6. Un altro giorno caldo ad Averno

Sembrava che si trascinasse da sempre, afflitto da quel dolore, nel paesaggio infernale, con un arcidemone che s’aggirava con passo pesante nella sua mente.

ACCIDENTI. NON ERANO QUESTI IL DIVERTIMENTO E I BENEFICI CHE MI ASPETTAVO… O CHE MI SONO STATI PROMESSI. MOSTRAMI QUALCOS’ALTRO! FAMMI VEDERE CIÒ CHE TI HA CREATO, PICCOLO ESSERE DI FUOCO ARGENTEO! VELOCE, PRIMA CHE CEDA AL DESIDERIO IMPELLENTE DI RENDERE TUTTO PIÙ DIVERTENTE.

[tarlo mentale, fuoco che avvampa e attanaglia la mente]

[urla, tumulto d’immagini, tentativo desolato di fuggire]

Un uomo arcigno vestito di nero cammina stancamente in un bosco gocciolante, la mano sull’elsa della spada. Il mantello che gli avvolge il corpo è puntato con una spilla d’argento a forma di rosa. Di tanto in tanto i suoi occhi vigili sembrano riempirsi di fuoco argenteo.

SÌ! ALTRO ARGENTO! TORNA ALL’ARGENTO CHE FLUISCE E BRUCIA! MOSTRAMELO!

Una spilla d’argento a forma di arpa, che ondeggia sul petto di qualcuno che corre, nell’oscurità piena d’ombra dove i cani ululano e gli uomini imprecano, subito dietro…

NON SFUGGIRMI, MAGO! MOSTRAMI LA MAGIA DEL FUOCO ARGENTEO ALL’OPERA, NON OGNI DANNATO OGGETTO D’ARGENTO CHE CONTIENE LA MAGIA! LA TUA MENTE È COME UNA BIBLIOTECA CON LIBRI A BRANDELLI, E ORA MI SCAGLI IN FACCIA MANCIATE DI PAGINE STRAPPATE!

MOSTRAMI ARGENTO E MAGIA INSIEME. SUBITO.

Un bastone dal manico d’argento, nero e sottile, pende dalla mano di un grasso mago barbuto. Sospirando, le palpebre pesanti, l’uomo arranca attraverso le sale dal pavimento di marmo scintillante, passa accanto a finestre alte e arcuate, il cui vetro superiore presenta rilievi colorati: immagini di un dragone purpureo in volo. Il Dragone Purpureo di Cormyr.

«Onorato Vangerdahast», mormora una voce da dietro, «la regina ha bisogno di voi, in fretta».

Il mago lancia un’occhiata all’interlocutore invisibile ma aumenta il passo.

NON QUELLO SCIOCCO MALFERMO! POSSO OSSERVARLO BENISSIMO DA SOLO!

Un altro uomo barbuto con indosso una tunica, più alto e più serio, cammina a grandi passi in una stanza dai molti letti, dove giovani fanciulle si stanno vestendo in fretta. Tuniche, fasce, stivali alti e giarrettiere creano una gran confusione. L’uomo non le vede, nonostante impartisca ordini rivolti palesemente a loro. Continua a camminare, lo sguardo fisso su una piccola sfera blu che fluttua nell’aria davanti a lui, volteggiando lenta e leggiadra di qua e di là.

NEMMENO KHELBEN DI WATERDEEP MI È SCONOSCIUTO. TUTTO CIÒ PORTERÀ A QUALCOSA, ELMINSTER? OPPURE STAI DI NUOVO SPRECANDO IL MIO TEMPO E CERCANDO ALTRI TORMENTI?

Le due facce barbute, insieme, assumono espressioni irritate mentre turbinano giù per un pozzo dai colori dell’arcobaleno…

Un’esile mano femminile si allunga lentamente, risoluta e sicura attraverso il chiaro di luna a toccare la spalla, avvolta da una tunica nera, di Khelben Blackstaff Arunsun. Il mago s’irrigidisce, sul volto un misto di sorpresa e d’apprensione. La mano si dissolve in un turbine di minuscole stelle, che fluttua, danza e vortica fino a formare un cerchio di nove stelle.

Khelben s’inginocchia, riverente, gli occhi fissi sul cerchio. Le nove stelle girano veloci e diventano sette, e le sette, una sola. Una che non è una stella, dopo tutto, ma un occhio blu-nero, contenente numerosi granelli che si muovono rapidi. Ammicca lezioso, una volta, poi scompare…

NO! BASTA CON GLI INSEGNAMENTI DI MYSTRA! CHE COS’È QUELLO, LAGGIÙ… DOVE TI SEI SOFFERMATO, DIETRO QUELLA SUCCESSIONE D’IMMAGINI SPEZZETTATE CHE NON MI SERVONO A NULLA! MOSTRAMI DOVE STAI ROVISTANDO!

[turbine d’immagini, scaraventate via]

COSÌ VA MEGLIO. GIUDICHERÒ IO CHE COSA VEDERE, PRIGIONIERO.

[scena luminosa che si svolge]

QUESTO RICORDO SEMBRA INTERESSANTE. LO VEDRÒ TUTTO.

La notizia si diffuse in città come un violento incendio. La Compagnia del Lupo stava entrando a cavallo. In testa il Lupo in persona, trionfante dopo la vittoria sugli eserciti di Amn nelle battaglie della lontana Seitrombe e sulle sponde di Winding Water. Dopo l’arcigno capitano sarebbero giunti cavalli e cavalli carichi d’argento, di monete, di bottini di terre lontane: sete del Calishite, spezie, vino e ogni sorta di oggetti bizzarri. I soldati avrebbero speso e festeggiato, per dimenticare gli amici caduti, la faticosa cavalcata e il sangue versato. Tutto ciò significava affari per le ragazze che frequentavano la Pantofola.

Mirt lo Spietato, uccisore di migliaia e migliaia di nemici, imboccò la solita via dalla Porta Sud, attraverso le strade tortuose della Zona del Porto, in testa a una fiera processione di uomini spossati in sella a cavalli esausti. Uomini, che giorni addietro avevano visto la morte in faccia, cavalcarono lentamente all’ombra del Castello di Waterdeep e si fermarono, finalmente, nel loro solito luogo di ritrovo: la costruzione vecchia e irregolare della taverna nota col nome di Pantofola Scarlatta.

Il Lupo rimase paziente in sella, mentre i feriti venivano portati alle infermiere appena ingaggiate, nella Zona Meridionale. Tre fidati capitani andarono a comprare cavalli, cibo e bevande fresche. Altri organizzarono le stanze per i volontari a cavallo della compagnia. Solo allora Mirt smontò dal suo destriero con un cigolio di protesta della sella di cuoio, ed entrò con le gambe irrigidite nell’ombra della Pantofola Scarlatta, a reclamare la sua prima fiasca di vino.

BAH! ANCORA AMORE E TENEREZZE! DEBOLEZZA! SOLO QUESTO CONOSCE IL NOSTRO MAGO?

È SOLO UNO SPRECO DI TEM… MA ASPETTA. QUESTO RICORDO NON PUÒ ESSERE TUO. DEVE ESSERTI STATO DATO DA MYSTRA. FORSE SE LO SEGUO, POSSO RINTRACCIARNE ALTRI E FINALMENTE… NESSUS, FINALMENTE… OTTENERE QUALCOSA DI UTILE.

La Pantofola Scarlatta era molto nota a Waterdeep, la Città degli Splendori. Ogni sera era frequentata dalle ragazze della notte, del genere meno costoso… giovani e vecchie, grasse e magre, bellezze locali o esotiche, pesantemente truccate e dall’aspetto eccentrico. Le cittadine che i mercanti chiamavano «fanciulle della sera» rimanevano nelle zone più raffinate della città. La Pantofola aveva una reputazione meno elevata.

Al calar della sera, quando il crepuscolo iniziò a insinuarsi furtivamente nei vicoli, cominciarono ad apparire le ragazze della notte che sopraggiungevano da sole, in coppia, o anche a gruppi di tre. Come ombre dal profumo leggero, scendevano alla chetichella dalle loro stanze disseminate ovunque nella Zona del porto; un numero sorprendente di loro proveniva dalle campagne. La notizia dell’arrivo della compagnia aveva scatenato ciò che i marinai chiamavano «una caccia grossa», con tanto di profumi, pellicce, tuniche di seta e di raso. All’interno della locanda il vino scorreva rapido, e la notte si stava facendo via via più rumorosa.

GLI UMANI SEMBRANO TRASCORRERE MOLTO TEMPO A FESTEGGIARE… MA LO STESSO FAREI IO, SE AVERNO NON FOSSE UN LUOGO IN CUI INDUGIARE SUL PASTO SIGNIFICA DIVENTARE TU STESSO UN PASTO. HMMM…

Guerrieri sfregiati e induriti ridevano, sbraitavano e giocavano a dadi. Alcuni, incoraggiati dal vino, dalla giovinezza o dall’impellenza del desiderio, iniziarono a ballare con le fanciulle della taverna fra i tavoli affollati. Altri scomparvero sopra scalinate scure o nei vicoli laterali ancor prima che facesse completamente buio.

In mezzo a quella confusione, silenzioso e vigile, l’uomo chiamato il Lupo sedeva carezzando una fiasca di vino, ignorando i mormorii, le carezze e le civetterie. Al contrario, i numerosi uomini che sedevano con lui guardavano la scena interessati. Con un rapido cenno del capo, Mirt concesse loro il permesso di lasciare, a turno, il servizio e di unirsi al divertimento.

Il corpulento comandante della compagnia, dal volto da falco, rimase prudentemente seduto al tavolo, senza mai allontanare troppo la mano dalla spada. Non si unì ad alcuna delle molte donne che gli si avvicinarono e il suo sguardo guizzò non più di una volta o due.

La serata trascorreva inesorabile. Gli avventori abituali della Pantofola entrarono alla spicciolata e si unirono alla baldoria e alle canzoni dei menestrelli del locale. Birra e vino scorrevano a fiumi. Altre persone si unirono alla festa: ufficiali della guardia, monelli, passanti e marinai. Molti se ne stavano in silenzio lungo le pareti accanto alle porte, attenti e curiosi. Mirt ricambiò gli sguardi, calmo e tranquillo, ma annuì a pochi e non parlò con nessuno.

Anche le ragazze della notte meno coraggiose si ammassavano accanto agli ingressi e rimanevano lì a guardare, timide e speranzose. Ogni tanto qualcuna veniva trascinata via per un ballo, oppure coglieva lo sguardo del favorito e scompariva con lui. Gran parte, tuttavia, rimanevano, immobili e desiderose, a guardare.

