16. Per amore di un vecchio mago

Una massa di tentacoli si gettò rabbiosa verso quell’esserino nudo, sporco e incatenato, poi, riluttante, si ritrasse.

SONO MOLTO PERPLESSO: NON CAPISCO COME ALCUNI DEI RICORDI CHE MI HAI MOSTRATO SIANO DI TALE INTERESSE PER MYSTRA… E PER TE. PER QUALE RAGIONE SI TROVANO NELLA TUA MENTE, ELMINSTER? LA TUA DEA TI FA VEDERE SOLO CIÒ CHE DESIDERA, O ANCHE QUELLO CHE DESIDERI TU?

Per amore e per grazia, la Signora che servo mi concede ricordi di eventi a cui non potrei assistere ma che desidero conoscere. Le imprese di Mirt, per esempio… sentivo la necessità di capire il carattere di quest’uomo, in quanto collega e Arpista.

AH. COME IO GUARDAVO TE DA LONTANO, TU OSSERVI ALTRI. [grugnito] NON TENTERÒ DI NASCONDERTI, MAGO, CHE IN ME CRESCE LA RABBIA, MENTRE SCAVO NELLA TUA MENTE A CACCIA DI UN RICORDO DOPO L’ALTRO, COME SE CERCASSI UNA PIETRA NELLA GRANDE DISTESA DI ROCCIA CHE È AVERNO, E NON TROVASSI LA MAGIA CHE VOGLIO. I RICORDI DI CUI HO BISOGNO.

EPPURE LI DEVI POSSEDERE, O NON SARESTI CIÒ CHE SEI. NON CREDO CHE LEI SIA VENUTA PER CAMBIARTI, DURANTE LA SUA BREVE VISITA, L’AVREI PERCEPITO. PERTANTO I RICORDI DEVONO ESSERE ANCORA NELLA TUA MENTE, E IL TRUCCO STA NEL TROVARE QUELLI CHE TI HA DATO LEI.

MOSTRAMI UN RICORDO DI MYSTRA. NON IMPORTA QUALE; ORA SO CAPIRE LA DIFFERENZA E SEGUIRE LA TRACCIA CHE MI LASCI. DILUNGATI, E TI FARÒ ASSAPORARE ALTRO DOLORE. CONDUCIMI DOVE DESIDERO E VIVRAI PIÙ A LUNGO. UNO SCAMBIO SEMPLICE, NON TI PARE?

Sei stato chiaro.

HO SENTITO IL TUO TONO. RICORDATI UNA COSA: SEI NELLE MIE MANI. IO DECIDO LE CONDIZIONI, E I CASTIGHI. NON TE LO SCORDARE.

Oh, non potrei. Credimi.

UMANO, OSI MINACCIARMI?

Io non minaccio mai, demone. Io prometto.

[grugnito] TI PROMETTO IO UNA COSA: QUANDO AVRÒ CIÒ CHE DESIDERO, LA TUA SOFFERENZA SARÀ LUNGA.

TU OSI FARMI QUALCHE PROMESSA?

Non ancora.

[sguardo diabolico che cova sotto le ceneri, turbina e si getta ancora una volta nell’oscurità, sparpagliando di qua e di là immagini come stelle derelitte…]

* * *

Il cielo sopra Aglarond era grigio, grigio ardesia, e senza nuvole, come il metallo di un’armatura. La Simbul gli rivolse uno sguardo minaccioso dal suo balcone preferito. Si versò un bicchiere di una bevanda sulla quale aveva fatto incantesimi su incantesimi, per farla somigliare a un vino che El aveva magicamente estratto dalle rovine di Myth Drannor. Il bracciale, l’unica cosa che indossava, aveva cominciato a risplendere, indicandole che il siniscalco si era stancato di tenere a bada inviati e cortigiani e voleva che l’udienza pomeridiana nella sala del trono iniziasse senza ulteriore ritardo.

La Simbul tornò nelle sue stanze. Afferrata una tunica dal gancio più vicino senza nemmeno fermarsi, un abito di seta purpurea mista a oro, ornato con dragoni intrecciati, che avrebbe fatto meglio a regalare a qualcuno che nutrisse un po’ più di passione per i bei vestiti, la Strega-Regina di Aglarond se la infilò dalla testa. Imboccò un passaggio secondario, scavalcò una balaustra di fronte a una guardia rimasta prudentemente impassibile, atterrò su un’agrippina, a pochi centimetri da un gatto dormiente, si allontanò incurante del suo soffio di protesta, e percorse gli ultimi metri di tappeto fino alle porte laterali della sala del trono. Senza una fascia l’ampia tunica si gonfiò attorno al suo corpo.

La guardia davanti alle porte era al suo servizio da numerosi anni. L’uomo osservò il volto della Simbul e il suo corpo nudo solo per un istante. Scostò lo spadone e slacciò la cintura che lo teneva con movimenti frenetici, poi avanzò e gliela porse con la mano inguantata, in tempo per ricevere un sorriso abbagliante dalla sua regina. L’abbraccio impetuoso della donna lo fece roteare nel corridoio.

«Allacciamela», mormorò. Durante un’altra giravolta tra le sue braccia l’uomo eseguì l’ordine. Lei lo salutò, spalancò la porta con una spinta e scomparve.

Solo allora la guardia si chinò a recuperare i calzoni dal pavimento, ricordò che quello che portava era il suo secondo cinturone più bello e trasalì al pensiero che, in quel momento, la Strega-Regina di Aglarond stava avanzando verso il trono non solo con una spada e un pugnale al suo fianco, ma anche con un sacchetto di dadi, un cordino annodato intorno a un pezzo di formaggio con il quale attirare un amico topo fuori dal buco affinché gli facesse visita, e un sacchettino aperto contenente il suo miglior mazzo di carte volanti da solitario… quelle con le bellezze senza veli di Thay sul retro che, così gli avevano garantito, sarebbero rimaste sospese almeno tre secondi dopo essere state scartate.

