1. Rocce e un luogo caldo

Non esiste bestemmia più grande di questa.

È cosa proibita, per dei e uomini, per ogni essere vivente di questo o d’ogni altro mondo, fare a pezzi la sostanza della quale siamo fatti, lasciando a Toril squarci attraverso cui penetra strisciando il nulla. Ferite irritanti e gocciolanti, da cui si riversano tutti i Regni e in cui s’insinua il vuoto freddo e corrosivo…

Con tutti gli stolti egoisti, caparbi e sventati che hanno scagliato incantesimi in questi secoli è stato un miracolo che non sia accaduto più spesso. Ma tale pensiero è stato di ben poca consolazione.

I mondi tuonarono. Incandescenti e divoratori, i torrenti di forza emananti dalla Tela rombarono tutt’intorno all’uomo ruzzolante, strattonandone le vesti, le membra vecchie e anche la barba, mentre questi vorticava in un fragoroso turbine d’aria. Quelli che un tempo erano stati i verdi alberi di Shadowdale gli vorticarono impazziti sopra la testa. Sotto i suoi stivali… o forse sopra?… si estendeva un cielo rosso sangue, senza sole. L’aveva già visto un paio di volte prima di allora e non desiderava rivederlo ancora.

Pennacchi di gas venefici screziavano quella volta color cremisi come orrende nubi. Si unirono in un gorgo a formare ciò che somigliava a un paio d’occhi giganteschi puntati verso il basso, occhi che si dissiparono prima ancora di mettersi a fuoco, per poi formarsi di nuovo, all’infinito. Sotto il bagliore vermiglio si stendeva un paesaggio scuro, da incubo, di roccia nuda e di gole percorse da fiamme scintillanti e borbottanti, dove creature strane strisciavano e s’agitavano seminascoste nell’ombra. Le montagne parevano artigliare il cielo rosso. Una volta Azuth l’aveva chiamata, a ragione, La Terra dei Denti, vista la distesa sconfinata di rocce frastagliate. Quello era il Greeting Ground, il regno dell’orrore che aveva reclamato le vite di innumerevoli mortali. L’uomo stava turbinando sopra Averno, il più alto dei Nove Inferni.

«Mystra», gemette, mentre ruzzolava, e in tal modo risvegliò tutti i poteri del suo corpo che si concentrarono, formicolanti, sulla punta delle dita.

Che la Signora della Tela lo udisse e decidesse di assisterlo o no, la vita che si profilava davanti a Elminster Aumar non sarebbe stata piacevole. Avrebbe dovuto consumare tutta la sua magia per sanare quella spaccatura, per amore di Toril, che tanto raramente lo aveva amato, e finire bruciato e dilaniato nell’impresa; forse avrebbe fallito e sarebbe morto… e se invece vi fosse riuscito, sarebbe precipitato in Averno, indifeso e privo di qualsiasi magia.

Ma il suo dovere era chiaro.

Sagome nere, dalle ali di pipistrello, si erano già levate in volo, e gli si stavano avvicinando minacciose, per tuffarsi attraverso la fenditura o ampliarla ulteriormente, prima che lui potesse chiuderla. Poteva essere sanata solo da quella parte, non dai cieli più gradevoli di Toril, e se mai El avesse avuto successo, avrebbe esaurito tutti gli incantesimi con rapidità tale da attrarre subito l’attenzione di tutti gli occhi infernali.

Quegli occhi lo stavano osservando. Oh, sì.

Elminster vide qualcosa di enorme e di scuro, simile a un drago, levarsi da un monte distante e puntare poderoso verso il cielo insanguinato, le ali coriacee e una lunga, lunga coda squamosa. Si innalzò, poi virò verso di lui…

Più vicino lampi scoppiettarono e saettarono al di fuori della spaccatura. Demoni neri e scintillanti stavano cercando di allargarla… a fatica, senza dubbio, sotto gli ordini d’altri demoni invisibili, sotto di loro.

