tre città diverse, ma tutte di buon metallo pesante… sei monete d’argento, quattro di rame e un contrassegno per aprire una cassetta di sicurezza posta in un luogo di Faerûn che non conosceva. Una misera preda, ma avrebbe dovuto accontentarsi.
La ragazza tirò poi fuori da uno stivale una sacca più larga e più leggera, ne aprì i lacci con due dita, quindi controllò che il mantello fosse steso accanto a lei e si trovasse nella giusta posizione prima di avvicinarsi di un dito al bordo del tetto, tenendosi bassa.
Per quanto era in grado di stabilire, l’usuraio non aveva con sé altre guardie. L’uomo, che impugnava una sorta di tirapugni irto di daghe, nascosto a occhi indiscreti mediante un mantello gettato sul braccio, si muoveva infatti con l’atteggiamento guardingo di chi è senza scorta mentre procedeva a passo spedito lungo la Scorciatoia di Lathin per raggiungere la Strada Alta. Là si nascose nell’ombra di un profondo androne in attesa che una pattuglia della Guardia passasse oltre, incamminandosi poi di nuovo a poca distanza da essa, in tutto e per tutto il ritratto di un qualsiasi rispettabile mercante che si fosse venuto a trovare a tarda notte nella parte sbagliata della città e stesse cercando di arrivare a casa sano e salvo.
Se però voleva evitare il Posto di Guardia permanente che si trovava poco più avanti, al crocevia delle grandi strade, fra poco l’usuraio avrebbe dovuto svoltare proprio sotto di lei. L’uomo lanciò un rapido sguardo verso l’alto, e Narnra trattenne il respiro, rimanendo del tutto immobile nella speranza di essere scambiata per una delle statue che ornavano il tetto. In basso, Caethur continuò a camminare, allontanandosi dal muro in modo da poter vedere oltre l’angolo prima di tornare verso di esso per svoltare tenendosi addossato all’edificio.
Con delicatezza, l’Ombra di Seta lasciò cadere dall’alto la misera manciata di monete in suo possesso, in modo che passassero scintillando davanti al naso dell’uomo per poi rimbalzare e rotolare al suolo. Invece di darsi alla fuga nella direzione da cui era giunto, l’usuraio s’immobilizzò a fissare una moneta d’oro che rotolava, poi sollevò lo sguardo verso l’alto.
In tempo per vedersi arrivare addosso una manciata di sabbia proveniente dalla sacca più grande in possesso della ragazza, seguita da un’ombra che gli balzò sopra dall’alto con le mani allargate che tenevano teso il mantello davanti al corpo come una sorta di scudo fluttuante.
L’usuraio Caethur ebbe a stento il tempo di sgranare gli occhi, ma non quello di gridare, prima che la ragazza gli sbattesse contro, scagliandolo sull’acciottolato. Narnra sentì qualcosa che si fratturava e si accartocciava nel corpo dell’uomo mentre gli si manteneva inesorabilmente sopra, i loro corpi che rotolavano insieme sulla strada, poi gli avvolse strettamente il mantello intorno alla testa e gli bloccò con un ginocchio il braccio destro, per impedirgli di usare l’artiglio, utilizzando la mano libera per colpirlo alla gola con tutte le sue forze.
L’impatto stroncò sul nascere i gemiti storditi dell’usuraio, lasciandolo disteso inerte. Narnra tagliò con il suo coltello migliore i lacci della logora borsa dell’uomo, afferrò la sua sacca da cintura… appesantita dalle carte, monete e gemme che conteneva… e si allontanò, lasciandosi alle spalle le monete che aveva sacrificato e il mantello rubato.
Per quanto veloce, la sua manovra non era stata abbastanza rapida, come testimoniò un grido proveniente da un punto più in su lungo la strada, seguito dal bagliore delle torce della pattuglia che si girava.
Cupa in volto, l’Ombra di Seta si diede alla fuga per salvarsi la vita, dirigendosi verso una vicina bottega dotata di una scala esterna.
Se davvero mio padre era un grande mago e mia madre era un drago, sarebbe logico aspettarsi che io fossi qualcosa di più grandioso di una semplice ladra, pensò fra sé con rabbia, per quella che era forse la decimillesima volta. Dove sono la mia posizione sociale elevata, la mia ricchezza e il mio potere? Perché non posso lanciare incantesimi o trasformarmi in un drago?