Con un ghigno, Thaergar delle Porte decise che, se la regina se ne fosse accorta, probabilmente si sarebbe molto divertita. Grazie agli dei.

O almeno, così sperava.

* * *

Dunque ho chiamato, e i miei amici non rispondono, o non possono raggiungermi fra le legioni dell’Inferno. Sono perduto. È una crudeltà da parte mia, pura vanità, trascinare con me altri che possono vivere su Toril e servire come io ho fatto. Devo combattere questa battaglia da solo.

E battaglia sarà, poiché non ho intenzione di arrendermi docilmente. Lotterò. Mente contro mente, non posso sperare di sconfiggere Nergal perché lui può soffocare la mia volontà in un istante, infliggendomi dolori fisici. È una mente sveglia, incurante, troppo sicura, un bambino capriccioso sotto certi aspetti, e non può sperare di eguagliare la mia mole di ricordi o d’esperienze; in tutta la sua lunga vita ha fatto e rifatto le stesse cose e ha veduto molto meno di alcuni vecchi maghi umani.

Ma di ciò è consapevole: per questo sono ancora vivo. Sono più d’un giocattolo frivolo per lui, più di un trofeo che altri demoni non hanno, o di un’esca per attirare rivali in un luogo dove possa ucciderli. Io sono un magazzino che Nergal desidera ardentemente saccheggiare, la fonte della sapienza magica che brama e anche di qualcos’altro che si rifiuta di ammettere: i ricordi di sentimenti e di paesaggi meravigliosi, di momenti terribili e atti di bontà, di una vita, di tutto ciò che a lui manca. Se lo compiaccio, lascia che gli mostri ricordi che sa non contengono alcuna magia, o fuoco argenteo, o segreti di Mystra. Perché ne ha bisogno.

Glieli darei senza riserve, per rendere più umano un arcidemone, per dare a un essere infernale una comprensione maggiore di Toril, se non fosse per il suo verme mentale, che si prende ciò che condivido e lo strappa dalla mia mente.

Perciò tra noi dev’essere guerra. Una guerra che Elminster non può, ma deve vincere. Con ogni ricordo il Vecchio Mago si rimpicciolisce, è un po’ più vuoto, sempre più un guscio mormorante, e Nergal diventa più grande, un po’ più Elminster. In qualche modo devo combatterlo usando i ricordi che gli offro; devo scavarmi un cunicolo nella sua mente e sconfiggerlo dall’interno.

Ma per far ciò, devo consegnargli tutto quello che custodisco tanto gelosamente. Tutto. Mystra, no!

D’altronde, il prestigiatore che è in me si chiede, perché no? Alla fine otterrà tutto, comunque. Non posso fermarlo, solo manovrarlo scegliendo cosa mostrargli e quando mostrarglielo. La mia battaglia, e qualsiasi esigua possibilità di vittoria io abbia, può esistere solo in funzione della mia resa.

Non è forse questo che le donne prigioniere hanno fatto per secoli con gli uomini che le catturavano? Cercare di dominare chi le aveva imprigionate dosando ogni concessione?

Sarò armato e protetto dalla mia grande debolezza. Bene, allora, saluto il mio nemico, e la battaglia continua.

Devo riflettere ancora su tutto ciò. Ho bisogno di tempo. Gli propinerò un altro ricordo datomi da Mystra, in modo da guadagnarne un po’ per ordire la mia trama. Devo andare alla mia tenda e conferire con i miei generali, che sono tanti Elminster.

Spero che riusciremo ad accordarci su qualcosa.

* * *

Phaeldara stava in piedi davanti al trono, la faccia rivolta alla solita folla variopinta. Alcune gemme brillavano nella sua chioma ondulata di capelli purpurei. La donna si eresse in tutta la sua altezza, pericolosamente bella, e affermò: «Signori e signore, la pazienza è una virtù che più individui dovrebbero coltivare. In particolar modo in questo palazzo. Io…».

«Che vuoi dire, amata sorella di Aglarond? Il popolo non è forse consapevole dei miei compiti?» La Simbul parlò con voce allegra, ignorando il sospiro d’esasperazione proveniente dagli angoli più lontani della stanza. «O della mia… irrequietezza?»

Con un sorriso di sollievo Phaeldara si voltò a guardarla e, abbracciandola, mormorò: «A stento. Sono certa che gli stolti dalla tunica rossa a Thay riescono a sentirla. Va’ a far visita al tuo Vecchio Mago per qualche giorno, e… placa i tuoi appetiti».

La regina sogghignò. «Stai diventando tenera con me, Phaele?»

«No», l’ammonì la maga, un’espressione truce negli occhi scuri. «Questa mattina, dopo che hai rotto la testa a Lorn Thorvim con quel piatto, i-io ho provato a mettermi in contatto con Elminster per chiedergli di venirti a trovare. Lui… non sono riuscita a raggiungerlo.»

La Simbul s’irrigidì. Phaeldara indietreggiò cauta quando lo sguardo della regina si fece assente. L’aria intorno a lei cominciò lentamente a crepitare, e il rumore aumentò quando la governatrice di Aglarond riversò ulteriore potere magico nella sua ricerca. I piccoli fulmini si tinsero d’argento.

Un mormorio di paura e di costernazione si propagò fra i cortigiani. Qualcosa non andava.