Mirt le osservò tutte con viso inespressivo, mentre il vino della sua fiasca diminuiva lentamente. Giovani o vecchie, basse o alte, formose o snelle… le aveva già viste tutte, o altre simili, più e più volte. Presto o tardi ne avrebbe scelta una, quale non lo sapeva, poiché nessuna aveva ancora suscitato il suo interesse, per trascorrere insieme a lei ciò che restava della notte. Non aveva fretta. Di rado un lupo si può rilassare.

D’un tratto notò una nuova arrivata. Con la grazia silenziosa di una signora, la donna entrò nella taverna e si pose dietro una schiera di prostitute più chiassose e spavalde, in piedi, nell’ombra. Mirt la notò poiché era molto più semplice delle colleghe.

Indossava una tunica grigia disadorna, non era truccata, non si atteggiava, non cercava di attirare l’attenzione. Il Lupo la guardò ancora e incrociò il suo sguardo. La ragazza sembrò momentaneamente sorpresa del suo interesse, poi ricambiò lo sguardo con calma e fermezza.

Mirt la guardò con maggiore attenzione. Aveva molti più anni di gran parte delle ragazze. La vide spostarsi tranquilla quando un guerriero si fece largo a spintoni. Aveva il naso adunco, più adatto al viso di un uomo che al volto sereno i cui occhi grigio-verdi l’avevano fissato con tanta risolutezza. In esso non c’era eccitazione, ma nemmeno derisione né disinteresse. Era in certo qual modo curiosa… ma c’era anche qualcos’altro dietro a quella maschera di fermezza.

Mirt si alzò senza indugio. Mentre avanzava, schivò mani audaci che lo accarezzavano e lo pizzicavano e ignorò inviti familiari, sussurrati o gridati. Con pochi passi raggiunse le donne che si tenevano in disparte. Alcune erano timide, o fingevano d’esserlo, altre erano giovani e insicure, o intimorite da rivali più esperte. La donna che voleva non aveva ancora parlato con nessuno. Gran parte delle ragazze la credevano una moglie o una creditrice, venuta a cercare un uomo della compagnia, ma non certo una prostituta.

Quando il soldato si avvicinò, numerosi occhi si spalancarono per la sorpresa, speranzosi. «Mirt», sussurrarono una decina di donne eccitate. «Mirt il Lupo!»

Vi fu un gran movimento di capelli e una bella mostra di gambe aggraziate, ma la signora in grigio rimase immobile, in silenzio. Qualcosa scintillò nei suoi occhi, ma la sua espressione non mutò.

Le fanciulle si spostarono, ancor più sorprese quando fu chiaro l’oggetto dell’attenzione di Mirt. L’uomo si fermò, la mano sulla cintura, e sollevò silenzioso un sopracciglio.

Quella donna era effettivamente vecchia per la Pantofola Scarlatta. Non l’aveva mai vista prima.

Altrettanto silenziosamente, la donna annuì, una volta. Il Lupo avanzò lento e le prese il braccio, come fossero amici d’alto rango a un ballo nel palazzo di Piergeiron, non due estranei impegnati a concludere un affare vecchio come il mondo in una locanda fatiscente. L’amuleto intorno al collo del Lupo rimase immobile e freddo; nessuna magia nei dintorni.

«Dove andiamo?» fu tutto ciò che chiese Mirt quando uscirono nel vicolo illuminato dalla luna.

Fra le ombre, figure scure si avvicinarono di uno o due passi, videro la spada pronta sotto l’altra mano dell’uomo e se ne andarono.

«Da questa parte», rispose fredda la donna. «Non è lontano». Risalirono lentamente la strada, verso il castello, che si stagliava alto sopra di loro. Mirt sembrava non avere fretta; era affascinato.

«Quanto, milady?» chiese in tono gentile ma neutrale.

«Non sono una dama, signore», fu la risposta. «Due pezzi d’oro, uno prima di entrare, l’altro al mattino.»

L’uomo sollevò le sopracciglia. «Non è molto che lo fai», constatò categorico.

«Il prezzo è troppo alto!» lo sfidò fredda la donna da sotto la sua spalla, senza però fermarsi.

Mirt scrollò le spalle. «Non si tratta di questo», rispose. «Hai parlato di mattino. Un trattamento riservato a un ospite gentiluomo.»

«Non è da molto che lo faccio, signore.»

Il Lupo si fermò e si guardò alle spalle. La sua compagna fece per divincolarsi, ma lui le tenne stretto il braccio.

«Ha cambiato idea, signore!» gli chiese lentamente.

Mirt scosse la testa, sollevò la mano e fece un cenno. I due uomini che li seguivano fecero altrettanto e se ne andarono, uno di loro sollevando la spada in un saluto silenzioso.

«No», rispose Mirt. «I miei uomini», aggiunse, e ricominciò a camminare. «Ora non ci seguono più.»

«Perché… no, non sei obbligato a rispondermi», ribatté la ragazza della notte. «Siamo arrivati, signore. Il pezzo d’oro!»

Senza parlare Mirt aprì la mano il cui braccio era intrecciato con quello della donna e rivelò una moneta d’oro scintillante.

E GLI UMANI CI CHIAMANO MALVAGI! ALMENO NOI NON MASCHERIAMO IL MALE CHE FACCIAMO!

Che cosa, Nergal, mi stai forse dicendo che non ci sono inganni all’Inferno? Nessuna bugia? Hmm?

IL MORTO RISORGE! BENE, BENE… GODITI PURE L’ESPERIENZA. IO MI AGGIRO DI NUOVO FRA I TUOI RICORDI, PICCOLO UMANO, ANCHE SE COMINCIO A DIMENTICARE PERCHÉ!

Ah, il mio incantesimo funziona!

[sbuffo, frustata mentale, gemito di dolore, risata diabolica] STUPIDO UMANO, VA’ AVANTI...

«Ancora sveglia, milady?» le domandò Mirt più tardi nell’oscurità. La donna si voltò dando le spalle alla finestra dalla quale stava guardando la luna innalzarsi sul porto, appoggiò qualcosa di lungo e di sottile, che scintillò al chiaro lunare, e tornò a letto.

«Sì», rispose dolcemente, infilandosi sotto le coperte. Mirt le mise un braccio attorno e la tirò a sé, per scaldarla. Dopo un momento la donna si rilassò e rimase immobile contro di lui. Il Lupo carezzò la cascata di capelli accanto alla sua spalla.

«Come ti chiami, milady!» le chiese.

«Nalitheen», rispose con una strana tensione nella voce.

«lo sono Mirt», mormorò l’uomo. Dopo un istante lei ridacchiò.

«Così hanno detto metà delle ragazze alla Pantofola, quando ti sei avvicinato.» La donna era appoggiata contro di lui, calda e immobile. «Il Lupo, ti chiamano. Uccisore di Mille. Credevo fossi più… selvaggio.»

Mirt scrollò le spalle. «Perché? Se sono adirato, combatto. In tal modo soddisfo la mia sete di violenza.» Tossì, e fissò l’oscurità. «Alcuni dei miei uomini sono crudeli, sì, e lo saranno sempre. Altri agiscono da spacconi perché sono troppo giovani per sapere ciò che fanno.»

«Ho ospitato alcuni di loro», asserì Nalitheen con tono neutrale.

«Quelli che hanno combattuto più a lungo», aggiunse Mirt picchiettandole la spalla, «non ti tratterebbero mai in malo modo. La cosa più grande che una donna può dare a un soldato è un riposo sicuro, affinché possa dormire profondamente e rilassarsi, senza temere di ritrovarsi un pugnale nelle costole».

«Lo so», mormorò Nalitheen. «Mio marito era un soldato. Fu ucciso due estati fa, vicino a Daggerford. Si chiamava Borold. Combatteva per Waterdeep, dove era molto stimato. Fu ucciso da mercenari inviati a impadronirsi dei lingotti d’argento della città, a cui stava di guardia. Tutti gli uomini sotto il suo comando furono trucidati e i signori si arrabbiarono molto.» La sua voce si assottigliò e divenne amara quando aggiunse: «Si arrabbiarono per la perdita dell’argento».

Mirt rimase immobile, gli occhi fissi nell’oscurità. Un piccolo brivido di tristezza andò ad aggiungersi al peso del dispiacere precedente, nelle profondità dell’animo. La Compagnia del Lupo aveva preso quell’argento, ingaggiata dai mercanti di Amn. Se Borold quel giorno aveva comandato le guardie, Mirt lo Spietato l’aveva ucciso. Un uomo robusto, con le basette e le sopracciglia arruffate. Prima di morire era stato abbastanza rapido da infilzare la sua sciabola nel braccio di Mirt. L’uomo si agitò, e fece per parlare, ma la voce di Nalitheen era suonata tanto aspra.

«Gli uomini che brandiscono la spada non hanno idea di quante donne patiscano la fame perché vengono lasciate sole, per sempre. Ne conosco molte che non sapranno mai se sono state abbandonate o se il marito è morto», affermò a bassa voce.

«Come hai fatto a sapere di tuo… della morte di Borold?» le chiese Mirt.

«Me l’hanno detto i soldati a palazzo, quando mi hanno convocato. per darmi la sua paga.» La donna scrollò le spalle. «Non so come l’abbiano saputo, e nemmeno se è vero. Mi diedero quaranta pezzi d’argento per la vita di mio marito.»

«Allora, milady», le domandò delicato il Lupo, «perché venderti? È per - perdona la mia sfacciataggine - solitudine?»

Nalitheen alzò nuovamente le spalle. «Ho due figlie. Devono mangiare. Di me stessa non m’importa, ora che Borold non c’è più. Ero solita pensare che l’avrei sentito gridare il mio nome, che l’avrei visto risalire la strada come faceva sempre, cantando. Ma ora so che non lo farà. Mai più.»

I due rimasero in silenzio per qualche istante. Poi il soldato domandò ancora, questa volta più duramente: «Ma perché… venderti?».

Nalitheen si voltò fra le sue braccia e lo fissò, nell’oscurità. «Che altro mi rimane?» chiese semplicemente. «So cucinare, sì, ma ci sono centinaia di persone da questa parte del castello che sanno cucinare meglio di me. Non ho esperienza di lavori manuali, né la forza per caricare e scaricare merci nelle strade e guadagnare qualche soldo. Tutto il resto in questa città è lavoro di corporazione e non ho il denaro per diventare apprendista. Inoltre, il salario non sarebbe sufficiente per sfamare due figli, nemmeno se io morissi di fame.»

Mirt le fece scorrere una mano lungo le costole. «Non hai molte riserve, eh!»

Nalitheen ridacchiò. «Me lo diceva anche Borold. Ho sempre mangiato poco.»

«Nulla da dire», le assicurò Mirt, e risero insieme. Poi l’uomo si fece silenzioso e poco dopo iniziò a russare. Nalitheen giaceva ancora fra le sue braccia, guardando il buio della notte… e, con sua stessa sorpresa, s’addormentò quasi subito.