«Hah! Ti ho colto in fallo!» esclamò il vecchio cuoco, girandosi di scatto. «Ragazzo, ci tieni ad avere ancora il tuo lavoro, domani?»
Lo sporco garzone di cucina s’immobilizzò, stringendo contro il grembiule macchiato un cesto pieno di scarti e di avanzi marci, e fissò Phaeron con un’aria di assoluto stupore.
«Cosa?» ribatté.
Il cuoco avanzò verso di lui, zoppicando sulla gamba di legno e brandendo una logora mannaia in una mano tozza e pelosa.
«E adesso mi rispondi con un “cosa”?» chiese, con voce pericolosamente bassa. «Ci tieni al tuo naso, vero?»
La mannaia si sollevò con aria minacciosa, e Naviskurr si rese conto della portata dell’errore commesso.
«Ah, no, Mastro Phaeron, signore… ah, cioè, sì, ci tengo, ma non volevo fare nulla di male, davvero, e… e…»
A mano a mano che il vecchio cuoco avanzava, la voce del ragazzo salì di tono fino a trasformarsi in un terrorizzato stridio quando la lama d’acciaio lucente e freddo gli sfiorò il naso.
«… e giuro davanti a tutti gli dei che non so proprio cosa ho fatto per offenderti, cosa ho fatto di sbagliato. Scusami, scusami, signore, cosa ho fatto?»
«Huh», sbuffò Phaeron, in tono disgustato. «Questa è la stoffa dei giovani che mi mandano ultimamente. Questa è l’eloquenza delle brillanti nuove generazioni che ci salveranno tutti!»
Il cuoco volse le spalle al ragazzo, poi tornò a girarsi di scatto con una mossa tanto rapida e fluida che Naviskurr strillò di terrore, e puntò la mannaia in direzione di altri tre cesti che il ragazzo aveva già posato per terra.
«Quante volte ti ho ripetuto che non bisogna addossare nulla a quella porta?» ringhiò. «Nulla!»
Naviskurr guardò nella direzione indicata, sbatté le palpebre con perplessità, poi posò il quarto cesto dove si trovava e si affrettò a spostare gli altri tre.
«Chiedo scusa, Mastro Phaeron, signore…» borbottò, «ma questa è soltanto una vecchia porta. Non l’apriamo mai, non la usiamo mai…».
Mentre parlava trascinò di lato i cesti, poi si raddrizzò con un grugnito e rimase a fissare la vecchia porta rinforzata con chiodi di ferro posta nell’angolo più squallido delle cucine dell’Affittacamere dell’Uccello della Pioggia, osservando la scrostata vernice azzurra applicata alle larghe e rozze assi decorate da un’incisione che, doveva ammetterlo, era davvero notevole. Essa raffigurava il volto lungo e nobile di un uomo barbuto dal naso aquilino che Naviskurr aveva ribattezzato fra sé «il Vecchio Mago Sorpreso».
«Si può sapere perché dobbiamo tenerla sempre sgombra?» seguitò, fissando con aria accigliata il perpetuo, astuto sorriso dell’incisione.
In quel momento essa tremolò e si accese di una luce che il ragazzo non vi aveva mai visto, e prima che lo sfrontato garzone avesse il tempo di indietreggiare o di urlare per la paura, la faccia parve protendersi in avanti, uscendo dalla porta.
Mentre deglutiva a fatica e indietreggiava, facendo cenni frenetici quanto inutili in direzione di Mastro Phaeron, Naviskurr vide che la faccia era attaccata al corpo di un uomo dal passo spedito, un vecchio dal naso aquilino, con la barba e i capelli lunghi, avvolto in vesti non troppo pulite, che fluì fuori dalla porta chiusa, lasciandola intatta e ancora adorna della sua incisione.
Allegri occhi fra il grigio e l’azzurro sovrastati da scure sopracciglia scoccarono una rapida occhiata allo stupefatto garzone e l’uomo gli indirizzò una strizzata d’occhio prima di rivolgere un cenno del capo e un gesto di saluto al vecchio Phaeron.
«Forn», disse, «tuo figlio se la sta cavando egregiamente a Suzail, e pare proprio che si ritroverà sposato entro la primavera, se non starà attento!».
Il vecchio cuoco rimase a bocca aperta per la sorpresa e sgranò gli occhi per la gioia… e nel frattempo il visitatore dal passo spedito uscì dalla cucina, con una pipa ricurva che fluttuava sulla sua scia come una sorta di paziente serpente.
«Co… cosa… chi…» balbettò Naviskurr.