La spada e il pugnale che indossava la regina cominciarono a fumare nei foderi. La fibbia che le teneva esplose all’improvviso tra mille scintille e scomparve. La cintura cadde con un tonfo, solo per essere scagliata lontano sul pavimento dalla furia fluttuante della tunica che la seguì. La regina rimase nuda, avvolta solo da furiose fiamme argentee.

«Oh, dea, no», la udirono mormorare. Poi il suo volto si tese e Alassra chiese supplicante: «Oh, Mystra, posso?».

Lunghi capelli argentei le sferzarono le spalle nude, come se stesse soffiando un vento selvaggio. Uno sguardo fiero, ma cieco, si sollevò verso la volta dell’alto soffitto. D’un tratto gli archi scricchiolanti caddero sul pavimento con una cascata di scintille via via più flebili, e la Simbul si mosse.

«Thorneira! Evenyl, a me! Siniscalco, cerca il Mascherato! Phael, ho bisogno delle tue gemme… tutte!»

La maga alta cominciò immediatamente a passarsi lunghe dita tra i capelli purpurei, raccogliendo manciate di gemme che rifulgevano d’incantesimi. «E-ecco, mia Regina», balbettò, porgendole le pietre.

La Simbul le prese cautamente e fece un passo per baciare Phaeldara sulla guancia, senza cessare di scorrere la sala col suo sguardo da falco.

«Quell’uomo», sbottò puntando il dito. «Evenyl, uccidilo; è una spia di Thay!» Senza attendere gli sviluppi, la regina si voltò e indicò un altro uomo. «Costui viene a presentare una falsa richiesta contro un rivale; negagli l’intercessione reale. Phaele, il trono è tuo questa volta, ma se giungono inviati thayani in gran numero, cedilo al Mascherato, che parli per me, mentre tu ti recherai a Rashemen e persuaderai i loro inviati a venire e a prestare testimonianza.»

«Sua Maestà? State rinunciando al trono?» chiese audacemente un cortigiano.

Lo schiocco della sua testa che si voltava di lato fu tanto forte da udirsi in tutta la sala, sovrastando persino il rumore crescente degli incantesimi Thayani e il sollevarsi cauto degli scudi della materna Evenyl.

La guancia del cortigiano avvampò, come fosse stata schiaffeggiata direttamente. La regina gli lanciò un’occhiata micidiale e, lentamente, con voce fredda, rispose: «Thorneira, Thalance, Phaeldara, Evenyl e il Mascherato parlano per me in ogni momento, e lo stesso faranno durante la mia breve assenza. Obbedite loro con l’entusiasmo e il timore che dimostrereste a me».

Non dovette aggiungere «altrimenti…» ad alta voce, poiché tutti i presenti l’udirono mentalmente. Qualsiasi cosa avesse tentato di replicare il cortigiano tremante, si perse nel rimbombo delle porte che si spalancarono in tutta la stanza.

Mentre le guardie sorprese vi facevano capolino, gli oggetti cominciarono a uscire fluttuando dalle porte aperte: cinture e stivali, bracciali e corazze, orecchini e anelli, e bacchette roteanti, alcuni dei quali baluginavano di potere risvegliato. La stanza crepitò di magia e i cortigiani si riversarono fuori dalla stanza in cui si ergeva nuda e magnifica la Simbul.

La regina di Aglarond allargò le braccia e il suo arsenale d’incantesimi guizzò per abbracciarla e vestirla.

«Vado a salvare un uomo che vale più di tutti voi», affermò, la voce improvvisamente tremante, sull’orlo delle lacrime, «e molto, molto più di me».

Con un turbinio di fiamme argentee e di stelle bianche e blu, la donna avvampò e svanì.

* * *

Le porte s’aprirono e la maga Phaeldara uscì con passo maestoso. Thaergar delle Porte scattò sull’attenti, la schiena arcuata, il viso impassibile. La guardia rimase sorpresa quando la donna si voltò e si rivolse proprio a lui.

«Queste sono tue, credo», affermò la donna in maniera brusca, porgendogli il mazzo di carte. Il piccolo pezzo di formaggio, un po’ più consumato e senza corda, era posato sopra il ventre tatuato - non poté fare a meno di notarlo - di Salambra la Lupa di Surthay. L’uomo rimase immobile, incerto sul da farsi.

«Prendile, uomo», lo incalzò la maga con voce bassa, che conteneva un tremito mai udito prima dalla guardia.

Sbigottito, Thaergar la guardò dritta negli occhi. Erano colmi di lacrime.

«Prendile, e prega per la nostra regina», gli sussurrò, porgendogli le carte.

Incapace di parlare, Thaergar ubbidì.

Phaeldara si mise a correre lungo il corridoio, mentre le falde della tunica sferzavano l’aria al suo passare, come panni stesi agitati da una tempesta.

La guardia la osservò allontanarsi, poi sospirò. A quanto pareva, era arrivato uno di quei giorni.

L’uomo rimase per un attimo sull’attenti, poi fece due rapidi passi, e spinse cautamente il formaggio nella tana del topo, in caso fosse stato chiamato a combattere per Aglarond e non fosse tornato alla sua postazione. Mai più.

* * *

BENE, BENE, CHE COS’ABBIAMO QUI?

Mi sembri di umore migliore, Lord Nergal.

FINALMENTE VEDO UN PO’ DI MAGIA, MAGO. STA’ ZITTO MENTRE SACCHEGGIO E MI DIVERTO!

[immagini che scorrono luminose]

Le rune di fuoco strisciante e mutante dell’ultima pagina la sfidarono, silenziose e, tuttavia, beffarde.