Il mago, sballottato in quella furia, vide il cielo blu di Toril per l’ultima volta. Si udì un potente fragore di fulmini, che affondarono quindi i loro artigli di un chiarore accecante nei demoni. Corpi lucidi color ossidiana e cremisi si contorsero dal dolore mentre bruciavano, e il loro sangue avvampò formando fiamme rosse, per poi ricadere, come cenere annerita, sulle rocce indifferenti.

«Andate tutti all’inferno», mormorò Elminster sardonico. Serrò i pugni ed evocò il fuoco argenteo dentro di sé, nel modo più accurato e preciso possibile. Se la spaccatura si fosse chiusa, lui avrebbe quasi certamente perso contatto con la Tela e con Mystra, e sarebbe stato incapace di riacquistare il potere magico. Il fuoco argenteo gli consumò anelli e bracciali e persino le vesti che indossava.

Strani canti e parole irose gli riempirono le orecchie come incantesimi infranti, fluendo attraverso di lui per poi vorticargli attorno alle mani sotto forma di fiamme bianche e blu. I fuochi impetuosi delle sue magie mormorarono con potere confortante mentre, crepitanti e sfolgoranti, acquisivano forza. I vestiti del Vecchio Mago erano ormai ridotti a brandelli. Gli antichi anelli di metallo che gli cingevano le dita si polverizzarono e si dissolsero; il cappello arse con una fiamma blu che gli avvolse le lunghe trecce. Elminster gridò nell’impeto del suo potere. Il pugnale che teneva infilato in uno stivale si sbriciolò, poi la stessa sorte toccò anche allo stivale. Il mago disse silenziosamente addio alla sua pipa preferita un attimo prima che si sgretolasse. Infine, negli ultimi istanti della sua discesa, El utilizzò le sue minuscole saette magiche per controllare la caduta, roteando nell’aria per raggiungere la spaccatura.

Lo squarcio si stava allargando, e sputava fulmini malvagi in tutte le direzioni, nel cielo scuro di Averno. Molteplici saette s’inarcavano lungo la volta color cremisi come innumerevoli stelle cadenti che, furiose, svanivano poi nel nulla. Molto più in basso numerosi occhi rossi e scintillanti sollevarono lo sguardo verso quello splendore mortale.

Alcuni fulmini ghermirono l’aria accanto a lui, e il vecchio e sparuto mago scagliò fuoco blu dalla punta delle dita per intrappolarli, almeno in parte, e convogliare l’energia a suo vantaggio.

Una saetta lo strappò dal cielo come una zanzara sorpresa da un forte vento e lo fece turbinare lontano. I denti del mago presero a battere, i capelli gli si drizzarono e un urlo rauco gli si ghiacciò in gola. Intrappolato in quella morsa, Elminster di Shadowdale non poteva muovere nemmeno un dito. Le fiamme lo annerirono. Una forza impetuosa, bruciante, lo costrinse a divaricare gambe e braccia a mo’ di stella, poi lo scagliò nel cielo.

Quando riuscì nuovamente a vedere, minuscole saette gli fuoriuscivano dal naso. La spaccatura era un fuoco luminoso e distante nel cielo rosso. Poi le sue fiamme furono improvvisamente coperte da una forma nera e ghignante, la testa cornuta e gli occhi brillanti, che si muoveva rapida nell’aria con gli artigli protesi, per fare a pezzi i maghi feriti.

«Tharguth», mormorò Elminster, ricordando il vecchio nome grimoire per tali demoni… abishai, ecco cos’erano, perché poco dopo ne vide un secondo e un terzo seguire il primo.

Non c’era più tempo per pensare; l’abishai si diresse verso di lui come un martello pronto a colpire.

Con gli artigli squarciò impaziente l’aria mentre s’avvicinava, la coda velenosa piegata verso il basso, pronta a colpire, se necessario. Elminster guardò negli occhi il demone esultante e sentì una vampata di calore e l’odore forte, quasi d’aceto, della sua pelle, quando spalancò le fauci. Il mostro voltò la testa per morderlo alla gola, ma il mago si difese con il fuoco, bruciandogli in un istante gli artigli e il capo, e facendolo precipitare nell’abisso roccioso sottostante.