VOI UMANI VI ACCOPPIATE CONTINUAMENTE. SE SPRECASTE MENO TEMPO A PARLARE IN QUEL MODO L’UNO NELLE BRACCIA DELL’ALTRO, AVRESTE PIÙ TEMPO PER UCCIDERE E SACCHEGGIARE.

Molte grazie, Nergal, ma si dà il caso che qualcuno a Faerûn l’abbia già notato.

[sbuffata] RIVELAMI QUALCOS’ALTRO, MAGO. LA MIA PAZIENZA È MOLTO DIMINUITA DA QUANDO TI HO CATTURATO.

Si dà il caso che io l’abbia notato.

[risata diabolica, immagini vorticanti]

Quando Mirt si svegliò e si rigirò nel letto, s’intravedeva un’alba grigia. Il cuscino accanto al suo era vuoto. Per prima cosa cercò la spada e la sistemò a portata di mano, come faceva sempre, poi si vestì rapido e silenzioso, per consuetudine, e si stirò un paio di volte come fanno i gatti.

Nalitheen entrò nella stanza prima che avesse finito, con due boccali ricolmi di ciò che sembrava essere brodo di lingua di bue. La donna si fermò all’istante vedendo Mirt completamente vestito.

Lei era scalza e, per tenersi calda, indossava una vestaglia rattoppata, un tempo elegante, aperta davanti ma legata mollemente in vita con una cintura. Gli porse il boccale con un sorriso appena abbozzato e si sedette al bordo del letto, stringendosi ancor più nella vestaglia.

«Te ne andrai, allora!» gli chiese, sollevando lo sguardo verso di lui, un’espressione strana nello sguardo.

Mirt annuì lentamente. «Devo. La compagnia riparte, oggi pomeriggio, dopo che avremo comprato cibo a sufficienza per proseguire.» L’uomo sorseggiò il brodo e annuì in segno di riconoscimento. «Grazie, lo apprezzo molto.»

Nalitheen lo guardò. «Lo stesso vale per la tua gentilezza di questa notte», rispose la donna. Mirt incrociò il suo sguardo, poi terminò deliberatamente il brodo e si alzò. Una moneta d’oro cadde dalla sua mano e rumoreggiò nel boccale quando lo ripose.

«Ancora una cosa, se mi permetterai», asserì lentamente. Nalitheen sollevò gli occhi dal bicchiere, mentre sorseggiava il liquido ancora fumante.

«Mostrami le tue figlie», esclamò quasi supplicante.

Nalitheen lo fissò per un istante, dimenticandosi d’un tratto del boccale che teneva in mano, poi annuì e lo condusse verso una tenda in un angolo della stanza.

La porta dietro di essa era chiusa. Con volto inespressivo la donna mise un’estremità della tenda nella mano di Mirt; poi si chinò e prese una chiave sottile da sotto un’asse del pavimento, la inserì nella toppa e aprì. Una scala conduceva di sopra, in una tenue oscurità.

Nalitheen gli fece cenno di precederla. L’uomo annuì e cominciò a salire, lento e guardingo e i pioli scricchiolarono sotto il suo peso; la scala terminava in una piccola stanza sotto la grondaia della casa, ora illuminata dal bagliore rosato delle prime luci dell’alba. Lassù lo attendevano i grandi occhi scuri e assonnati di due ragazzine dai capelli arruffati, che lo guardarono curiose dal letto che condividevano.

«Naleetha e Boroldira», le presentò Nalitheen standogli alle spalle. Mirt si voltò per la durezza della sua voce e vide le sue nocche bianche strette attorno a un pugnale, la punta perfida rivolta verso di lui. «È di Borold», aggiunse, fredda, indicando l’arma con la testa.

Mirt incrociò il suo sguardo furioso per un lungo e silenzioso momento, poi si voltò deliberatamente a guardare le bambine nel letto. «Signorine», le salutò con voce solenne, inchinandosi come fossero gran dame di corte, «io sono Mirt il Lupo. Vi prego di accettare le mie scuse per aver disturbato il vostro sonno. Naleetha, Boroldira; sono lieto di avervi conosciuto».

L’uomo sorrise e si voltò verso Nalitheen, il sorriso ancora sulle labbra. «Grazie», affermò. Poi passò accanto al pugnale come se non esistesse e scese le scale, senza fretta. Proseguì, con la donna dietro di lui, percorse le scale che portavano dabbasso e raggiunse la porta d’entrata della casa.

Quando si girò, Nalitheen era sul gradino più basso della scala, tremante, il pugnale ancora in mano. Aveva gli occhi colmi di lacrime.

«Metti via il coltello, milady», le suggerì dolcemente Mirt. «Non serve.»

Nalitheen scosse la testa, in un movimento lento e rassegnato, e lasciò cadere il pugnale per terra. Lo fissò silenziosa, con i capelli che le coprivano il volto.

«Da quanto lo sapevi?» le chiese Mirt a bassa voce.

«M-mi dissero chi l’aveva ucciso», sussurrò Nalitheen, e poi lo guardò furiosa fra le lacrime, il capo reclinato da una parte. «Mi dissero che Mirt lo Spietato aveva ucciso mio marito. Ti ho aspettato, due lunghe stagioni, a piangere da sola tutte le notti. Mi domandavo se ti saresti avvicinato tanto da poterti uccidere con questo pugnale.»

«E ora!» chiese Mirt, immobile, senza distogliere lo sguardo dal suo.

«La scorsa notte è stato diverso», singhiozzò Nalitheen, e guardò altrove, camminando lungo l’ultimo gradino delle scale. Giunta all’estremità si voltò e gridò: «Da quanto tempo tu lo sapevi! Chi ero e perch… che avevi ucciso mio marito!»

«Dalla scorsa notte. Quando mi raccontasti come è morto», le rispose sincero Mirt.

«E sei rimasto!»

«Avevo pagato», rispose pacato Mirt, e poi aggiunse: «Scusa, questa era crudele. Ti ho affidato la mia vita, Nalitheen. Allora e adesso».

L’uomo estrasse la spada, lentamente. Lei trasalì ma non indietreggiò. Lo sguardo fisso in quello di Nalitheen, Mirt aprì il fodero, lo scosse e ne fece uscire un sacchetto di stoffa. Le monete al suo interno tintinnarono forte quando vi mise dentro le mani.

«Questa», cominciò dolcemente, chiudendovi attorno le dita della donna con le sue, «è per te, per Naleetha e Boroldira. Mi dispiace. Tornerò e ve ne saranno altre. Hai la mia parola».

Nalitheen lo guardò, immobile e inebetita, la moneta d’oro fra le mani. Mirt la baciò delicatamente sulla fronte, rinfoderò la spada, e prese il suo mantello da un appiglio.

«Dio ti benedica per la tua carità, Mirt», gli sussurrò Nalitheen, con tono stanco più che amareggiato. Poi rabbrividì, scosse un po’ il capo e chiuse gli occhi, appoggiandosi allo stipite della porta.

«Questa non è carità», affermò il Lupo di Waterdeep quasi con ferocia mentre si voltava per avviarsi nella strada ormai chiara, «perché tornerò».

AH, COMMOVENTE! LA PIETÀ MAL RIPOSTA CHE GLI UMANI CHIAMANO «ONORE», CREDO. O FEDELTÀ, O QUALCHE ALTRA SCIOCCHEZZA DEL GENERE. E ANCORA… MENTI COME LABIRINTI, E QUESTA IN PARTICOLARE.

NON INDUGIARE, MAGO PRIGIONIERO… NERGAL BRAMA IL DIVERTIMENTO! CONTINUA!

* * *

«Mi offendi, maiale d’un mercante», asserì il calishita, l’accento pesante quanto il suo profumo. Malgrado non fosse più esile della figura sbuffante, seduta scompostamente con gli stivali sulla sedia, Velzraedo Hlaklavarr di Calimport era vestito molto meglio. Agitando il pizzetto, l’uomo in piedi proferì un fiume delicato d’imprecazioni che misero in dubbio gli antenati di Mirt, la sua igiene personale, le sue abitudini alimentari, gli hobby e la reputazione della madre, nonché la sua familiarità con i cammelli. «Per cortesia», aggiunse con un sogghigno, «spostati da quella sedia che occupi con tanta indolenza. Debbo farne uso… Velzraedo Hlaklavarr di Calimport, Primo Dito del Vizier Mascherato!»

La risposta di Mirt fu una ripetizione del rutto soave e risonante che aveva dapprima offeso il messo dalle vesti di seta. «Perbacco», esclamò guardandosi le unghie, senza muoversi dalla sua posizione al tavolo migliore del Brave Bustard, «ma certamente significa che senape e cotogna non sono adatte a stare insieme in una salsa… perlomeno non nel mio stomaco. Ma ora basta: la mia semplice vicinanza sembra avere un effetto notevole sulla sanità dei catamiti… o siete “calishiti”? Non ricordo mai! Perché…»

Il messo interruppe quella frivola osservazione con un ruggito di rabbia e afferrò uno dei dieci pugnali magici da tiro, dalla lama d’argento, che luccicavano appesi alla sua cintura. Il suo braccio non era altro che un ammasso di sete purpuree, finché non cozzò violentemente sul tavolo e rimbalzò insieme al naso di Velzraedo Hlaklavarr.

Il grosso deretano e gli stivali dorati del calishita finirono catapultati in aria, sollevati dalla sedia che, con un calcio, Mirt l’Usuraio gli aveva conficcato nella pancia. Nella taverna fattasi improvvisamente silenziosa tutti udirono il forte singhiozzo di dolore e l’ansimare di Hlaklavarr, rimasto senza fiato.

Con un gesto noncurante Mirt prese il pugnale dalle dita intorpidite del calishita, usò la punta per togliergli il turbante dalla testa e, delicatamente, spaccò una caraffa di vinfuoco sulla testa pelata del messo.

Il calishita sussultò, agitò debolmente le mani, rotolò su un lato e rimase immobile, la lingua penzolante sul bordo del tavolo.

Mirt sollevò lo sguardo verso i sei guerrieri in alta uniforme che il messo aveva portato con sé e sorrise, rigirando lentamente fra le dita il coltello da tiro di Velzraedo. «Siamo tutti affranti, ma purtroppo lui è collassato. Dev’essere l’aria che c’è qua dentro… molto cattiva, molto cattiva. Temo che le mie offerte non possano far nulla per migliorare lo stato delle cose, perciò, forse, sua eccellenza il Primo Dito si riprenderà più rapidamente e in maniera completa da qualche altra parte, hmm?»

Le guardie fissarono Mirt, le dita strette intorno all’elsa della spada… poi guardarono la dozzina di uomini rozzi e armati fino ai denti, seduti ai tavoli, pronti a colpire con armi e bottiglie. «Forse c’è della saggezza in quello che dici, mercante. Porteremo altrove il nostro padrone, in pace, e ricorderemo la tua gentile premura… e la tua faccia… nelle nostre preghiere, per il futuro.»