Incrociando le braccia sul petto, Mastro Phaeron rivolse al garzone un ampio sorriso.
«È per questo che teniamo sgombra quella porta, ragazzo», spiegò, in tono trionfante. «I potenti arcimaghi devoti a Mystra non amano ritrovarsi immersi fino al ginocchio nei rifiuti di cucina.»
«Uh…» farfugliò Naviskurr, poi deglutì a fatica e chiese con voce fievole: «Mystra? Arcimaghi? Chi era quell’uomo?».
«Soltanto un mio vecchio amico», spiegò Phaeron in tono sbrigativo, tornando a voltarsi verso gli spiedi sfrigolanti. «Nessuno che tu conosca. Si chiama Elminster».
E si concentrò sugli arrosti con una risatina, preparandosi all’inevitabile tempesta di domande.
Invece, gli giunse all’orecchio un tonfo morbido e alquanto umido. Dopo aver rigirato il sugo sempre più denso e aver leccato con aria riflessiva il fumante cucchiaio di legno, Phaeron si volse per vedere in che modo il pigro garzone avesse prodotto quel suono… e scoprì che Naviskurr era sdraiato sui quattro cesti di rifiuti, gli occhi vacui fissi sui mestoli che pendevano dalle travi del soffitto: quello che pareva essere il garzone meno promettente che lui avesse mai avuto era svenuto.
Sospirando, Phaeron agitò il cucchiaio in direzione del ragazzo, pensando che forse qualche goccia di sugo bollente lo avrebbe fatto rinvenire… o forse no. Ah, il possente valore dei giovani…
Era evidente che gli apprendisti di sua madre le avevano mentito… doveva essere così, e tuttavia essi erano stati in preda all’ira, decisi a provocarla, e non erano stati attenti a soppesare le parole, così come in seguito si erano comportati come se fossero stati consapevoli di aver detto cose che avrebbero invece dovuto tacere. Uno di essi aveva tentato di farle credere che erano stati tutti ubriachi e avevano detto un mucchio di sciocchezze, mentre altri avevano invece cercato di ridurre lei in stato di ubriachezza, per scoprire con esattezza che cosa le avevano rivelato e cosa lei ricordasse.
Accoccolata su un tetto marcio e impraticabile, che avrebbe fatto cadere delle tegole proprio davanti agli uomini della Guardia se solo lei si fosse azzardata a muoversi, Narnra indirizzò alcune furenti imprecazioni alla luna che si spostava nel cielo.
Aveva riesaminato quei ricordi innumerevoli volte, e sapeva… lo sapeva… che Goraun e gli altri apprendisti tagliatori di gemme le avevano detto la verità, o almeno quella che avevano ritenuto essere tale. Le ci era voluto un intero anno di cauti sondaggi per avere la certezza che essi stessero parlando in senso letterale quando affermavano che la maga Maerjanthra Shalace, meglio nota in tutta Waterdeep come Lady Maerjanthra delle Gemme, gioielliera della nobiltà, era un vero drago con scaglie e ali, e non soltanto quel genere di donna che veniva definita un «drago» a causa del temperamento irascibile e dell’indole imperiosa e temibile.
E chi era il potente mago che l’aveva generata? Questo non glielo avevano mai detto.
«Tre monete d’oro», affermò una voce proveniente dal basso, quando un altro ufficiale della Guardia venne a raggiungere quelli che già stavano sbirciando nel vicolo. I due che erano a metà della scala che portava al nascondiglio di Narnra si fermarono e si voltarono, incuriositi da una strana nota nella sua voce.
«E allora?» chiese uno di essi, in tono rude.
«E allora significa che lo hanno adescato, non ci sono dubbi al riguardo. Però la nostra vittima è l’usuraio Caethur.»
Dalle guardie si levò un generale ringhio di disgusto.
«È un peccato che il ladro non lo abbia ucciso», commentò qualcuno. «Oppure lo ha fatto?»
«Oh, Caethur vivrà, anche se dovranno passare lunghi anni prima che riacquisti la voce, sempre che gli sia possibile recuperarla. Però, a meno che l’Usuraio sappia chi lo ha assalito… e sia disposto a dircelo… credo che nell’interesse di Waterdeep sia meglio se noi…»
«Proprio così», intervenne una voce più matura e profonda. «Sono certo che nelle vicinanze della Porta del Fiume stia succedendo qualcosa che richiede la nostra immediata attenzione. Aiutate Caethur ad arrivare al Posto di Guardia e vedete se è disposto a spiegarci cosa è successo, anche se non mi sorprenderebbe affatto constatare che non intende farlo.»