Il secondo abishai si stava avvicinando troppo rapidamente per riuscire a virare; El schivò un artiglio rabbioso e lanciò una minuscola saetta di color bianco e blu nella bocca spalancata del terzo demone alato. La sua testa esplose, dopodiché il corpo s’inarcò all’indietro e artigliò l’aria in un’agonia spasmodica e silenziosa, mentre gli passava accanto.

Un incantesimo volante era uno dei pochi che rimanevano al Vecchio Mago; timoroso che la magia dentro di lui potesse distruggerlo, lo preparò con estrema cura. Un altro briciolo di potere gli conferì una velocità maggiore di quella che il solo incantesimo avrebbe potuto fornirgli. Doveva tornare alla spaccatura, in fretta.

Non ebbe bisogno di guardare indietro o di udire il ringhio rabbioso per sapere che il secondo abishai lo stava di nuovo inseguendo. Adesso il cielo era pieno di tharguth… neri e verdi, e c’erano persino i più grandi e crudeli abishai rossi. I loro occhi ardevano come fiamme color rubino mentre si levavano per dargli la caccia; le grida di gioia e di frenesia si tramutarono in un ruggito che sovrastò il tuono della spaccatura, ormai sempre più larga…

Elminster Aumar non era l’ultimo degli Eletti di Mystra, ma nemmeno un combattente robusto e vigoroso. Come una stella minuscola bianca e blu, schizzò attraverso il cielo di Averno.

Vari draghi di colore rosso scuro planarono in quel momento fra i demoni, avventandosi e mordendo come gatti giganti, nutrendosi famelici di quel branco di prede volanti. Nel cielo apparvero anche gli spinagon, piccoli demoni grotteschi irti di punte, che saettavano e cercavano di schivare i tharguth. El si voltò e vide l’abishai che lo stava inseguendo squarciato dalla gola alla pancia da una creatura alata e famelica, che volò via prima ancora che il mago potesse girare di nuovo la testa.

Il suo sguardo si posò per un momento sulla terra sottostante e su un nastro rosso che poteva solo essere un fiume di sangue. La sua attenzione fu richiamata nuovamente verso l’alto, dal battito veloce di ali sfuggenti. L’assassino volante rallentò, si fermò e rimase sospeso a guardarlo. I loro sguardi s’incrociarono.

El si trovava davanti a un demone femminile, solitario, che sbatteva le ali piumate nel cielo. Era snella, aggraziata e micidiale, aveva un colorito brunastro ed era più bella di qualsiasi donna mortale: una erinni, senza dubbio la spia di un demone più potente che dimorava nelle profondità dei Nove Inferni.

Accidenti, era diventato famoso. Averno doveva offrire ben pochi divertimenti, se un solo mago umano attirava tanto interesse!

Beh, non era proprio così. El si affrettò a mettere da parte ogni superbia: era certamente la spaccatura ad attrarre tanti demoni.

Elminster vide altre ali di pipistrello precipitare impotenti nel cielo, colpite dalle saette che scaturivano dai torrenti di forza, nel punto in cui i due mondi s’incontravano e si ghermivano.

Una seconda saetta sibilò verso di lui, ed Elminster fu pronto. Allargando le mani formicolanti d’incantesimi, legati l’un l’altro a formare una catena bianca e blu, si tuffò nel suo cuore impetuoso. Con un grido silenzioso attinse potere finché questo non divenne bollente, soffocante, dentro di lui. Poi fu costretto a ritirarsi dal flusso e a risalire nel cielo rosso rubino, tutto ansimante e tremante.

Questa volta si era allontanato solo di poco, e le sue membra ardevano d’energia. A una certa distanza i demoni alati cercarono di bere il potere del fulmine come aveva fatto lui, ma trovarono la morte, poiché questo li ridusse in un ammasso di piccole fiamme rosse e scoppiettanti.

Un drago lo vide e, dopo aver smesso improvvisamente di dilaniare e divorare tharguth, si precipitò verso di lui, come una muraglia di carne squamosa. Sputò fuoco, fiamme voraci che nulla potevano contro i demoni, ma perfettamente in grado di cuocere a puntino un uomo mortale.