Mirt rispose con un gelido sorriso: «Come io la vostra… e se qualche divinità ascolterà le vostre fervide preghiere, il nostro prossimo incontro dovrebbe verificarsi presto, no? Sappiate che sarò pronto».

La guardia s’irrigidì per un istante, per sostenere il suo sguardo, dopodiché, con movimenti lenti e deliberati sollevò il messo privo di sensi dal tavolo e lo depose fra le braccia dei compagni. La scorta uscì, gli ultimi due soldati con la faccia truce rivolta verso la sala da pranzo. I gesti più svariati augurarono loro un viaggio rapido e movimentato… ancor prima che un improvviso tumulto e clangore d’armi in corridoio annunciasse il loro destino.

Il respiro affannoso e un sorriso ampio come il sole sul volto, Beldrigarr Scudodipietra della polizia irruppe nel locale. «Quei calishiti hanno causato guai qui dentro?»

Una decina di teste dal volto inespressivo gli fecero cenno di no.

Scudodipietra sogghignò. «Come pensavo. Beh, due di loro hanno tentato di far fuori un servo proprio sotto il mio naso, laggiù, accanto alla porta… e stavamo già cercando quel messo per aver speso monete false nel Sunset Sail!»

Il padrone del Bustard imprecò sonoramente e infilò la mano nel contenitore sotto il bancone. Ne estrasse un pugno di monete e le scrutò con attenzione.

L’ufficiale scosse il capo, ridacchiando e si sedette di fronte a Mirt. «Allora, Vecchio Lupo», borbottò. «Avrei dovuto saperlo che se… ehi! Che succede?»

Mirt l’Usuraio, il millantatore più famoso della Zona del porto, si era accigliato e stava scuotendo la testa, una strana espressione in volto. Il pugnale da tiro del calishita cadde dimenticato dalle sue dita e rimbalzò rumorosamente sul tavolo.

Scudodipietra indietreggiò come se l’arma fosse una vipera velenosa. «È… avvelenato?» borbottò, spostando lo sguardo dal pugnale a Mirt e poi di nuovo sul pugnale.

«N-no», rispose lentamente l’usuraio. «No, io… qualcosa ha appena toccato i miei pensieri.» Sollevò una mano solcata da una cicatrice, si toccò la tempia e aggiunse piano: «Non sono stati loro. No. Non credo che sapessero di Nalitheen o delle sue figlie». Il suo volto si fece ancor più cupo ed egli borbottò: «È meglio che vada a controllare. Forse sono in pericolo e gli dei mi hanno inviato un segno». Si alzò, gettò una manciata di monete d’oro all’oste ed esclamò: «Offri da bere, d’accordo?».

Un boato d’approvazione lo accompagnò fuori dal Bustard, ma non riuscì a rallegrarlo.

* * *

El appoggiò le mani su spalle morbide.

Capelli argentei turbinarono e due occhi freddi e imperiosi guardarono nei suoi. «Hai una vaga idea di quanto folle sia stato questo gesto, Elminster di Shadowdale?» gli chiese la Regina di Aglarond, mentre la rabbia le faceva alzare la voce come fosse una spada sguainata. «Avrei potuto ucciderti in un istante.»

«Ho trascorso tutta la vita a fare cose folli e ad affrontare pericoli», rispose dolcemente il Vecchio Mago. «Non ho intenzione di smettere ora… indipendentemente dalla bellezza della donna che mi ammonisce.»

Quelle parole la fecero sorridere. «Mi sembra di udire le lusinghe di un thayano», osservò la Simbul, tagliente come una lama.

«Loro, mia cara, hanno imparato l’adulazione da me», esclamò Elminster con tono solenne. «Tuttavia, non hanno appreso il mio buon giudizio, se sono tanto stolti da offrire violenza a una regina tanto potente, passionale e saggia.»

Alcune ciocche di capelli argentei si agitarono mentre parole sommesse le uscirono dalle labbra come colpi urticanti. «E se la violenza mi piacesse, vecchio uomo?»

«Allora potresti offrirla a me», rispose il mago nella sua tunica rattoppata e sporca, allargando le mani. «Mystra mi ha trasformato in una vecchia incudine, pronta a incassare i colpi di molti. Scatenati pure.»

Un sorriso, improvviso come un raggio di luna argentea, fendette la stanza. «Credo che mi divertirò», esclamò la Simbul rivolta all’aria intorno a sé. La regina si tolse la corona e la fece rotolare in un angolo. Guardò Elminster e sollevò un aggraziato sopracciglio. «Che fare ora… del mio meglio, o del mio peggio!»

«Signora», rispose il vecchio mago in modo altrettanto affettato, «lascia, ti prego, che sia io a giudicare».

MAGO, HAI UNA VAGA IDEA DI QUANTO SIANO NOIOSI PER ME GLI AMOREGGIAMENTI DEGLI UMANI? ORA, SE TU L’AVESSI INVESTITA CON UN CAVALLO MAGICO, O SEPOLTA ACCIDENTALMENTE SOTTO UN MUCCHIO DI LETAME O DI FRUTTA MARCIA E AVESSI DOVUTO SOPPORTARE LA SUA IRA, ALLORA MI PIACEREBBE VEDERE. MA LE PAROLE SMIELATE… CREDI CHE I DEMONI NON SAPPIANO NULLA DI QUESTE COSE?

INOLTRE, NON È UNA RIVELAZIONE IL FATTO CHE TI PREOCCUPI TANTO DELLE DONNE. QUALE ALTRO MAGO VECCHIO E LIBIDINOSO LO FAREBBE?

LA MIA IMPAZIENZA CRESCE. PENSO CHE TI DARÒ UNA PICCOLA LEZIONE.

E ALL’INFERNO INSEGNIAMO ATTRAVERSO IL DOLORE.

* * *

«Tutta Faerûn s’inchina davanti alla bellezza della… della regina di Aglarond», iniziò cauto il Messo Reale di Tantras, il sudore che gli scintillava sulle tempie. Bisognava rivolgersi a lei chiamandola «Strega-Regina» o «la Simbul»? In verità, chi mai osava dire qualcosa in presenza di una signora che sapeva essere una gatta affettuosa e un momento dopo una tempesta capace di far tremare il castello?

La Simbul sedeva scalza sul trono, avvolta in una tunica semplice, aperta dalle spalle alla fascia della vita, che si scostava dalle sue magnifiche gambe all’altezza della coscia. L’ambasciatore di Tantras riusciva a vedere con dolorosa chiarezza che la fiera governatrice di Aglarond non aveva un filo di grasso in eccesso. Notò, in effetti, ogni muscolo e ogni tendine contrarsi quando la donna si spostò in maniera pigra, chiaramente intenzionata a… Sacra Siine! Tieni a freno i miei pensieri…

«Un desiderio consono», mormorò la Simbul a voce bassa, affinché la udisse solo l’ambasciatore. «Sappi che le tue riflessioni non mi offendono, ma sappi anche che sono di fretta, e vorrei sapere rapidamente, bando alle formalità, quali siano i desideri di Tantras per il nostro giusto regno. In poche parole, muoviti, uomo!»

«Que… io… ah, voglio dire…» il messo reale iniziò sotto i migliori auspici. Irritazione, e poi rabbia s’impadronirono del volto reale di fronte a lui. L’uomo divenne bianco in volto e la sua bocca iniziò a tremare di terrore incontrollabile.

Un dito lungo e affusolato si sollevò in un gesto ampio, come a congedarlo.

L’inviato di Tantras si rese improvvisamente conto che forse gli rimanevano pochi istanti di vita. I cortigiani di Aglarond, allineati lungo i muri della stanza del trono, erano diventati tesi e silenziosi… e si stavano sporgendo tutti insieme per non perdersi alcun dettaglio della scena.

L’uomo piagnucolò, domandandosi dove fuggire e sapendo che qualsiasi movimento gli sarebbe stato fatale, e… e…

Ma era ormai troppo tardi. La Simbul sollevò la testa a mo’ di sfida, s’irrigidì, divenne scura in volto e i suoi occhi iniziarono a fiammeggiare. All’improvviso si alzò e voltò le spalle all’ambasciatore tremante. Fece qualche passo felino sul pavimento intorno al trono, artigliando l’aria in segno di frustrazione.

Che cos’era? Per la terza volta, mentre quello sciocco balbettava e tremava davanti a lei, l’aveva toccata, risvegliando qualcosa nelle profondità della sua mente. Oh, un tocco lieve, che l’aveva però turbata, tendendole i nervi e agitando il fuoco argenteo che fluiva nel suo corpo. Quando ciò accadeva, preannunciava sempre qualcosa di brutto. Inoltre, la metteva in agitazione. Metà di lei avrebbe voluto strapparsi i vestiti e volare, mutando di forma in forma, da drago a falco a pegaso, andando sempre più avanti, incalzata dallo spirito, nei cieli di Ferûn, in cerca di… qualcosa. Qualcosa che ancora non sapeva.

Alassra Silverhand rimase in silenzio, immobile, scossa soltanto dai brividi che le percorrevano il corpo. Stringeva tanto forte i pugni che le unghie le ferirono i palmi e il sangue cominciò a gocciolarle dalle dita. Fissava il pavimento, come se il suo sguardo potesse bruciarlo e passarvi attraverso… Un cortigiano si lasciò sfuggire un gridolino, subito soffocato, quando un filo di fumo si sollevò dalle piastrelle del pavimento fissate dalla Simbul.

Il Messo Reale di Tantras indietreggiò, gemendo il più silenziosamente possibile e lottando per mantenere il controllo di se stesso. Tremante fra le grinfie gelide della sua stessa paura, l’uomo era sul punto di gridare e di precipitarsi verso la sua nave, superando i cancelli chiusi del castello, le guardie in armatura e tutto il resto. Sarebbe potuto finire schiacciato dalla Regina-Strega di Aglarond in uno dei suoi attacchi di furia distruttiva… o, come la chiamavano alcuni, «pazzia».

Ora sui volti delle numerose persone disposte lungo le pareti si leggeva una profonda paura. Quando se ne accorse, l’ambasciatore di Tantras ebbe una crisi di nervi. Con un lamento primitivo, che avrebbe reso giustizia a un banshee precipitato in un pozzo infinito, il messo reale si voltò e fuggì dalla sala.

Quando il suo grido di disperazione raggiunse il culmine, la Simbul sollevò lo sguardo… e rimase sbalordita. La sala del trono era quasi deserta, solo alcuni dei seguaci più fedeli tremavano accanto alla porta. I loro sguardi erano fissi su di lei, i volti bianchi e preoccupati.

«Che cosa…? Oh», esclamò la Strega-Regina, interrompendo la frase rabbiosa quando vide la sua immagine riflessa in uno degli specchi alti e stretti che adornavano le pareti della sala del trono. Lingue di fuoco argenteo le uscivano dagli occhi e dalla bocca, mentre fulmini blu crepitavano dalla punta delle sue dita.