Il vecchio barbuto ignorò il grande scalone d’ingresso fiancheggiato da colonne di pietra e si diresse invece verso una rampa di gradini incassata nel fianco coperto di muschio di un giardino ricavato nella roccia che si allargava sulla destra del vasto e splendido edificio di pietra noto come la Dimora di Mirt. Passando attraverso una conca chiazzata di luce lunare, il vecchio procedette indisturbato fino all’arco di un piccolo ponte di pietra che univa la spalla sempre più alta del Monte Waterdeep, su cui si trovavano i giardini dell’usuraio, a una balconata superiore della sua casa fortificata.
Mentre era ancora a metà del ponte, l’aria davanti a lui parve scintillare, e il vecchio si trovò di colpo di fronte a una donna silenziosa avvolta in un aderente abito dalle pieghe fluenti… un indumento dello stesso pallido colore della luce lunare che tingeva i brandelli di nubi sparsi nel cielo.
«Buona sera, Ieiridauna», salutò Elminster, con un sorriso e un cenno del capo. «Mirt e Asper sono in casa?»
Lo spettro di guardia sorrise in silenzio e protese un lungo braccio ben modellato per indicare la porta alle sue spalle, poi fluttuò con esitazione in avanti fino a toccare la guancia del Vecchio Mago con l’altra mano, mentre Elminster muoveva lentamente un passo verso di lei.
Il soffice contatto della punta delle dita dello spettro raggelò profondamente Elminster e gli sottrasse un frammento di energia vitale, ma lui girò comunque il capo per baciare quelle dita gelide e poi strinse gentilmente Ieiridauna contro di sé.
Il suo respiro era un gelido alito di vento ghiacciato e per un po’ le sue spalle e il suo seno parvero farsi sempre più solidi con il protrarsi dell’abbraccio, poi Elminster si ritrovò di colpo con le braccia vuote quando lo spettro da guardia lo oltrepassò e si portò alle sue spalle, piangendo sommessamente.
«Sei troppo gentile, grande signore, troppo gentile!» gli mormorò all’orecchio. «Non devi darmi così tanto.»
«Signora», replicò Elminster, in tono altrettanto sommesso, girandosi verso di lei, «è mia speranza che tu dimori in Faerûn per almeno un’altra era a venire, per essere testimone degli eventi e sussurrare saggi consigli… e l’energia vitale è mia, da dare a mio piacimento».
Lo spettro da guardia scosse il capo e gli si inginocchiò davanti, la testa e le spalle argentee e solide, ma il resto del corpo ridotto a un semplice fluttuare dell’aria notturna.
«Mi fai un onore troppo grande, Lord Prescelto.»
«Ah, così riuscirai a farmi arrossire, ragazza!» ridacchiò Elminster, assumendo una posa eroica con una smorfia e una strizzata d’occhio, poi rivolse allo spettro un cenno di saluto e si diresse verso la porta, seguito dal suono lieve dei singhiozzi di Ieiridauna.
La semplice porta di legno scuro si aprì prima che la sua mano potesse toccarla, e una faccia dagli ispidi baffi sbirciò verso di lui da una stanza immersa in un buio più fitto di quello notturno.
«Stai di nuovo seducendo il mio spettro da guardia, El? Non c’è proprio limite alla tua lascivia?»
«Sembrerebbe di no, Lord Tricheco», ribatté Elminster, allargando le mani. «E neppure alle mie interferenze e alla mia curiosità, quando si tratta degli affari degli altri… come quelli delle persone troppo ricche di Waterdeep».
Grugnendo, Mirt gli segnalò di entrare.
«È meglio che tu abbia una valida ragione per questa visita… ci hai interrotti nel bel mezzo di una danza di Asper.»
«Ah!» esclamò Elminster, mentre entrambi passavano fra due orrori immobili dal capo coperto da un elmo per entrare in una camera da letto rischiarata da lampade e dominata da un massiccio letto a baldacchino dalle numerose colonne. «Prego, continuate pure!»
Sul letto, l’amante di Mirt si districò da una posa all’apparenza impossibile. La donna era bilanciata in equilibrio sulle spalle, la testa che guardava all’indietro e le gambe che s’inarcavano sopra di lei in modo da farle pendere davanti al naso una gemma che teneva stretta fra le dita dei piedi. Asper ripiegò le gambe all’indietro in un fluido movimento aggraziato, lanciando la gemma verso l’alto in uno scintillio di riflessi luccicanti, e l’afferrò al volo con abilità.