Elminster si lanciò in picchiata e bevve dal fuoco del drago, stringendo i denti e lottando risoluto contro il dolore intenso, ma breve, e attenuando il calore con la magia.

Ansimò, ma alla fine ebbe la meglio. Ora il Vecchio Mago era pieno d’energia, e rischiava quasi di scoppiare. Il suo corpo tremava nello sforzo di trattenere tanta forza: non era più il suo canale, ma la sua essenza, e lottava contro quell’impeto per riuscire a spostarsi dove desiderava e per evitare di essere dilaniato da una tale furia.

O dalle fauci di un drago. La grande bestia rossa, tre volte più grande di quelle che aveva visto a Toril, persino più massiccia di Larauthtor, che aveva oscurato il cielo come una montagna vivente, si avventò su di lui, le mascelle spalancate.

Elminster stese le braccia dietro di sé e lasciò che piccoli getti di fiamme gli fuoriuscissero dalle dita, proiettandolo verso l’alto, in avanti, e lontano, oltre la portata del drago, che si agitava freneticamente per afferrarlo.

I suoi artigli fendettero selvaggiamente l’aria nella fretta di voltarsi. Richiudendo invano le fauci, il drago sbatté le ali enormi tanto forte che l’aria tuonò. Colta da un trio di saette provenienti dalla spaccatura, la bestia s’irrigidì, e un attimo dopo le sue squame si vaporizzarono. Negli ultimi istanti di vita provò un dolore tale che non riuscì nemmeno a gridare. I suoi occhi furono consumati dalle fiamme, e fili di fumo s’innalzarono dalle orbite scure e dalle fauci che, per un po’, continuarono a muoversi, mentre il drago scompariva nella tenebra rocciosa sottostante.

Niente di tutto ciò aiutava però Elminster a sanare la fenditura sempre più larga, un occhio lacrimante nel cielo di Averno. Il mago rammentò una strofa di una canzoncina licenziosa mentre si sollevava sulle sue ali di fiamme incantate e si dirigeva impavido incontro al suo destino sulle note allegre del motivetto.

Alcuni fulmini gli si gettarono contro. El li avvolse con catene magiche tonanti e li trascinò in giro, tracciando archi nel cielo devastato. I fulmini precipitarono nuovamente verso la loro fonte in un flusso rapido al quale il mago si unì. Cadendo a precipizio in quel lucore accecante, El protese le braccia.

Tutti i rumori furono coperti da un rombo echeggiante. Elminster divenne una freccia fra i potenti flussi di forza, che tuonarono oltre il suo corpo, in un gran caos di lingue che lo stormivano di colpi e lo strattonavano, minacciando di scagliarlo lontano e di ridurlo in pezzi, in un ammasso sanguinante.

Quando la forza gli bruciò la punta delle dita, El lanciò un incantesimo di fuoco per imbrigliarla e governarla, precipitandosi sulla sponda indistinta dove iniziava Toril. Tirò, afferrò e cucì, cavalcando torrenti di forza impetuosi per ricongiungere il cielo blu.

Alcuni demoni urlarono, dilaniati al suo passaggio. Elminster li udì appena e guardò bramoso il mondo che, per salvare, si sarebbe dovuto lasciare alle spalle. Lanciò un’occhiata nostalgica a Shadowdale, una piccola gemma verde giù in basso, prima di lanciarsi nel cielo per continuare a ricucire quella spaccatura frastagliata con la forza impetuosa e stridente.