«Mystra», affermò a voce alta, «si tratta di qualcosa di serio. Fatti gravi accadono da qualche parte, cercano di raggiungermi, oserei dire… oppure sto finalmente diventando matta come dice la gente. Beh, in un modo o nell’altro, El me lo confermerà molto presto».

Agitò inquieta i fianchi, rise e fece un cenno rassicurante alle maghe accanto alle porte. «Ho bisogno di lui», annunciò Alassra, «è una debolezza a cui non posso più rinunciare. Thorneira! Phaeldara! Andate a riprendere quello sciocco urlante, tranquillizzatelo e ripulitelo se non è più presentabile! Portatemi messaggi, trattati e contese da appianare! Non è il momento di prendersela comoda e di andare a mangiare!»

Con sorrisi esitanti le apprendiste s’affrettarono a obbedire. Dopo che furono uscite dalla sala, la Simbul rimase sola in mezzo a quello splendore deserto e, guardandosi i palmi vuoti, aggrottò le sopracciglia. Ora i fulmini erano scomparsi, ma il fuoco avvampava e languiva appena sotto la superficie.

Che cosa, o chi, avrebbe potuto sfiorarla e turbarla in quel modo? Era tanto distante, tanto… strano, come una chiamata dall’Inferno…

Scuotendo il capo la Regina-Strega di Aglarond tornò a sedersi sul trono e afferrò la caraffa d’acqua e menta, appoggiata a fianco, sopra un letto di ghiaccio. Bene, come tutti gli altri guai che l’avevano tormentata per tutta la vita, era più che certa che, se l’avesse ignorato, sarebbe tornato ad affliggerla presto, e con maggiore violenza. E «presto» significava «subito». Sarebbe, in ogni caso, arrivato nel momento meno opportuno.

* * *

Elminster gettò la testa indietro e urlò ancora quando alcuni diavoletti gli strapparono le unghie e cominciarono a rosicchiargli le estremità sanguinanti delle dita.

I MORTALI CHE TENTANO DI FARMI PERDER TEMPO DOVREBBERO ASPETTARSI UN CASTIGO PER LA LORO IMPUDENZA.

La voce mentale di Nergal sembrò emettere un sospiro o uno sbadiglio. Questa volta la sua rabbia tra i ricordi di El era stata breve, e aveva lasciato dietro di sé un violento mal di testa. Il sangue fluiva ancora dalle orecchie e dal naso del mago e gli si raccoglieva in gola, ma in nessun istante durante l’ultimo tormento questi aveva perduto la consapevolezza del proprio sé, né del luogo in cui si trovava.

No, gli era stato risparmiato quel sollievo. Lo strepitio e il massacro infiniti che erano l’essenza di Averno imperversavano inesorabili attorno a lui. El e lo sciame di diavoletti si stava agitando su un promontorio sassoso, le cui macchie e le cui ossa indicavano che abitualmente era utilizzato a mo’ di mangiatoia. Da quell’altezza riusciva a vedere il paesaggio di roccia tormentata fino a grande distanza. Almeno tre draghi stavano volando nel cielo rosso sangue, circondati da stormi di demoni alati, che cercavano di uccidere le bestie che li azzannavano e li divoravano.

POI TI MANGERANNO LE DITA DEI PIEDI, POI LE MANI E I PIEDI. CREDO CHE PERSINO LA DISOBBEDIENZA DEL GRANDE ELMINSTER POSSA ESSERE ATTENUATA DA UN PO’ DI TEMPO TRASCORSO A STRISCIARE E A TRASCINARSI SUI MONCONI VIVI.

El non si curò di far leva sulla sua volontà per rispondergli mentalmente. Era troppo occupato a filare un vortice di ricordi per ingannare il suo aguzzino e fargli credere che stesse perdendo le facoltà mentali… per nascondere la lenta infiltrazione di fuoco argenteo che stava stimolando con estrema delicatezza dentro di sé. El doveva tenere il piacere del suo potere guaritore lontano dalla mente, in modo che Nergal non lo vedesse e non balzasse su ciò che avidamente cercava.

Qualcosa di enorme, di scuro e di terribile si levò all’improvviso sopra cima del promontorio. I diavoletti fuggirono spaventati fra urla e schiamazzi. Nudo, i monconi sanguinanti sollevati in un futile tentativo di difesa, Elminster si ritrovò di fronte un demone degli abissi. Nulla li separava se non i vapori di Averno.

Un sorriso lento e crudele si allargò a rivelare zanne divora-uomini; occhi scuri scintillarono di gioia. Per tutti i Nove Inferni, questa cosa vuole giocare. Probabilmente mi farà a pezzi molto lentamente.

Con un battito d’ali quasi indolente, il demone gigantesco si sollevò oltre il margine della roccia, la coda arrotolata come quella di un gatto crudele, e atterrò davanti al mago, leggero come una piuma.

Nergal, urlò Elminster, mettendo tutta la paura che poteva in quel grido, aiutami, in fretta… o il tuo giocattolo scomparirà, col fuoco argenteo, i ricordi e tutto il resto… e chiunque abbia mandato questo demone verrà a sapere del tuo complotto!

Rabbia rossa avvampò nella parte posteriore della sua mente. COME OSI…?

OH. FARFUGLIA, UOMO, TREMA, GRIDA… E POI AGITA LA MANO COME SE STESSI PER SCAGLIARE UN INCANTESIMO. NON FUGGIRE!

I secondi divennero lunghi minuti di pensieri frenetici - fulmini e luccichii fra gli scuri pilastri della mente - mentre Elminster eseguiva entusiasta ciò che gli era stato ordinato. Nergal si fece strada nella mente distrutta del mago, raccogliendo le sue forze per ciò che sarebbe venuto, e il suo prigioniero capì molte cose.

Una rabbia violenta pervase il Vecchio Mago e lo stimolò, una rabbia per quell’ultimo abuso. Nergal doveva essere distrutto. Non per la soddisfazione di un certo mago di Shadowdale, ma per i ricordi di cui l’arcidemone si era già impadronito. Ora sapeva troppo di troppa gente perché la Faerûn civilizzata potesse sopravvivere. Un demone libero di giocare avrebbe potuto manipolare individui importanti e, con loro, interi regni.

Nergal deve essere annientato, prima che qualcun altro venga a conoscenza di ciò che ora sa o che legga i ricordi che ha rubato… ma come?

Quella domanda rimbombava ancora nella mente del mago quando il demone degli abissi si avventò su di lui. Una magia tanto potente che lasciò El nauseato e tremante scaturì dal suo corpo, insieme alla risata trionfante di Nergal. Questi cavalcò la saliva insanguinata del mago lungo l’esofago del mostro, per poi esplodere al suo interno.

El s’inarcò all’indietro, ruzzolando in aria, avvolto in uno scudo di magia infernale mentre una serie di esplosioni annunciava il trionfo del suo aguzzino sullo sventurato demone. Gli incantesimi rimbombarono tanto forte da sgretolare persino le rocce su cui era appoggiato il nemico e da ridurre in cenere il potente demone. Elminster, nel frattempo, era rotolato indenne fuori dalla carcassa.

Nergal dev’essere distrutto. Ma come?

7

LA NOTTE SCENDE SU TAMAERIL

Ansimante e dolorante malgrado la parziale guarigione, l’essere strisciante in cui Elminster era stato ridotto barcollava, spossato al punto che nemmeno la sofferenza riusciva più a tenerlo sveglio…

SÌ, CADI PURE! CHE M’IMPORTA SE LA TUA FACCIA SI FRACASSA? MA NON FARMI ATTENDERE OLTRE, MAGO. SEI ANCORA VIVO PER I RICORDI CHE MI TRASMETTI, PERCIÒ MOSTRAMENE ALTRI. ATTENTO PERÒ A NON FARMI PERDERE ALTRO TEMPO, PERCHÉ MI STAI INSEGNANDO SIN TROPPO BENE UNA COSA: L’IMPAZIENZA.

[scintillio di numerose immagini, che mutano e fluiscono come sciarpe di seta nera mosse da una brezza chiara…]

Era il quarto giorno del mese di Flamerule, nell’Anno dell’Arpa. Nel chiaro cielo notturno sopra la grande città di Waterdeep, un cielo di colore del velluto blu reale brillava di stelle simili a minuscole torce lontane. Una brezza calda spirava fra le guglie e i leoni di pietra dei tetti cittadini. In alto, su un certo balcone, le porte di rame e di osso nero erano state lasciate aperte affinché entrasse l’aria.

Sulla balaustra del terrazzo si udì un improvviso trambusto. Un’ombra si levò nascondendo la luce stellare e scivolò con passo felpato nella stanza buia.

Un occhio guardiano fluttuava vigile e silenzioso nell’oscurità vellutata del letto a baldacchino. Guardando attentamente, l’occhio riuscì a mettere a fuoco l’intruso nella penombra. Era un uomo in abiti di pelle grigio fumo, con guanti e maschera, che impugnava una spada lunga e sottile. La luce lunare scintillò sulla lama d’acciaio quando l’intruso si voltò a destra e a sinistra per perlustrare cautamente la stanza da letto vuota.

Tutto era avvolto nel silenzio. Qualsiasi cosa cercasse, lì non c’era. L’uomo mascherato accostò l’orecchio a una porta, poi l’aprì silenziosamente. Un’altra stanza buia, piena di abiti appesi a grucce di legno, simili a pipistrelli in una caverna: non era per quelli che era venuto.

L’intruso richiuse la porta con cautela e attraversò la stanza, diretto a un’altra, più grande e sontuosa. Vicino alla porta si percepiva un fremito, una tensione che crebbe quando la figura mascherata appoggiò la punta del dito sulla sua superficie scura e la sospinse lievemente.

Dal punto in cui si trovava, poteva intravedere un’ampia scalinata che scendeva in una sala cavernosa dalla volta alta. L’oscurità regnava sovrana, fatta eccezione per deboli bagliori color blu acciaio, provenienti da una guardia in armatura, appostata davanti alla porta. Questa voltava le spalle all’intruso mascherato e impugnava una pesante spada.

Tuttavia sembrava fluttuare. Non si vedeva alcun piede spuntare dalle gambiere scure dell’armatura e posarsi sul gradino di pietra sottostante. Fra i guanti d’acciaio, le cubitiere e gli spallacci scanalati non vi era carne, e la luce lunare scintillava lievemente fra l’elmo e la gorgiera alta della corazza nera sottostante.

Dietro l’intruso la luce lunare si fece più intensa. L’elmo fluttuante della guardia si voltò leggermente, la spada si sollevò.

Con un lieve brivido il soggetto mascherato ritrasse lentamente la punta delle dita e lasciò che la porta si chiudesse. Poi alzò la spada, pronto, indietreggiò cauto di qualche passo e attese.