«Più tardi, così sentirò meno commenti lascivi», rispose. «Cosa sta succedendo?»
«In questo modo ti procurerai uno strappo», ammonì il Vecchio Mago, guardando Asper catapultarsi in avanti e da un lato in un abile movimento sinuoso fino a venirsi a trovare distesa sul bordo del letto, rivolta verso di lui.
«Come no… mi procurerò l’attenzione assoluta di un usuraio e di un Prescelto di Mystra», ribatté la ragazza, con un sorriso pieno di affetto. «Bevi un po’ di quel vino e parla».
Inarcando le sopracciglia, Elminster protese una mano, e una bottiglia si sollevò da una selva di altri recipienti simili disposti su un’alta cassapanca adorna di incisioni, fluttuando fino alle sue dita.
«Non mi meraviglia che i maghi siano simili ubriaconi», borbottò Mirt. «Se anch’io potessi fare una cosa del genere…»
«Non saresti mai costretto ad alzarti dal letto», commentò Asper. «El?»
«Vengo da Cormyr», spiegò il Vecchio Mago, stappando la bottiglia e annusandone il contenuto con apprezzamento. «Laggiù, una quantità di denaro tale da poter essere meglio descritta come “enormi mucchi di ricchezze” sta venendo spesa per finanziare una campagna segreta che mira a rovesciare gli Obarskyr e a porre un nuovo re sul trono di Cormyr».
«E cosa ci sarebbe di nuovo in questo?» grugnì Mirt. «I nostri cosiddetti nobili spendono il loro denaro in maniera simile anche qui, cercando di scoprire l’identità nascosta di ciascun Signore, in modo da poterci far assassinare e da poter corrompere i superstiti perché li scelgano per sostituirci. A quanto pare, non riflettono mai sul fatto che in questo modo si esporrebbero al rischio di essere a loro volta assassinati, ma del resto capita di rado che un nobile abbia anche solo l’intelligenza necessaria per riuscire a vestirsi da solo. Allora», continuò, protendendo la mano, «hai intenzione di bere o pensi di continuare soltanto a reggere quella bottiglia?».
Elminster trangugiò un sorso con un sospiro di apprezzamento.
«Eccellente!» commentò, consegnando la bottiglia al vecchio usuraio. «Dunque», proseguì, accostandosi al letto per sfilare la grossa gemma dalle dita di Asper e usarla per accarezzarle distrattamente le lunghe gambe snelle, «queste monete provengono da tasche ben fornite che si trovano da qualche parte qui a Waterdeep, ma non so a chi appartengano e non so neppure con precisione in mano a chi vadano a finire questi fondi quando arrivano nel Regno della Foresta. Tuttavia, sto aspettando a intervenire nella speranza che voi…».
«Lo scopriamo per tuo conto, signore?» sorrise Asper. «Certamente».
Con un grugnito di assenso, Mirt passò di nuovo la bottiglia a Elminster.
Naturalmente, essa era già mezza vuota.
Instancabili, le lacere nubi si rincorrevano a vicenda nel cielo, simili ad altrettanti spettri argentei che fuggissero davanti a una profonda oscurità. Dai bastioni, dalle finestre e dalle postazioni di guardia sul Monte Waterdeep, le sentinelle rabbrividirono e distolsero lo sguardo. Con l’alito che si materializzava come brina nella gelida aria notturna, ciascuna di esse rifletté, con qualche malinconica variazione, sul fatto che ci sarebbero state notti come quella molto tempo dopo la sua morte, così come ce n’erano state molto tempo prima della sua nascita.
Tutt’altro che rallegrato da quegli allegri pensieri, ciascuno di quegli uomini si strinse intorno al corpo il mantello o la veste da camera, scosse il capo e cercò di richiamare alla mente cose più piacevoli.
Elminster sollevò il capo per contemplare il susseguirsi di lacere nubi fuggenti… così tante fiamme d’argento che correvano nella luce lunare, spinte dalla fretta silenziosa di arrivare altrove.
«In una notte di luna come questa può accadere di tutto… e fin troppo spesso accade davvero», mormorò, mentre passava sotto una stretta e fetida arcata per addentrarsi in un vicolo ingombro di sterco e di rifiuti.