«I bardi non troverebbero parole per descrivere tutto ciò», ansimò il mago. In alto, il cielo blu e il cielo rosso slittarono, scivolarono e combatterono per la supremazia. Elminster saettò lungo la linea rabbiosa. Un’energia nauseante lo attraversò con violenza, come la spada che un tempo era affondata nella sua gola ed era fuoriuscita da dietro in un breve gelido istante…

Tutto quello era accaduto molto tempo addietro, in un momento in cui la posta in gioco era molto meno alta. Un ricordo fra molti, che lo invitavano di continuo ad addentrarsi fra le loro ombre. Le profferte si facevano sempre più allettanti a mano a mano che Elminster avvertiva la stanchezza, che in quei giorni gli gravava sulle spalle come un manto di piombo…

D’un tratto terminò. Le energie si allontanarono per ultimare ciò che El aveva iniziato, ripristinando quanto che era stato distrutto e celando per sempre alla sua vista la luminosa Toril. Il rombo del cielo si placò e il mago iniziò a cadere come una stella spenta nelle tenebre color rosso scuro di Averno.

Ce l’aveva fatta. Stordito ed esausto, non riuscì a pensare ad altro. Toril era salva e il suo destino era segnato.

«I miei ringraziamenti, Grande Elminster», esclamò rivolto a se stesso con sarcasmo, facendo un brindisi immaginario mentre s’avvicinava inesorabilmente ai denti di roccia nera. «La bella Faerûn ha visto la tua sublime vittoria, malgrado nessuno lo sappia, né ad alcuno importi. Benvenuto nel letamaio che t’aspetta.»

Con l’ultimo briciolo di volontà rimastogli, El si tramutò in un pezzo di roccia e si gettò di lato, in modo da trasformare la sua caduta in un tuffo profondo in quello che, probabilmente, era il Lago del Sangue. Che le sue acque calde e fetide attutissero dunque l’impatto! La carne putrefatta che ricopriva il suo letto l’avrebbe nascosto. Forse poteva rimanere celato laggiù, finché non avesse recuperato abbastanza forza da…

Da una tale altezza una pietra colpisce l’acqua con la stessa forza di un martello da fabbro. L’impatto brutale con la superficie avrebbe tolto il fiato a Elminster, sempreché gliene fosse rimasto un po’. Il calore gli gorgogliò accanto mentre sprofondava nell’abisso umido, rallentando gradatamente quando…

Qualcosa di scuro e di serpentino sbucò dalle profondità rosse e lo afferrò. Un tentacolo lo avvolse come la frusta di un mandriano… poi El si sentì trascinare in superficie.

Beh, negli Inferi non ci si poteva certo aspettare che vi fosse riposo per gli sventurati. Perciò… che il tormento avesse pure inizio. Che Mystra mi preservi e mi protegga. Per favore.

El si ritrovò gocciolante fuori dall’acqua insanguinata. Una magia sconosciuta lo avvolgeva e lo colpiva, procurandogli brevi fitte. Sotto i pungoli di quell’incantesimo El stava cambiando forma. Fluiva e si srotolava, tornando a essere… se stesso, un umano con braccia, gambe e… occhi.

Occhi che roteavano mentre gemiti, lamenti strazianti e una sinfonia di strilli indicavano che gli stavano spuntando anche le orecchie. Poi, d’un tratto, il mondo si mise a roteare, tremò e si arrestò in una visione di una chiarezza sconcertante.

Elminster stava in piedi su una roccia calda e affilata, scalzo. Aveva i piedi, le gambe… tutto il suo vecchio corpo macilento, persino la barba. Si trovava in una piccola conca nel mezzo di una grande distesa di pietre, e fili di gas nauseabondi gli si avvinghiavano al corpo, bruciandogli le gambe a ogni passaggio. In cima alle rocce, rami spogli e spinosi di alberi scheletrici si stagliavano come mani disperate contro un cielo rosso sangue. La terra tremò. Da qualche parte nelle vicinanze s’innalzò una fiamma, ruggì brevemente fra le rocce annerite e scomparì nuovamente dalla vista.

El si rese conto che qualcosa stava appostato nell’ombra scura, all’estremità più lontana della fenditura. Un paio d’occhi gialli fiammeggianti incontrarono il suo sguardo con la forza di un serpente pronto ad attaccare, e gli impedirono di muoversi, mentre la creatura alla quale appartenevano avanzava lentamente, sfoderando un sorriso per nulla rassicurante e che, nel contempo, prometteva molte cose.