Silenzio. La stanza da letto stava diventando via via più luminosa; l’intruso diede un’occhiata intorno e si chinò per guardare sotto il letto, tenendosi a distanza di sicurezza. Lì dentro non si nascondeva nessuno e nulla si muoveva. Tese le orecchie e non udì alcun suono all’infuori di una musica lontana nella notte.

Via di lì, dunque. Con tre rapidi passi l’uomo mascherato guadagnò il balcone e si dileguò nell’ombra notturna. Ci sarebbe stato abbastanza sangue da versare, altrove.

FARESTI MEGLIO A MOSTRARMI UN PO’ DI MAGIA UTILE, VERME DI UN MAGO… OPPURE ACCENDERÒ LA TUA MENTE COME UNA TORCIA E LA FARÒ FINITA CON QUESTA PERDITA DI TEMPO!

Vedrai la magia, Nergal… e anche sangue e crudeltà, abbastanza da soddisfare persino te.

CERCHI DI FARMI INFURIARE O DI PLACARMI?

[silenzio]

UOMO SFUGGENTE! MOSTRAMI I TUOI RICORDI, O MUORI CON ESSI!

[immagini, che turbinano copiose]

Echi di risate giunsero fino a lei dalle stanze sottostanti. Le parole distinte e la magia che alcune di esse liberavano non riuscivano a penetrare i suoi incantesimi guardiani, ma Tamaeril riusciva ugualmente a udire il mormorio. I servi sembravano allegri quella notte.

Tamaeril fece per alzarsi per aprire la porta e ascoltare, ma poi si risedette sulla sedia dall’alto schienale e sorrise stancamente. Non aveva udito abbastanza discorsi in tutti quegli anni! Sussurri nei corridoi, schiamazzi e lagnanze nei bazar, e dibattiti freddi negli uffici mercantili della nobile casata in cui era nata. In quegli ultimi nove inverni, inoltre, aveva sentito altri discorsi altisonanti, attraverso l’elmo mascherato di un signore di Waterdeep mentre era intenta a giudicare, il nome e il volto coperti da segreto.

Forse alcuni dei figli più giovani dei Bladesemmer erano tornati in anticipo dai barconi del piacere o dalle feste danzanti a lume di lanterna che si tenevano nelle strade della Zona Settentrionale.

Se così fosse stato, ora avrebbero, senza dubbio, dato la caccia alle giovani serve di Casa Bladesemmer. Chi tornava più tardi spesso entrava nella sala del cortile anteriore su barelle trasportate dai servi della casa, russando o vomitando per il troppo vino bevuto e lo scarso buon senso dimostrato.

Tempo addietro, quando Bladesemmer ben più seri avevano governato la casata, non erano permessi divertimenti tanto sconsiderati. Ma il tempo cambia ogni cosa, e la sua marcia inesorabile aveva spazzato via quei fratelli, quegli zii e quei cugini più austeri, e fra loro il marito di Tameril. I giovani ridevano di più e nutrivano meno rancori; erano meno interessati ad accumulare monete d’oro e a mantenere vive vecchie tradizioni e antiche contese. Il mondo stava nuovamente cambiando, e chi era Tamaeril per fermarlo?

Una dama di nobile lignaggio, sì, e una signora della grande Waterdeep, per giunta, sebbene la sua signoria fosse tenuta segreta ai più. Tuttavia, l’età l’aveva relegata in quelle stanze protette da incantesimi, oltre che a un ruolo che le permetteva solo di dispensare consigli, approvazioni e disapprovazioni che venivano puntualmente disattesi, pur con grande delicatezza.

Tamaeril sedeva appoggiata alla sedia, a rievocare feste e pretendenti della sua giovinezza. Allungò la mano verso la fiaschetta alta e sottile appoggiata sul tavolo accanto a lei. La sua sagoma sinuosa, ricoperta d’argento, rispecchiò il baluginio della candela; la donna la sollevò fra le mani segnate dalla vecchiaia e guardò pensierosa il suo riflesso dai capelli grigi.

Nemmeno quattro notti prima Mirt le aveva parlato di organizzare un’ultima avventura. «Un ultimo lancio di noi, vecchi dadi.» Aveva scalpitato altre volte, seduto sulla sedia del suo signore, e aveva già pronunciato tali parole, ma lei non aveva mai percepito quell’eccitazione avida e crescente alle parole di Mirt. Forse…

Dietro alla fiaschetta intravide un improvviso luccichio di luce bianca e fredda… luce là, dove ci sarebbe dovuto essere solo il buio. Tamaeril l’abbassò per vedere meglio.

Un ovale via via più ampio di luce bianca fluttuante stava sospeso a mezz’aria e scintillava come fosse un cerchio di fiamme che non emanavano calore. Un cancello! Un portale verso un tempo distante, forse un collegamento di quel piano a un altro, a un mondo ancor più sconosciuto. Era tuttavia pericoloso, e non si sarebbe dovuto manifestare in quel luogo, all’interno delle barriere magiche!

Tamaeril appoggiò la fiaschetta e fece per alzarsi, portando la mano al pugnale ornamentale alla cintura… ma era vecchia e lenta.

Troppo lenta per la lama sottile e scintillante che, impugnata da una mano bramosa e inguantata, scaturì dalle fiamme fluttuanti del cancello e si avventò su di lei. Scivolò nel suo petto senza far rumore, con una facilità sconvolgente. Il suo bacio fu tanto freddo che i vecchi polmoni di Tamaeril smisero momentaneamente di respirare. Quasi incredula, la donna percepì il rumore della punta che penetrava nella sedia dietro di lei.

L’anziana signora fissò il volto mascherato del suo assassino… un giovane uomo, a giudicare dal profumo e dalla corporatura, con guanti e abiti di pelle grigia. Questi le sorrise con ferocia, un’espressione fredda e colma d’odio.

Staccando la mano dalla spada che inchiodava la donna alla sedia, l’intruso la portò al polsino dell’altro guanto, dove scintillavano alcuni piccoli ornamenti d’argento.

«Non mi conosci, Lady Tamaeril?» le chiese con voce bassa e suadente. La donna era certa di non averla mai udita prima. «Sono sorpreso. Le signore, in genere, sembrano non sapere nulla, ma tu sei una. dama e una signora. E i signori di Waterdeep, o almeno così mi è stato riferito», aggiunse beffardo, «sanno tutto».

La mano inguantata si stava ora avvicinando al suo petto, al di sopra della lama che la trafiggeva, proprio mentre il torpore della morte si diffondeva rapido dalla ferita. Impotente, Tamaeril la osservò portare una piccola spilla d’argento verso di lei, una spilla a forma d’arpa.

Un’arpa! Ora l’uomo gliela stava appuntando alla tunica, con delicatezza, prestando attenzione a non pungerla. Tamaeril sorrise per l’ironia di quel gesto, nonostante le forze la stessero lentamente abbandonando. Il sangue fluiva copioso sul suo ventre e lungo le cosce, rovinando la sua tunica preferita…

«Perché sorridi, Lady Tamaeril?» chiese la voce suadente, questa volta con una punta di rabbia. «Mi trovi forse divertente

A quelle parole seguì un breve silenzio. Tamaeril deglutì e si ritrovò impossibilitata a parlare.

L’uomo mascherato sembrava perfettamente padrone di sé. Quando parlò di nuovo, la sua voce era calma e controllata. Indietreggiò di un passo per studiarla, con la spilla al petto, e parve soddisfatto di ciò che vide.

«Sappi, Signora, che devi morire per fare ammenda della vergogna arrecata alla mia famiglia. Tu non hai avuto parte in essa, questo è vero, ma sei una signora, e avresti potuto rimediare. Non l’hai fatto, perciò ora devi morire. In maniera più rapida di quanto non avrei voluto, forse, ma sto ancora imparando, la mia “vendetta” è solo all’inizio. E come dicono i bardi, è piuttosto dolce.»

La mano inguantata si protese di nuovo e l’intruso si avvicinò. «Mi dicono che un tempo eri bella», esclamò quasi con approvazione, sollevando nel contempo la fiaschetta e agitando il vino rimasto. Poi indietreggiò, verso il fuoco freddo del portale, e aggiunse: «Ora che il colore ti è tornato, sembri carina. Le mie scuse per la tunica… ma non vorresti mai che qualcuno la indossasse dopo che te ne sarai andata, vero! Nessun uomo comune o fuorilegge» - la sua voce si fece improvvisamente fredda come l’acciaio - «dovrebbe esser visto per strada con le vesti raffinate di Lady Tamaeril!»

L’assassino sorseggiò il vino, pensieroso. «Rimarrò qui finché non morirai, naturalmente. C’è qualcosa di cui vorresti parlare?»

Tamaeril sedeva impotente e sempre più debole sulla sua sedia dallo schienale alto. Un ardito rivolo di sangue le stava scivolando freddo lungo la caviglia. Parlare… non era forse stanca di parlare! Eppure… tu sei una signora, e avresti potuto rimediare. Lei non era più potente di altri, e… La mia vendetta è solo all’inizio. Quell’uomo avrebbe ucciso quanti più signori fosse riuscito!

Gran parte di loro possedevano di certo Arte, forza o conoscenza della spada maggiori delle sue, ma molti erano vecchi o molto occupati, o entrambe le cose. Erano abituati a dormire profondamente quando si ritiravano nelle loro stanze, protette dalla magia e sorvegliate da guardie fedeli. Quanti ne avrebbe uccisi prima d’essere fermato!

Dentro di lei una voce sottile e gelida chiese, Sarebbe stato fermato? Un’ultima avventura, le aveva proposto Mirt. Beh, non era stata lei a sceglierla, ma questa a scegliere lei, la Signora della Fortuna permettendo, ed era davvero tale.

Tamaeril sorrise amaramente, proprio mentre lo stordimento dell’ultimo grande sonno s’insinuava nei suoi occhi. D’incantesimi, ne aveva ancora, ma nessuno che potesse uccidere quell’uomo o chiunque altro. Doveva usarli, per il bene di Mirt, di Durnan e degli altri, anche del giovane e serio Piergeiron…

La donna mosse le labbra per parlare, anche se esercitò la sua volontà in modo silenzioso. Una porta che non poteva vedere, dietro la sua sedia, una porta che non avrebbe più rivisto, si aprì improvvisamente, in risposta al suo comando.

«Ch-chi…?» riuscì a balbettare, mentre il sangue le colava lungo le costole più lentamente.

L’uomo mascherato sollevò ancora la fiaschetta.

Il suo segugio notturno fiutò il sangue, lo sconosciuto e la paura di Tamaeril in una sola volta e uscì dalla porta con un balzo silenzioso. L’ululato stridulo d’avvertimento e l’ardore della battaglia gli stavano ancora salendo in gola, quando aprì le fauci per azzannare il collo dell’intruso. Le zampe anteriori di Borgul abbassarono il braccio che l’uomo aveva sollevato per difendersi dalla sua furia.