Il vicolo era a fondo cieco, cosa che destò la perplessità dell’ombra appollaiata in alto che, simile a una voluta di fumo, stava scivolando in avanti su un basso tetto.
Quei dannati mercanti si erano recati alla loro fatale riunione portando con loro poco denaro, tutti quanti. Naturalmente, la sacca che lei aveva nascosto dove nessun altro sarebbe mai riuscito a trovarla era piena di gemme scintillanti e di atti legali che la rendevano proprietaria di tre edifici… addirittura nel Rione del Castello!… ma le monete che aveva usato come esca erano perdute e adesso soltanto tre soldi di rame si paravano fra lei e la fame. Ed ora, per di più, quel vecchio borbottante stava passando proprio sotto il suo nascondiglio migliore…
Il vecchio non sembrava tipo da avere con sé parecchio denaro… ma del resto a lei non ne serviva molto… appena una manciata d’oro per sostituire quello che aveva perduto… solo che le serviva subito.
Spostandosi sul morbido strato di muschio che copriva le logore tegole di legno, Narnra strisciò fino alle rovine di una vecchia torre campanaria che si ergevano sopra il punto centrale del vicolo, proprio nel momento in cui il vecchio passava sotto di lei…
Narnra non aveva più monete e neppure un mantello, ma quell’uomo non sembrava tipo da opporre eccessiva resistenza, e del resto soltanto gli stolti e gli ubriachi si aggiravano disarmati di notte in quei vicoli, quindi le sarebbero dovuti bastare un’altra manciata di sabbia e un calcio deciso quando gli fosse piombata addosso, seguiti da una rapida fuga.
Narnra passò sul tetto successivo, giungendo quasi in fondo al vicolo. Fra un momento, il vecchio si sarebbe accorto che non c’era via d’uscita, avrebbe imprecato e si sarebbe girato, quindi Narnra afferrò una manciata di sabbia, controllò la lama annerita che portava nel fodero affibbiato al polso e si sporse oltre il bordo del tetto.
«Oh, sì!» esclamò, in tono ansimante.
Il suo tono era calibrato in modo da indurre qualsiasi uomo a sollevare lo sguardo, e non appena esso ottenne l’effetto desiderato, lei lanciò la manciata di sabbia, con tempismo perfetto. Dal basso giunse il rumore di uno spostamento affrettato… per gli dei, quel vecchio si era addossato all’estremità cieca del vicolo con la rapidità del vento… poi Narnra spiccò il balzo.
Sebbene fosse scivolato sul viscido strato di rifiuti che copriva il terreno, l’uomo risultò troppo rapido nel muoversi, e Narnra atterrò con agilità felina su una massa di detriti fetidi, mancando del tutto la preda. Inoltre, il vecchio doveva aver avuto gli occhi chiusi quando lei gli aveva scagliato contro la sabbia, perché adesso la stava fissando con calma, un bagliore nello sguardo.
Con un sommesso ringhio inarticolato, Narnra estrasse il coltello e scattò in avanti, zigzagando nella speranza che il vecchio scivolasse sui rifiuti. L’uomo era ancora disarmato e adesso stava ridacchiando… una risata bassa e profonda, simile a quella divertita di un folle.
Furente, l’Ombra di Seta vibrò un colpo di coltello e al tempo stesso schivò di lato, in modo che il vecchio non potesse afferrarla o coglierla di sorpresa attaccando a sua volta; naturalmente, non temeva che lui potesse tentare un affondo, perché in mezzo a quei mucchi di rifiuti una mossa del genere lo avrebbe fatto finire lungo e disteso, ma cominciava a sentirsi certa che quel vecchio stolto non fosse soltanto uno stupido vagabondo, e…
L’uomo prese ad avanzare verso di lei, agendo in tutto e per tutto come se Narnra fosse stata la preda con le spalle al muro e lui il predatore in caccia. Assalita da un timore improvviso, Narnra affondò il coltello nel suo corpo, assestando uno strattone verso l’alto che avrebbe dovuto sventrarlo.
Fu come trapassare una cortina di fumo: il corpo del vecchio era solido contro le sue nocche, ma non esisteva per l’acciaio della sua lama.