Laeral Rythkyn, detta «Laeral di Loudwater» per distinguerla da Laeral la Maga di Waterdeep, aveva lavorato su quel tomo semidistrutto con la solita pazienza. La sua eccitazione cresceva ogni giorno e a ogni nuova pagina. La pazienza e la meticolosità avevano fatto di lei una delle maghe più giovani e più potenti del Nord e l’avevano indotta a leggere, a praticare e a padroneggiare metodicamente, nonché a migliorare, tutti gli incantesimi contenuti nel libro.

Ogni pagina del tomo descriveva un’unica magia, diversa dalle altre, utile e bizzarra per quanto riguardava ingredienti, espressioni e gesti. Erano vecchi sortilegi.

E, pagina dopo pagina, ogni incantesimo si rivelava più potente del precedente. L’ultimo foglio era scritto con rune rosse, incantate e fiammeggianti, che si muovevano lente quando venivano osservate, indecifrabili e ammiccanti. Sicuramente contenevano un incantesimo speciale.

PER LA BARBA DI ASM… AHEM, PER GLI ARTIGLI DI TASNYA… VEDRÒ FINALMENTE UN PO’ DI MAGIA?

Zitto, demone, e continua a guardare.

[grugnito] MOSTRAMI. FAMMI VEDERE.

Il libro degli incantesimi era rimasto in una tomba in rovina nel sottosuolo di Everlund per almeno un’era. Laeral l’aveva trovato mentre aiutava alcuni amici arpisti a distruggere un paio di fantasmi in quei cunicoli scuri e ricoperti di ragnatele. Il tomo era poi stato dimenticato su un tavolo del suo studio per tutto l’inverno.

Laeral era stata occupata a istruire il suo apprendista, Blaskyn, affinché imparasse a controllare gli incantesimi più importanti, che conferivano a un mago il vero potere. Blaskyn si era comportato bene, dimostrandosi abile nell’elaborare i propri sortilegi e nell’aggiungervi gesti suoi. Presto sarebbe stato pronto per intraprendere il suo viaggio nei Regni. Pertanto Laeral gli aveva affidato il compito di curare la precisione dell’esecuzione e di inventare un nuovo incantesimo per conto suo. Nel frattempo, la maga si era dedicata al libro per approfondire i suoi studi.

ECCO FINALMENTE NOMI E LUOGHI… E ANCHE MAGIA, A QUANTO PARE. CONTINUA, MAGO.

[immagini che si susseguono stancamente]

Laeral fissò le rune, forse per la quarantesima volta in quel giorno, le sopracciglia un po’ aggrottate, i denti che mordevano nervosamente il labbro. Blaskyn sosteneva che quelle rune somigliassero a piccole fiamme balzellanti, e in effetti non si sbagliava… hmmm. Con un unico movimento flessuoso, la maga si allungò oltre il gatto che dormiva accanto a lei e afferrò un piccolo manuale sgualcito da uno scaffale. Lo sfogliò, in cerca di una magia di quand’era stata apprendista.

Eccola. Un semplice trucco dell’Arte, noto a una cinquantina di maghi di quella zona di Waterdeep. Se si aveva a disposizione una candela, un fuoco o una torcia, era possibile utilizzarne la fiamma per generare illusioni o parole. Laeral emise un lieve sibilo per l’eccitazione, s’infilò un anello protettivo al dito e cominciò a mormorare l’incantesimo concentrandosi sulla pagina.

Le rune rallentarono fino a muoversi pigramente, sembrarono congelarsi per un istante, poi fluirono piano a formare parole comprensibili. Erano in Thorass, Auld Comune, con le sue scanalature e i suoi ampi svolazzi, e recitavano:

Non sedere solo

Sul freddo trono di Thalon

A meno che tu solo non voglia restare

Padrone senza pari della magia.

Sieditici sopra durante la notte

E dell’Arte ottieni grande vista

Saggezza al di là di ogni mago

Nei Regni di quest’era.

Laeral increspò le labbra. Una filastrocca simile ad altre già incontrate nei libri del sapere e nelle biblioteche del Nord. Questa era, tuttavia, l’esempio più antico, e l’unico nascosto. Inoltre, presentava un codicillo che non aveva mai visto prima: due righe d’istruzioni dettagliate per raggiungere il trono, che, a quanto sembrava, si trovava nella Foresta Settentrionale nei pressi di Alander, i Picchi Perduti.

Perfetto. Era tempo di gettarsi nuovamente nell’avventura.

SPERO CHE QUESTO RICORDO VALGA IL MIO TEMPO, PICCOLO VERME. LA MIA PAZIENZA HA UN LIMITE PER QUANTO DIVERTENTI SIANO LE DIVAGAZIONI.

Tutto vale il tuo tempo, Lord Nergal, o hai fretta di andare da qualche parte?

[grugnito, schiaffo, sorriso diabolico e beffardo]

«Almeno dimmi dove stai andando», affermò Blaskyn, sfoderando il suo sorriso disarmante. «In tal modo saprò dove cercarti se Elminster il Potente o qualche re o altri ancora verranno a farti visita.»

Laeral ricambiò il sorriso dell’apprendista zelante, poi scrollò le spalle. A giudicare dal comportamento passato dell’uomo, nel periodo della sua assenza le fanciulle più carine di Loudwater si sarebbero dovute preoccupare ben più di quanto lei non si agitasse per la sicurezza della magia nella sua torre.

La donna sorrise fra sé. Fatta eccezione per le questioni legate all’Arte, lei era una di quelle giovani fanciulle locali. E anche carina, a detta di alcuni.

Beh, negli anni passati si era fidata di Blaskyn, e nulla era andato storto.

«Vado a caccia di leggende, Mastro Blaskyn.»

«Come sempre», ribatté, inchinandosi come un cortigiano di Silverymoon.