Un sopracciglio s’inarcò, imitando la curvatura delle corna sovrastanti, e una voce lievemente sibilante gli chiese quasi con gentilezza: «Non mi conosci, piccolo mago insignificante? Sfoggio una forma ancor più splendida in questi tempi!».

Un incantesimo strinse la gola di El, impedendo qualsiasi risposta, e il sorriso del demone si allargò. «Ti piace il mio incantesimo degli artigli gentili? Niente a che vedere con gli incantesimi grandi e potenti a cui sei avvezzo, naturalmente, ma mi è utile… già, mi è molto utile.»

Il demone cornuto voltò la testa e sorrise, gli occhi gialli sempre fissi su Elminster come rebbi di una forca gigantesca. «Ancora non mi riconosci, Vecchio Mago? Devi essere proprio stanco.»

El fissò il demone corpulento, domandandosi quando fosse diventato, almeno agli occhi di quella terribile creatura, un esperto in questioni diaboliche.

Il demone aveva un corpo umanoide, nudo, la pelle liscia come quella di una foca, screziata di grigio e chiazzata qua e là di marrone e grigio scuro, molto simile alla superficie delle pietre scure di Averno che circondavano entrambi.

Poche squame gli scintillavano sul collo e sulle caviglie, e la sua testa quasi umana era munita di due corna ricurve. Quello che a prima vista sembrava un mantello non era altro che una collana di tentacoli. Uno di essi s’attorcigliò intorno alle spalle nude del mago, allungandosi come un’anguilla vendicativa, fra sbuffi di vapore fluttuanti - nove metri o forse anche più - mentre gli occhi che tenevano Elminster prigioniero si facevano un po’ più rossi.

«Sappi allora», proseguì il demone con grottesca formalità, accennando un inchino e obbligando il Vecchio Mago, sbalordito ed esausto, a fare altrettanto con la forza del tentacolo, «che sei ospite di Nergal, il più potente dei signori reietti dell’Inferno». Fece un ampio sorriso e i suoi occhi divennero rossi come la brace. «Potresti salutarmi.»

El cercò di parlare, ma scoprì di avere la gola secca e rigida. Nergal abbozzò un sorriso compiaciuto. «Il tuo corpo è un po’ ribelle, grande mago? Che tristezza. Avrai già notato che i miei incantesimi insignificanti e meschini sono serviti a restituirti la tua vera identità, e hai già assaggiato i miei artigli gentili. Grazie ad essi ogni tua magia viene assorbita per rafforzare le catene che ti legano a me… oh, forse non le vedi, ma tu sei legato, e lo resterai finché non deciderò altrimenti. Ti tengo imprigionato con catene magiche, legate alla mia mente: non potrai fuggire inosservato».

Le sue labbra si deformarono in un ghigno e aggiunsero: «Nessuno finora ha mai piegato la mia mente, Elminster, per quanto tu sia il benvenuto, se vorrai tentare. La libertà è un fine lodevole per ogni essere senziente.»

La terra tremò ancora, e una fiamma si levò sopra le loro teste, per bruciare un diavoletto urlante. Il sorriso di Nergal si fece più ampio mentre ritraeva il lungo tentacolo… e il tremolio delle rocce sotto i piedi bollenti di Elminster fece barcollare e quasi cadere il povero mago.

«Lodevole», esclamò malignamente il demone, «ma impossibile, direi. Sai, ho trascorso molto tempo a osservare le tue imprese, Vecchio Barbuto, e so bene come usarti. Oh, sì.»

I tentacoli si agitarono improvvisamente attorno alle spalle dell’arcidemone, come membra impazienti di un ragno gigante.

«Naturalmente, tenterai di scappare, forse persino di farmi del male. Ma i tuoi fallimenti non cambieranno il tuo tormento… perché di fallimenti si tratterà.»

I tentacoli si protesero quasi con indolenza, e il sorriso diabolico si ampliò ulteriormente.

«Vedi, mago: ora sei il mio piccolo paggio.»

E, sempre col sorriso stampato sulla faccia, Nergal allungò un tentacolo e strappò il braccio destro di Elminster.

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