Uomo e cane caddero insieme davanti a Tamaeril. La donna tentò di sollevare la mano per afferrare la spada che l’inchiodava alla sedia, ma questa tremolò e le ricadde lungo il fianco. Intontita, chiamò a raccolta la sua volontà e si concentrò sul tappo di cristallo della fiaschetta di vino sul tavolo accanto a lei. Si spostò, solo di qualche millimetro. Sì!

Le mascelle di Borgul si chiusero sulla fiaschetta, gettata verso di lui nell’istante cruciale in cui lui e l’uomo mascherato rotolarono insieme sul pavimento. L’intruso sibilò una parola, numerose luci minuscole pulsarono e Borgul s’irrigidì senza emettere altri versi. L’uomo che aveva cercato di uccidere si liberò e si rialzò in piedi.

Il grande segugio giaceva scomposto per terra, immobile, mentre l’intruso si parò davanti a Tamaeril, respirando affannosamente. «Hai altri cuccioli, Milady? Altro che possa uccidere davanti ai tuoi occhi! Beh, non riesci più a parlare!»

Tamaeril gli rivolse uno sguardo stanco. «Giovanotto», mormorò con voce rotta, mentre il petto si alzava e si abbassava nello sforzo di respirare con i polmoni pieni di sangue, «vorrei sapere chi… sei… e… perché… perché…». La donna tossì; il dolore agonico la costrinse a chinare il capo e le riempì gli occhi di lacrime rosse.

Nel contempo udì il suo assassino sussurrare dolcemente: «Dirti chi sono! Quando posso lasciarti morire nell’ignoranza! Accidenti, Tamaeril, graziosa signora, credo di non poterti concedere questa soddisfazione. Ti prego di accettare le mie più sentite scuse». L’uomo rise, emettendo un suono stridulo che la fece rabbrividire.

Tamaeril si sforzò di rialzare la testa e lo guardò con occhi offuscati. La sua volontà spostò silenziosamente il tappo di cristallo, sempre più avanti nella stanza; avrebbe avuto solo un istante una volta che lui l’avesse scoperto. Non avrebbe osato guardare fino all’ultimo momento.

La donna si sforzò di rabbrividire ancora, il che non le fu difficile, ma il dolore che le causò il movimento fu nauseante, perciò voltò la testa, come in agonia. Là. Il tappo fluttuò a qualche centimetro dal gong della servitù. Dei, aiutatemi!

La donna voltò lo sguardo verso di lui. Il gong suonò. L’uomo sorrise. «Oh, perbacco, Signora, chiama pure aiuto. Voglio testimoni che vedano e servi fedeli da uccidere con la mia Arte! Desidero godermi tutto ciò fino in fondo! I miei ringraziamenti!» Dietro di lui si udì un fruscio improvviso.

L’uomo si voltò con un sorriso sottile ancora sulle labbra. Una raffica di proiettili magici partì dalla sua mano per reclamare la vita dell’usignolo di Tamaeril, appena risvegliatosi, nella sua gabbia. L’aguzzino canticchiò allegramente mentre si udiva lo scalpiccio delle pantofole di una cameriera sulla scala sottostante.

L’anziana donna sollevò una mano e pronunciò un incantesimo di sua invenzione; la prima magia che aveva mai elaborato da sola, sotto la tutela del grande Elminster, molto tempo prima. Il tappeto elegante sotto i piedi dell’intruso si animò improvvisamente e lo fece indietreggiare con passo incerto verso il cancello fiammeggiante. Con l’altra mano, lenta e tremante, la donna afferrò la lama fredda che le trafiggeva il petto.

Riacquistato l’equilibrio, l’uomo mascherato si mise a imprecare con rabbia. «Ne ho abbastanza, vecchia scrofa!» sbottò. Poi si lanciò verso di lei e liberò la sua spada, girandola selvaggiamente nella carne mentre l’estraeva.

Tamaeril emise un debole grido e si ripiegò su se stessa, sputando sangue. La sua mano raggiunse la destinazione voluta quasi per caso. Le dita convulse afferrarono l’amuleto che teneva al collo. Tamaeril era vagamente consapevole che il suo assassino si stava avvicinando al cancello magico. La porta della stanza si spalancò e gli incantesimi guardiani brillarono improvvisamente. Il grido sottile della cameriera si levò stridulo. In risposta si udirono urla e scalpiccio di piedi.

L’amuleto emetteva un debole bagliore di color verde e blu, dal potere lenitivo. Il dolore diminuì mentre Tamaeril fissava quella luce e vi si perdeva dentro. Quasi non sentì i proiettili magici che squassarono il suo corpo vecchio e devastato, sollevandolo in posizione seduta sulla sedia dallo schienale alto. Poi la signora donò le sue ultime forze: nei brevi istanti che la separavano dalla morte, sussurrò un avvertimento al collega e amico Mirt. Mirt, attento! Un uomo mascherato… viene a uccidere i signori… possiede l’Arte… mi ha colpito, Tamaeril…

Fu così che, con l’orgoglio di aver compiuto quel gesto Tamaeril, la più anziana signora di Waterdeep, scivolò nell’abbraccio della morte. Il tappo di cristallo s’infranse sul pavimento. La stanza rimase silenziosa per un istante, prima che il flebile lamento di dolore del gatto preferito della donna cominciasse.

[Da qualche parte dell’Inferno, l’umano caduto… sdraiato scompostamente su pietre imbevute del suo stesso sangue… sprofonda affamato e tuttavia nauseato, arso dalla sete e tuttavia bagnato, nell’oblio che l’attende…]

NON MI SVENIRE ADESSO, INFIDO UMANO! ASSAGGEREMO ANCORA IL VERME MENTALE, INSIEME, D’ACCORDO? MI STAVI FINALMENTE MOSTRANDO UN PO’ DI MAGIA, DOPO UN GIRO FRA TUTTI I SIGNORI MORENTI DI WATERDEEP, SE BEN RICORDO...

[frustata mentale, tenaglie che si chiudono furiose, immagini che fluiscono]

Mirt l’Usuraio, un tempo chiamato Mirt lo Spietato, guardò il salotto scuro del mago e deglutì. «Che gli dei ci fulminino», brontolò, lo spadone scintillante serrato in un pugno irsuto. «Siamo arrivati al punto che i signori di Waterdeep possono essere uccisi nelle loro stanze private? E i maghi anche!»

Scrutò la stanza come un falco arrabbiato, i capelli ritti. Un’ascia da battaglia che portava alla cintura sembrò raggiungere da sola l’altra mano.

«Restami vicina, fanciulla», aggiunse. «Non posso proteggerti se non riesco a raggiungerti, come disse un principe chiacchierone alla sua concubina, poco prima che spargessi le sue cervella… ora non ricordo dov’è accaduto. Dei, sto diventando proprio vecchio!»

«Suvvia, mio signore», lo redarguì dolcemente Asper, la spada sottile in mano, mentre si voltava dandogli la schiena, gli occhi vigili sulla stanza, «ricordi quella ballata dei Randal Morn: “Sei vecchio solo se ti senti tale!”.»

Mirt bofonchiò, poi ridacchiò con riluttanza. «Sì. Sì, la ricordo. Ma ora silenzio, perlustriamo un po’ le stanze. Se qualche damerino ha intenzione di attaccarmi, lo voglio sentire arrivare!»

Erano in piedi nella sala cupa e disordinata di Resengar detto il Barbabianca (soprannominato Vecchia Zucca Pelata da alcuni apprendisti), signore di Waterdeep e amico di Mirt. O meglio, ex amico.

A una spanna scarsa dai vecchi stivali consumati e logori di Mirt giaceva Resengar, gli occhi scintillanti fissi sul soffitto decorato di stelle. Le mani del vecchio mago erano sollevate come per difendersi da un nemico; la bocca aperta, incredula. Qualcuno aveva aperto una seconda bocca nella sua gola, un taglio da cui fuoriusciva ancora sangue sul tappeto scuro.

Lo sguardo abbassato su di lui, Asper si aspettava che da un momento all’altro Resengar emettesse quella sua fossetta secca, che si guardasse attorno con la barba ondeggiante, come faceva sempre, per poi scusarsi di essersi addormentato. Ma passarono istanti silenziosi e il mago non si mosse. I suoi occhi fissi e ciechi divennero vitrei: Resengar non avrebbe più tossito.

A Mirt piaceva molto quell’anziano mago timido e confusionario, forse più di tutti gli altri signori, Durnan escluso. Quella sera non vedeva l’ora di udire e raccontare antiche storie davanti a un bicchiere di vino ancor più antico, insieme a quel vecchio pignolo, e di osservarlo mentre guardava bramoso Asper, trattandola con raffinata cortesia… finché il vino non l’avesse sopraffatto e lui non si fosse addormentato, al che i due si sarebbero alzati e sarebbero usciti in silenzio. Come al solito.

Invece qualcuno aveva ucciso Resengar Barbabianca nel suo salotto, la stanza privata per eccellenza, protetta dagli incantesimi e dalle difese dell’Arte. Qualcuno che aveva lasciato una spilla d’argento da arpista appuntata al petto del mago. Questi, che non aveva mai portato la sua runa, figuriamoci altri simboli, non possedeva infatti un simile ornamento.

Qualcuno avrebbe pagato. Pagato col sangue, se Mirt lo Spietato avesse avuto qualcosa da ridire. L’uomo non si era accorto di aver gridato quelle parole finché non udì la voce debole ma risoluta di Asper, «Sì, signore. Io sono con te e ti seguirò nella missione».

Mirt si voltò e le sorrise, e Asper vide i suoi occhi vecchi e rabbiosi riempirsi di lacrime scintillanti. L’uomo incrociò il suo sguardo comprensivo, notò l’espressione del suo volto e scosse la testa, voltandosi rapidamente. «Bene, dunque», esclamò aspro, «diamo un’occhiata in giro! Non troveremo nessuno se ce ne stiamo qui impalati ad ammuffire!»

Asper si limitò a sorridere e ad annuire, mentre il suo signore si dirigeva a grandi passi verso gli angoli bui della stanza, le armi sguainate. In passato era stato un vero leone: con le sue spalle d’acciaio aveva brandito, a cavallo, asce e lunghe spade, dimostrando una forza tale da riuscire a fendere armature e ossa. O almeno così raccontavano i guerrieri nelle taverne.

Gli uomini l’avevano soprannominato Mirt lo Spietato, e quando cavalcava, il terrore lo precedeva. Lui era il Lupo e i suoi guerrieri, la Compagnia del Lupo. Saccheggiavano e uccidevano con feroce efficienza, ma il massacro non era la loro prerogativa, tranne nel caso in cui qualcuno non pagasse al Lupo quanto promesso o lo tradisse. Tali individui venivano perseguitati e uccisi, senza alcuna pietà.