Laeral arricciò il naso. «Cerco il Trono di Thalon, un sedile di pietra che si pensa sia stato creato dall’arcimago Thalon, nei giorni precedenti la nascita di Myth Drannor.»

«Qualisiasi mago sieda sul trono di notte acquisirà sapere magico superiore a ogni altro stregone vivente», citò Blaskyn con voce cantilenante. «L’ho letto in quattro passi diversi nei tuoi libri!»

L’apprendista allungò il capo verso di lei. «Con tutta la gente che avrà letto del trono in questi anni, credi sarà rimasto ancora qualcosa!»

Laeral scrollò le spalle. «Per essere maghi, è necessario essere cercatori di conoscenza.» La ragazza citò la vecchia massima con dolcezza.

Blaskyn sospirò. «Sembra che un mago possa usare tale frase per giustificare ogni sua intromissione negli affari altrui», affermò, lo sguardo innocente rivolto al soffitto.

Laeral ridacchiò. «Incluse le tue, ah, passeggiate al chiaro di luna su Wychmoon Hill?»

Il mago arrossì, la fissò silenzioso per un momento e infine sogghignò ancora. «A proposito», aggiunse pensieroso, un istante dopo, «il verso del trono non dice di non “sedersi da soli”!»

La donna scosse il capo. «No, Maestro Blaskyn. Tu non vieni. Non questa volta, almeno», affermò e si diresse verso un’armatura scura appoggiata a una parete. Se non fosse stata tanto impolverata, avrebbe avuto un aspetto alquanto minaccioso.

«Ho bisogno che tu rimanga qui», asserì Laeral, mentre toglieva il pesante elmo dal sostegno e si voltava per porgerglielo. «Ecco, seguirai i miei affari al villaggio e raccoglierai notizie.» Gli spinse tra le mani il vecchio elmo disadorno, da battaglia. L’apprendista lo osservò, poi alzò silenzioso lo sguardo verso di lei, il sopracciglio sollevato con aria interrogativa.

«L’Elmo dell’Invisibilità», affermò Laeral. «Il resto dell’armatura è semplice metallo.» (Il che non era del tutto vero, ma nessun mago svela volentieri i suoi segreti.) «Ti nasconde da magie cercatrici e da ogni Arte che spia la mente. Ogniqualvolta lo vorrai, potrai avvolgerti nelle tenebre e sfuggire a molti occhi indagatori. Usalo se dovessero farti visita nemici potenti. Se tieni alla tua vita e alla tua Arte, Blaskyn, nasconditi, non sfidare nessuno! I libri d’incantesimi che ti sono stati mostrati, puoi consultarli e usarli liberamente. Gli altri, non li troverai.»

Blaskyn sorrise e annuì. «Naturalmente. Ho abbastanza da sperimentare con ciò che so; non temere, non mi metterò a frugare nella torre nell’istante in cui esci dalla porta. E nemmeno dopo se è per questo.» L’apprendista sollevò nuovamente lo sguardo al soffitto. «A condizione che chiuda magicamente le porte superiori, posso ricevere visitatori… che non esercitino l’Arte?»

Laeral arricciò il naso. «Uno alla volta, spero. E niente bevute sfrenate: in una casa di magia i risultati possono essere spettacolari, nonché fatali.»

Blaskyn annuì ancora, ogni traccia di frivolezza scomparsa. «Ti chiedo ancora Lady: sei certa di voler andare da sola!»

La maga annuì. «Non sarò sola. Ho questa.» Sollevò la bacchetta che giaceva sul cuscino accanto alla sua sedia. «È il mio bene più prezioso. Lo porto sempre con me.»

L’apprendista scosse il capo. «Non eri tu che mi dicevi», le ricordò, «che un mago che fa affidamento sugli oggetti magici è troppo sicuro di sé?».

Laeral ricambiò lo sguardo e rispose gentilmente: «Non fare troppo affidamento sulla tua magia mentre non ci sono, Blaskyn. Misura le parole e pondera con attenzione i gesti, poiché l’Arte da sola non ti salverà da tutti i pericoli della vita».

«Un’altra massima?» sospirò Blaskyn. «Meglio che tu vada, prima che m’addormenti».

La donna gli lanciò una delle sue occhiate fulminanti. Poi srotolò la pergamena che l’avrebbe teletrasportata su una collina di sua conoscenza, dove il Fiume Dessarin usciva dalla Foresta Settentrionale. «Prevedo di non stare via a lungo», aggiunse.

Blaskyn sogghignò. «Perduto è il mago che fa affidamento sui programmi, poiché i capricci degli dei li rovinano sempre», cantilenò trionfante, citando un vecchio proverbio.

Laeral gli rivolse un altro sguardo severo, poi scomparve.

HMMPH. ORA MI PROPINI ANCHE LA FILOSOFIA DI VOI UMANI. SPERO NE VALGA LA PENA, PICCOLO MAGO.

Sì.

«SÌ»? È TUTTO CIÒ CHE HAI DA DIRE? FORSE SUA ECCELLENZA IL GRANDE ELMINSTER STA PERDENDO FINALMENTE LA SUA SFACCIATAGGINE?

Staremo a vedere.

[sguardo scuro da occhi rossi e fiammeggianti, comparsa di due tenaglie circospette]

SE È UNA SPECIE DI TRUCCO…

[silenzio, immagini che si susseguono veloci]

Sul far della sera la torre in rovina si levava dagli alberi scuri che la circondavano, come la lama nera di una spada in posizione verticale. Laeral l’osservò con sguardo critico e pronunciò un altro incantesimo. Avvoltasi in esso, proseguì quindi fino alle colonne distrutte e ricoperte di vegetazione che un tempo indicavano il cancello di un cortile.