Con una sommessa imprecazione che cominciava a prenderle forma sulle labbra, Narnra balzò all’indietro per sottrarsi a una mano protesa verso di lei e si allontanò di corsa, scivolando e incespicando sui rifiuti marci. Due occhi azzurri la fissavano scintillanti da sotto due sopracciglia scure, dominando un naso aquilino ancor più marcato del suo e una barba bianca. Nonostante l’età avanzata, quell’uomo era più alto, più snello e molto più rapido di movimenti di quanto le fosse sembrato, e per di più l’aria intorno a lui stava cominciando a risplendere.
Oh, Dei Veglianti, un mago!
Abbassandosi, Narnra schivò da un lato nella speranza di evitare l’attacco magico, quale che fosse la sua natura, e corse ancora più in fretta con l’intento di cercare di uscire dal vicolo. Quello era stato un errore…
Una cosa scura dotata di tentacoli si levò dai rifiuti e dalle ombre che si stendevano lungo il muro, davanti a lei, e si protese a sbarrarle la strada e ad afferrarla… una cosa dotata di molteplici occhi minacciosi che si spostavano viscidamente in un corpo molle che sibilava e gorgogliava nel venirle incontro.
Quella doveva essere un’illusione creata dall’incantesimo del mago, perché quando questi vi si era addentrato, nel vicolo non c’era stata traccia di cose viscide irte di tentacoli…
Un’appendice fredda e umida le si avvolse intorno al polso.
Narnra emise un urlo involontario e colpì furiosamente con il coltello, tirando e girandosi per evitare che alti cinque o sei tentacoli la raggiungessero; una sostanza scura e appiccicosa scaturì dalla creatura mentre lei singhiozzava e colpiva, tagliando e tirando disperatamente di qua e di là… finché qualcosa cedette e lei si trovò libera così all’improvviso che cadde all’indietro, rotolando in mezzo allo sterco, all’acqua sporca e a viscidi rifiuti putrescenti.
«Mirate», commentò il vecchio, con voce profonda quanto la sua risata, «una ladra ruba il suo più grande tesoro, la sua stessa vita».
Furente, Narnra si rialzò in piedi e si girò di scatto, ansimando. Adesso il mostro era scomparso come se non fosse mai esistito, ma il vicolo appariva cambiato, l’uscita non si vedeva più da nessuna parte ed esso sembrava una fossa rotonda cinta da vecchie mura fatiscenti e piena di rifiuti, spettrale sotto la soffusa luce lunare che filtrava fra le nubi che correvano veloci nel cielo.
Il vecchio era fermo vicino a un tratto di muro, le mani ancora vuote.
«Torna a casa, ragazza, lascia che siano gli stolti a rubare e trovati un mezzo di sostentamento migliore. Anch’io ho provato a fare come te e mi sono divertito, ma… ci sono modi di vivere migliori. Torna a casa.»
«Non ho casa», ringhiò Narnra, di rimando. «I mercanti di Waterdeep me l’hanno rubata, mi hanno rubato tutto!»
L’uomo avanzò lentamente di un passo, e Narnra sollevò il coltello con fare minaccioso ma con mano tremante.
«Mi dici di andarmene», ringhiò, spaventata, «e tuttavia mi nascondi la via d’uscita! Che scherzo è questo, mago?».
«Ah, già, quell’incantesimo ha questo effetto su alcuni. Resta immobile.»
Poi sollevò una mano e mormorò qualcosa, indicando verso di lei. In preda alla disperazione, Narnra cercò di schivare e di allontanarsi, solo che non aveva dove nascondersi, dove fuggire.
L’aria prese a risplendere di un colore diverso e lei si sentì pervadere da una sensazione formicolante. Impotente, debole e svuotata per il terrore, fissò il vecchio con occhi roventi e…
La sensazione svanì, ma il vicolo continuò ad avere l’aspetto di una gabbia cinta da mura. Davanti a lei, il mago emise un improvviso, breve sussulto di sorpresa, poi avanzò a grandi passi, cosa che indusse Narnra a indietreggiare fino a sbattere con la schiena contro una rozza parete di pietra.
«Sta’ lontano da me!» stridette. «Io… mi metterò a urlare e farò accorrere la Guardia».
Nel momento stesso in cui la pronunciava, si rese conto che quella era una minaccia ridicola, ma il mago non accennò neppure a ridere.
«Signora della notte», disse invece, a bassa voce, «gira la mano destra in modo che possa vedere le tue nocche».
Narnra gli scoccò un’occhiata rabbiosa poi obbedì, incuriosita. La caduta fra i rifiuti le aveva prodotto sul dorso della mano un graffio che stava sanguinando abbondantemente, e nel vederlo lei accennò d’istinto a portarsi la mano alla bocca per succhiare via il sangue.