Nessun uomo può fermare le stagioni, sostiene un detto, o sfuggire alle loro grinfie lente ma inesorabili. Gli inverni passano, indifferenti, e con loro le forze diminuiscono a poco a poco. Così il Lupo divenne il Vecchio Lupo, e Mirt divenne anziano, brizzolato… e ricco. Gli uomini non temevano più il suo nome, e lui non andava più in guerra. Il denaro che aveva guadagnato mettendo al servizio la sua spada, ora lo prestava, a interessi equi, nella città di Waterdeep. Chi tentava di imbrogliarlo constatava però che la sua spada non era divenuta poi tanto lenta, e che negli anni aveva imparato qualche trucco e qualche utile magia.

Quando i debitori onesti non riuscivano a restituire i prestiti, lui prestava loro altro denaro, in cambio di una parte di questo o di quello. In tal modo seppellì molti vecchi compagni di battaglia in tombe confortevoli, uomini che altrimenti sarebbero morti congelati, senza casa, nelle burrasche invernali. Mirt recitava preghiere sulle fronti dei moribondi o su resti ormai sordi, pagava i funerali e consegnava ai discendenti ciò che i defunti avevano lasciato. Le cose di cui era entrato parzialmente in possesso, stamberghe, negozi o navi che fossero, le acquistava e le faceva sue.

Con pazienza, dunque, Mirt l’Usuraio si era arricchito senza farsi troppi nemici, ed era diventato ben voluto nella misura in cui può esserlo un usuraio. Ben voluto! Sì, e infine anche signore di Waterdeep, per molte piccole gentilezze dimostrate negli anni della sua vecchiaia, e una in particolare.

Le ragazze senza tetto della città erano sempre benvenute alla Casa del Grifonegrigio, un tempo il quartier generale della compagnia di mercenari di Mirt. L’uomo aveva speso molto oro per assumere brave donne che allevassero ed educassero le ragazze, che lui stesso aiutava poi a diventare apprendiste, se lo desideravano, o a cui dava una dote quando venivano chieste in moglie.

«Le fanciulle di Mirt» dovevano sempre indossare tuniche dignitose quando uscivano in città. Una volta compiute diciassette estati, erano libere di prendersi l’equivalente del loro peso in oro e argento e di scegliere la strada che più preferivano nel mondo. Alcune rimanevano felicemente nella Casa del Grifonegrigio, altre chiedevano a Mirt di pagar loro l’apprendistato come fabbri, guerrieri o capitani di navi. Il Vecchio Lupo dimostrò, in sostanza, di avere un cuore tanto generoso quanto le sue tasche.

Se di tanto in tanto borbottava, si inquietava o dava in escandescenze, quelli che lo conoscevano passavano sopra a tali manifestazioni e valutavano la sua amicizia per ciò che era veramente. Mirt divenne grasso e ansimante per tutte le ore trascorse a gozzovigliare a tavole imbandite, ma non abbandonò mai le armi, né abbassò la guardia grazie al suo occhio attento e alla sua mente svelta.

Asper guardò il suo signore e vide rughe e una barba incolta, un ventre prominente e una chioma selvaggia di capelli quasi completamente grigi. Vide anche la rabbia ardere nei suoi occhi mentre controllava ogni anfratto della stanza con la spada sollevata, e lo amò ancor di più.

Lo aveva sempre amato, dal giorno in cui, molti anni prima, era capitato nelle strade di una città in fiamme, mentre le sue truppe saccheggiavano e uccidevano intorno e l’aveva salvata dagli zoccoli impazziti di un destriero senza cavaliere.

Uomini induriti dalla guerra erano rimasti a guardare sbalorditi mentre il loro generale, il freddo e micidiale Lupo in persona, sollevava fra le braccia la bimba in lacrime. L’aveva tenuta vicina alla guancia ruvida mentre afferrava le redini del cavallo terrorizzato, lo tirava il più possibile vicino, lo afferrava brutalmente per la criniera, vi saltava in sella e lo spronava lontano da quel luogo devastato.

Aveva assunto delle donne, quella notte e molte altre, ma era sempre lui a fare il bagno e a coccolare la sua bimba prima di metterla a letto, raccontandole fiabe e sussurrandole canzoni un po’ grossolane nella notte.

«Asper» era tutto ciò che ricordava lei del suo nome. Per lui era solo Asper. La bambina andava in battaglia con lui, legata alla sua schiena e avvolta fino al mento in pelli spesse, macchiate di sudore. Un grosso scudo d’acciaio lo copriva da spalla a spalla e proteggeva la piccola, per quanto questa uscisse semiassordata e un po’ ammaccata dagli scontri.

Mirt la nutriva con latte di giumenta, vino, frutta e formaggio, nella misura in cui riusciva a succhiarne dalle sue dita. Più tardi la bambina iniziò a mangiare pane e carne semicruda, e spesso rischiò di soffocare bevendo i forti vini che lui saccheggiava dalle numerose città. Guerrieri sfregiati e chiassosi le facevano il solletico e le mostravano come tirare i pugnali, fare nodi alle corde e usare le armi nel terreno fangoso di centinaia d’accampamenti. Asper era sempre allegra e iniziò ad amare quell’uomo che la faceva ridere tanto.

Gli inverni passarono e le campagne di guerra di Mirt si fecero via via meno frequenti. Asper alla fine perse il conto delle battaglie e divenne sempre più triste per ciò che i suoi occhi vedevano. L’uno dopo l’altro, molti guerrieri suoi amici esalavano l’ultimo respiro tra gemiti e grugniti, oppure rimanevano, dilaniati e immobili, in mezzo alla polvere. Anche Mirt invecchiò e divenne più lento e, finalmente, tornò nella grande e rumorosa città di Waterdeep per rimanervi, non più solo per fare baldoria, per le fanciulle della notte o per ingaggiare nuovi uomini.

Asper crebbe in altezza. Mirt cominciò a comprarle tuniche e pantofole raffinate; un giorno le regalò, non senza imbarazzo, un letto a baldacchino e una stanza tutta per sé. L’aveva anche tenuta abbracciata quando era rimasta sconvolta dagli incubi o, per semplice solitudine, non riusciva a dormire: lui allora la rassicurava goffamente e la riaccompagnava, risoluto, a letto. Iniziò persino a chiamarla figlia.

Dunque era stata la prima delle Fanciulle di Mirt, rifletté Asper, anche se lui la vedeva più come figlia che come consorte. Se vi fosse riuscita, non l’avrebbe mai abbandonato; sarebbe morta volentieri per lui, se gli dei lo avessero deciso. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, qualsiasi, per asciugare per sempre quelle lacrime che ora vedeva nei suoi occhi. Ma Resengar giaceva morto, e lei non aveva il potere di resuscitarlo.

Una volta terminato di perlustrare, rabbioso, la stanza, Mirt s’inginocchiò accanto al vecchio amico. Esaminò con attenzione il sangue, la ferita e il corpo straziato poi, con cautela, prese fra le mani la spilla d’argento. Asper non riuscì a scorgere nulla oltre il flusso silenzioso e improvviso delle sue stesse lacrime.

Un braccio forte e familiare le cinse le spalle. «Ora, fanciulla», le borbottò Mirt all’orecchio, «sorridi! Ricorda Resengar che ti guardava con occhi cupidi e ti mostrava quel piccolo incantesimo di cui andava tanto fiero, quello che generava il cerchio di stelle… Quando Mystra penserà al suo seguace Barbabianca, ricorderà tali cose e altro ancora… e sorriderà, puoi starne certa!»

Asper gli credeva, suo malgrado. Ah, Mirt! pensò, gli dei mi arridono, poiché mi hanno dato te come padre e come signore e forse, un giorno, anche come marito, tutto in una volta!

«No!» sussurrò l’uomo lentamente. «Per tutti gli dei, no! Tamaeril!» Asper si voltò a guardarlo, asciugandosi le lacrime, nel cuore un improvviso presagio. «Tamaeril!» gridò d’un tratto Mirt, la voce triste e bassa. Era sconfitto, ascia e spada penzolanti dalle mani, dimenticate.

«Signore!» sussurrò Asper, esitante. Mirt guardò nell’ombra un istante ancora, poi si voltò lentamente verso la voce, come richiamato da un luogo lontano. Aveva lo sguardo spiritato.

«Tamaeril è morta», mormorò rauco, poi i suoi occhi divennero di nuovo furiosi e il suo mento si sollevò. «Qualcuno sta uccidendo i signori di Waterdeep», affermò, la mandibola irrigidita, lo sguardo furente. «Qualcuno in grado di violare gli incantesimi guardiani», mormorò agitando, impaziente, la spada nella stanza, «la cui magia è insuperabile. Forse un arpista o qualcuno che vuol farsi credere tale. Potrebbe essere una donna, un illithid o peggio. Si aggira mascherato, questo è tutto ciò che so». Infine, scosse la testa, come per svegliarsi, e s’incamminò verso la porta con improvvisa energia. «Vieni, ragazza!»

«Dove andiamo?» chiese Asper, seguendolo fuori da quel posto di morte.

«A trovare Piergeiron. Tutti i signori devono essere avvisati». Il Vecchio Lupo scese per gli scalini di pietra consunta, diretto verso la porta d’ingresso ovale di Resengar e il vicolo ombroso sul retro.

«Tamaeril? Lady Tamaeril Bladesemmer?» gli chiese Asper a bassa voce, la schiena contro le spalle di Mirt mentre questi si chinava per sbirciare dalla feritoia della porta nell’oscurità oltrestante.

«Sì. È riuscita a mandarmi un messaggio prima di morire», rispose truce Mirt mentre apriva la porta con un calcio e protendeva nel vicolo l’ascia coperta dal mantello. Silenzio. Non si muoveva un’ombra; l’uomo scrollò le spalle, retrasse il mantello e si acquattò per lanciarsi nella notte. «Veloce», mormorò rivolto alla ragazza. «E stai bassa.»

«Mio signore», sussurrò Asper concitata, «non dovremmo andare a casa a prendere armatura e rinforzi, armi migliori, magia! Tu non sei l’ultimo dei signori! Sei in grave pericolo!»

Mirt sogghignò con ferocia. «Gli dei sapevano probabilmente che mi stavo annoiando. Affronterò il pericolo, fanciulla! Se colui che uccide i signori sa che sono un lord, allora lascia che mi trovi! Voglio essere trovato poiché, se così accadrà, anch’io troverò lui

La spada che brandiva si sollevò un po’, come un serpente pronto ad attaccare. «Devo scovare quell’assassino, subito», aggiunse tranquillo, e Asper rabbrividì suo malgrado. Poi scomparve nella notte. La ragazza strinse le labbra tremanti nel silenzio, sollevò la spada e lo seguì. Come sempre.

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