All’interno, radici d’albero nodose e contorte s’innalzavano dal pavimento sconnesso. Fra i rami non cinguettava alcun uccello e la sensazione della morte in agguato era molto forte. L’Arte le suggeriva che non vi era magia nelle vicinanze ma se una belva nascosta difendeva ancora la torre, com’era tradizione dei maghi, sarebbe stata nei dintorni.

Il masso coperto di muschio poco oltre il cancello si sollevò con velocità minacciosa. Laeral utilizzò l’incantesimo di volo che aveva appena elaborato per levarsi in aria e rimanere sospesa.

Mentre levitava dal suolo, la roccia aprì gli occhi e la guardò con sguardo alquanto stanco ma per nulla sorpreso. Era una testa di forma umana con splendidi lineamenti femminili di color verde-grigio, alta quanto lei. La testa ondeggiò su un imponente corpo serpentino. Un naga.

«Tanto giovane e tanto carina», affermò la creatura. «Sei venuta a morire, fanciulla?»

«Non è questo il mio scopo», rispose tranquilla Laeral, pronta a spostarsi rapidamente. «Chi ti ha messo lì e che hai intenzione di fare con me!»

«Thalon mi ha posto a guardia di questo luogo e, per i miei poteri, mi ha ordinato di uccidere chiunque non riesca a usare l’Arte per evitarmi», rispose il guardiano con uno scintillio negli occhi.

Il fulmine che scaturì dalla sua bocca fu troppo rapido perché la maga lo evitasse completamente. L’Arte protettiva balenò quando questo le crepitò lungo il fianco. Laeral evitò di sprecare incantesimi per ingaggiare battaglia, ma trasformò la sua levitazione in un salto rapido e vorticoso verso le finestre buie della torre.

Dietro di lei, il naga sibilò triste: «Non troverai ciò che ti aspetti quando raggiungerai il trono». Dal tono della voce sembrava che la maga le stesse simpatica.

Laeral non ebbe nemmeno il tempo di sorprendersi. Rallentò cauta e si diresse verso la finestra arcuata più vicina, ma urtò violentemente contro una barriera solida di forza invisibile.

Se non avesse diminuito la velocità, pensò la maga mentre ruzzolava nell’aria, si sarebbe spezzata il collo. Si ricompose, tutta ammaccata, e con prudenza si avvicinò alla finestra successiva, poi a un’altra. Tutte erano protette da incantesimi di rilevamento invisibili. L’unica che non lo era avvampò con un’aura magica tanto brillante che la maga sospettò celasse trappole di gran lunga più numerose di una manciata d’incantesimi dispersivi.

La ragazza appoggiò circospetta i piedi al suolo e si diresse verso la porta solitaria della torre. Era aperta, buia e in attesa, i battenti ormai distrutti, ma i suoi sortilegi non individuarono alcuna magia.

È tempo di giocare agli eroi, si disse Laeral. La frase seguente della ballata fece capolino spontanea nella sua mente: è tempo di giocare agli stolti. Con un sospiro, la maga fece un passo nell’oscurità.

Una nuvola di polvere si sollevò con un turbinio; tutte le ragnatele ne erano ricoperte. Ogni angolo era buio, freddo e immobile. Laeral si sollevò lentamente dal pavimento, i piedi qualche centimetro al di sopra delle pietre impolverate. Se Tymora le avesse arriso, in quel modo avrebbe corso meno rischi.

Granelli di luce flebile le tenevano compagnia. La maga fluttuò lenta e accorta di stanza in stanza all’interno della torre. In uno dei locali si ergeva un blocco di pietra gigantesco, caduto dal soffitto. Le ossa frantumate e ingiallite di uno scheletro umano spuntavano da sotto un angolo, le braccia protese invano, la mandibola aperta in un grido silenzioso ed eterno. Laeral proseguì nel silenzio, guardinga.

Un po’ più avanti, come s’aspettava, vi era una buca. Altri scheletri giacevano contorti e infilzati su punte ricoperte di polvere… la morte che aveva previsto. Avanzò con cautela, domandandosi quando avrebbe trovato le trappole per chi avanzava volando.

Fin troppo presto vide una serie di dardi protrudere come gli steli di una specie di pianta spinosa, a lato dell’arco di legno scuro soprastante. Dallo scheletro infilzato pendeva ancora qualche tendine di color marrone nerastro.

Laeral si fermò davanti all’arco e si slacciò il mantello. Fluttuando nell’aria, lo gettò davanti a sé.

Si udì un suono cupo e sferzante. Un dardo spuntò rapido da una fessura nascosta e lacerò il tessuto, andandosi a infilzare, tremolando, nell’arco accanto agli altri.

Laeral agitò ancora il mantello strappato, ma quello era l’ultimo dardo. Arrotolandosi il mantello attorno agli avambracci, a mo’ di scudo, la maga oltrepassò rapidamente l’arco, tuffandosi di lato e in basso.

La lama arrugginita che cigolò rumorosamente nella parte superiore dell’arco la mancò per intero.

La maga di Loudwater sospirò ancora, e si domandò quando si sarebbe imbattuta nella trappola che avrebbe tentato di strapparle gli oggetti magici che aveva con sé. Purtroppo, le trappole note uccidono con altrettanta efficacia di quelle ignote. Perlomeno, pensò Laeral ironica, non sono rimasta a corto di massime.

FUOCHI DI NESSUS, NO! PICCOLO UOMO, ARRIVEREMO MAI DA QUALCHE PARTE?

[silenzio]

[grugnito lento e diabolico, occhi che ardono]

Quando accadde, questa si rivelò nitida ed efficace come se l’era aspettata. Le stanze al piano terra erano vuote, spogliate di tutto tranne che dei cadaveri scheletrici. Persino questi avevano perduto misteriosamente tutto ciò che portavano o indossavano.