«Sta’ ferma!» scattò il mago.
La sua voce echeggiò come un tuono, l’aria intorno a Narnra prese di colpo fuoco e una nuova magia le paralizzò completamente gli arti! Lei… adesso il vecchio avrebbe… non poteva…
I suoi occhi erano ancora in grado di muoversi e poteva respirare. Inoltre, qualcosa stava ardendo vicino a lei, una fiamma che si levava dove non ce ne sarebbero dovute essere: il sangue che le copriva la mano stava bruciando di un fuoco freddo e silenzioso.
Incredula e impotente, Narnra rimase a fissare quel fuoco che non consumava nulla e tuttavia ardeva: attraverso le sue fiamme poteva scorgere la propria mano sporca di terra e il sangue che la chiazzava, e non avvertiva dolore.
Adesso il mago era fermo proprio davanti a lei, e stava fissando a sua volta la fiamma tremolante che si estinse a poco a poco sotto i loro occhi.
Sconcertata, Narnra sollevò lo sguardo a incontrare quello del mago, e scoprì che questi stava sorridendo.
«Bene», commentò questi in tono riflessivo. «Bene, bene».
Lei continuò a fissarlo come paralizzata, incapace di replicare, e nel frattempo il mago si sfilò dalla manica una piccola borsa, che sembrava una sorta di baccello grosso quanto il palmo di una mano ma era fatta di un tipo di pelle duro e coperto di scaglie ed era appesa a un’elaborata catena di anelli metallici. Aprendola con il pollice, si lasciò cadere sul palmo sette monete d’oro, e con la stessa abilità di un giocoliere da taverna le impilò con uno scatto delle dita, deponendole con delicatezza nella mano sanguinante di Narnra.
«Ti auguro ogni bene, signora», disse in tono gentile, con un sorriso altrettanto gentile, poi le volse le spalle… e passò attraverso il muro.
Narnra Shalace rimase a fissare il punto in cui il vecchio era scomparso, sbattendo le palpebre con aria incredula nel contemplare l’ininterrotta superficie di pietra. Tutto quello che era in grado di sentire era il proprio respiro affannoso, la sola cosa che percepiva era il peso freddo delle monete sul palmo della mano, unito al lieve gocciolare del sangue sotto di esse e al peso confortante del coltello che ancora stringeva in pugno.
Era stato tutto così improvviso, così incredibile, così…
Quella fiamma, quale che fosse stata la sua natura, aveva colto il vecchio di sorpresa, ed era scaturita non solo dal suo incantesimo ma anche dalla stessa Narnra. E lui le aveva dato delle monete invece di ucciderla, l’aveva pagata, come se fosse stata una mendicante, una prostituta o… una ladra di successo, elargendole più oro di quanto lei avesse mai potuto sperare di ricavare da quel vecchio. E poi era svanito in un batter d’occhio, passando attraverso quel muro, e lei era…
Era di nuovo in grado di muoversi, almeno un poco, e le pareti del vicolo parevano spostarsi, tutt’intorno a lei, raddrizzandosi a poco a poco.
Disperatamente, Narnra fissò il punto in cui il mago era scomparso attraverso il muro, memorizzando l’esatto mucchio di rifiuti che lo contrassegnava. Adesso poteva muovere l’altra mano, sia pure con la stessa lentezza con cui una piuma sarebbe caduta a terra in un giorno senza vento, quindi la sollevò e prese le monete, rimanendo quasi sorpresa nel constatare che erano davvero solide e pesanti quanto sembravano essere. Con movimenti ancora lenti, che però si andavano accelerando a ogni istante che passava, ripose le monete nella propria sacca, poi si guardò intorno e constatò che il vicolo era di muovo lungo e stretto, con il fondo cieco e le pareti che descrivevano una lieve curva nell’estendersi verso la strada.
Con cautela, si avvicinò al punto in cui il mago era scomparso e protese il coltello verso il muro, scoprendo che esso attraversava la pietra come se fosse stata semplice aria; sempre più perplessa, si sporse in avanti, spingendo anche il braccio attraverso la parete.
Se la pietra le si fosse chiusa intorno, sarebbe andata incontro alla peggiore delle morti. Insospettita, offesa… chi era mai quel vecchio mago per darle lezioni, compatirla e farle l’elemosina come a una mendicante?… e al tempo stesso affascinata, Narnra Shalace si addentrò nell’oscurità.