La via per i sotterranei era invasa e ostruita da detriti rocciosi, ma la scala che saliva era sgombra, eccezion fatta per un teschio, appoggiato con cura sul primo gradino, che sogghignava con aria di sfida. Laeral gli rivolse uno sguardo beffardo e volò su per le scale. La sua bacchetta si sollevò, pronta a parare lame e a deviare dardi.

Le scale ruotarono. L’aria intorno a lei si riempì improvvisamente di artigli che spuntavano, balzellavano e afferravano… mani scheletriche umane e bestiali, che le strappavano i capelli, le ghermivano la faccia e le stringevano il corpo.

La maga di Loudwater le scartò bruscamente e cozzò con la spalla contro la parete. Si girò per dare le spalle al muro mentre continuava a volare, più rapida. Mani ossute si frantumarono con un rumore nauseante sotto la sua colonna vertebrale e le sue spalle, dopodiché scomparvero.

Mentre spezzava un’altra mano volante con la bacchetta, Laeral se ne strappò una dalla gola, che la stava soffocando e, sollevando truce un braccio, spezzò le dita di un’altra che le aveva afferrato la testa e si stava dirigendo verso gli occhi. Con un ringhio, la maga si tuffò verso i gradini per liberarsi delle mani che le attanagliavano le gambe, simili a tanti ragni freddi.

Poi, appena in tempo, vide il pericolo. Un individuo senza poteri volanti avrebbe fatto la sua stessa mossa, incappando senza dubbio in una trappola. La ragazza trasformò il suo balzo in un rotolamento a mezz’aria, e si fermò poco sopra il gradino.

La punta di uno dei suoi stivali sfiorò la pietra e una fila di punte di ferro scattò improvvisamente verso l’alto. La maga sentì il ferro gelido graffiarle il braccio mentre si rialzava, lasciandosi alle spalle un artiglio alato, che si muoveva lievemente.

Con un grugnito, Laeral si strappò un altro artiglio dalla testa, insieme a una manciata di capelli. Lo gettò via e si contorse a mezz’aria, per toglierne altri dalle gambe. «Artigli striscianti», così si chiamavano quelle mani ossute. I maghi li avevano usati come guardiani per molto, molto tempo. La maga si domandò se i grandi lividi che quelle mani le avevano lasciato sarebbero un giorno scomparsi.

Se non altro, non l’inseguirono. Dopo essersi staccata l’ultimo artiglio dalla coscia, la ragazza lo scagliò contro la parete e volò via. Le dita ossute rimbalzarono e si scheggiarono contro la roccia dura.

Davanti a lei si apriva un altro arco. Questa volta le lame uscirono da sopra e da sotto. Laeral si tuffò e si girò disperatamente a mezz’aria, madida di sudore. Superò entrambe le barriere arrugginite e finì dritta nella traiettoria sibilante di alcuni dardi. Al che s’inarcò e si ritrasse, sfuggendo alla morte lesa solo da un graffio bruciante. Una delle frecce era stata rapida, e lei quasi troppo lenta.

Già, quasi. Volò su per le scale curve fin dove si apriva una sala enorme, scura, dal soffitto alto. Allora si arrestò, fluttuando cauta sopra l’ultimo gradino. Alcuni granelli di luce si mossero nella stanza a un suo comando e perlustrarono, come piccole mosche luminose, la volta del soffitto, le pareti con gli arazzi penzolanti e il pavimento impolverato di pietra.

La stanza era spoglia, tranne che per gli arazzi marci, ormai ridotti a strisce di tessuto nero, ricoperte di ragnatele, e per un sedile disadorno, ricavato in un blocco massiccio di pietra. Seminascosto dietro a una delle tele distrutte vi era uno scaffale di pietra che ospitava una fila di crani umani ingialliti e vigili.

Si trattava di un’altra trappola, senza dubbio. Laeral lasciò che le luci tornassero da lei e valutò il da farsi.

Numerose barre di luce flebile s’accesero all’improvviso tutt’intorno. Alle sue spalle una voce stridula e calma esclamò con un rantolo sgradevole: «Benvenuta, piccola maga. Chi sei, e da dove vieni!».

Laeral si voltò di scatto e distrusse la gabbia di forza. Questa collassò e la ragazza terminò il suo volo sui gradini, di fronte al suo aggressore.

Era alto e magro, mezzo scheletrico, uno zombie con addosso una tunica nera con cappuccio. Due fiamme bianche e fredde ondeggiavano nelle cavità nere dove ci sarebbero dovuti essere gli occhi. Sorrise e le sue labbra si mossero silenziose; poi le dita ossute si mossero con gesti fluidi per la lunga pratica.

La maga sospirò: in quel luogo tutto era tutto uno stupido scherzo! Poi afferrò un piccolo oggetto dalla cintura, simile a uno scudo color argento, che si ampliò rapidamente sino a coprirle la mano.

Fece appena in tempo. L’incantesimo dello zombie la colpì e rimbalzò sullo scudo, che s’illuminò all’improvviso e sibilò debolmente.

Seguì un altro incantesimo. Questa volta lo scudo avvampò e si dissolse fra le sue dita, consumato dal potere che lo aveva colpito. Lo zombie avanzò lento, risoluto, su per le scale, ignorando gli incantesimi che si abbattevano contro di lui.

Laeral indietreggiò nella stanza. Tutto quello che sino ad allora aveva affrontato era opera di apprendisti: forse quel luogo era tanto antico che, quand’era stato costruito, quei trucchi erano nuovi, o gli unici conosciuti.

Si udì ancora la voce stridula. «Sei muta, bella fanciulla? Uno scudo sprecato contro un semplice incantesimo del sonno e un facile incanto, e nessun attacco da parte tua! Nemmeno una parola! Non è da voi maghi non aver voglia di parlare!»

Lo zombie sollevò la mano e le scagliò contro fulmini biforcuti. La ragazza corse verso uno di essi, spiccò un balzo e i capelli le si agitarono quando la morte crepitò sotto di lei. Poi ripiombò sul pavimento e boccheggiò in cerca d’aria.

L’aggressore non sembrò sorpreso di aver mancato il bersaglio. «Sei venuta solo per il trono?»

Laeral risparmiò il fiato per eventuali contro-incantesimi, disperdendo nell’ordine un altro incanto, un tentativo di trasportare suo padre in quella stanza mediante telecinesi e un sortilegio che le fece lacrimare gli occhi e le offuscò la vista prima che riuscisse a sventarlo. Stava ancora indietreggiando quando fiamme ruggenti la avvolsero.

L’odore di capelli bruciati le solleticò le narici, ma lo scudo protettivo che portava sempre la salvò da ferite gravi, per poi tremolare, ormai quasi esaurito. La maga si spostò rapida di lato, ma le fiamme voraci non si erano ancora dissolte quando due mani ossute si misero nuovamente all’opera. Laeral ebbe la netta sensazione che la magia le venisse sottratta lentamente.

In fretta, generò un altro scudo di fuoco freddo intorno a sé. Ecco come deve sentirsi un bersaglio in una sala di tiro con l’arco, pensò.

Mentre il nemico avanzava, la ragazza infilò una mano nel fodero del corpetto e ne estrasse la bacchetta che aveva portato con sé. Socchiuse gli occhi e dalla punta scaturirono proiettili magici.

Questi colpirono il bersaglio, ma lo zombie continuò ad avanzare verso di lei. Laeral fece nuovamente fuoco, e le strane saette sciamarono attorno alle vesti nere dell’avversario. Con volto impassibile, questi sollevò una mano ossuta e rispose con proiettili analoghi.

Un dolore accecante trafisse la ragazza in cinque punti. Laeral urlò, rabbrividì involontariamente per il male e si piegò su se stessa. Lo zombie si avvicinò.

«Il tuo nome, maga!» le chiese ancora, con tono freddo, quasi beffardo.

Laeral non rispose. Strinse i denti, afferrò un pugnale dagli stivali e si mise in ginocchio. Poi sibilò un incantesimo di sua invenzione. Quando l’arma roteò nell’aria, l’Arte lo avvolse, ringhiando. Il pugnale si allungò, balenò e turbinò mentre saettava, divenendo una spada.

L’acciaio scintillante si diresse vorticando nella penombra e colpì lo zombie alla spalla. Un pezzo d’osso si ruppe fra spruzzi di polvere, e un braccio ossuto cadde sul pavimento, sminuzzandosi in minuscole schegge friabili.

Lo zombie continuò ad avanzare come se nulla fosse. «Se continui così», affermò con tono calmo rivolto alla ragazza, «non sarò più in grado di difendere il trono, e tu avrai vinto».

Laeral roteò gli occhi. Da quale favola per bambini era uscito tutto ciò? Scartò disperatamente di lato quando lo zombie le lanciò ulteriori fulmini e pronunciò rapida un contro-incantesimo.

Lo scheletro indietreggiò barcollando e le sue braccia ossute si trasformarono per un istante in serpenti attorcigliati, prima che la sua nonvita avesse la meglio sulla magia. Rivolse alla maga un ghigno sdentato e le scagliò addosso altri fulmini.

La ragazza sferrò un altro incantesimo. A mezz’aria il fulmine virò e tornò alla fonte. Le braccia ossute si mossero rapide, ma il non morto non fece in tempo a completare l’incantesimo e un fuoco furioso di colore bianco e blu lo colpì.

Lo zombie si dimenò in mezzo al fumo e cadde in ginocchio, puntando un indice ossuto. «Guarda… il trono!» mormorò cupo, poi si accasciò rumorosamente in un mucchio d’ossa scomposte. Le fiamme nei suoi occhi si spensero.

Troppo facile, penso Laeral, disperdendo i resti con un incantesimo banale. Troppo facile. Le ossa rimasero dove le aveva gettate, inoffensive.

La maga estrasse un altro oggetto magico, che nelle sue mani si trasformò in un martello. Usò un incantesimo di servitù per trasportarlo fino alle ossa e, da lontano, frantumò il cranio dello zombie in mille pezzi. Nessuna reazione.

Nel silenzio che seguì, la maga di Loudwater estrasse una pergamena dalla cintura ed evocò luci danzanti. Poi si guardò attorno, sospettosa: c’era solo un profondo, paziente silenzio.

Laeral fece cauta un passo verso il trono, sempre vuoto, disadorno e silenzioso. Un attimo dopo si concentrò e il martello fluttuante colpì il sedile, poi sempre a un suo comando batté le lastre circostanti del pavimento e le pietre dell’alto soffitto. Niente. La ragazza continuò il controllo finché il potere del martello non si esaurì e lo strumento non scomparve nel nulla.

Intorno a lei il silenzio, in attesa.

Con un sospiro, Laeral lanciò una magia indagatrice, sicura che il trono fiammeggiasse di molti incantesimi, uno sopra l’altro. Aggrottò la fronte, fece un passo avanti, e si domandò se avesse avuto il coraggio di usare il suo ultimo incantesimo volante, nel caso vi fosse una fossa in attesa o un blocco cadente.

Con un boato il tetto crollò in ogni caso.

Загрузка...