Rami spinosi e spogli d’alberi scheletrici si stagliavano contro il cielo rosso sangue come dita disperate. Elminster Aumar sollevò lo sguardo e sospirò; beh, almeno poteva muoversi, vedere nuovi paesaggi nel breve tratto di strada che gli rimaneva probabilmente da percorrere. Tale mobilità gli procurava, naturalmente, una consolazione profonda e persistente.
El si trascinò avanti sulle ginocchia sbucciate e sanguinanti, il corpo irto di spine unte, di color verde-nero, che sperava fossero ripugnanti per i demoni almeno la metà di quanto lo erano per lui. Cercò di non pensare alla scia di sangue che si lasciava dietro; già due volte si era dovuto girare e rotolare per trafiggere e uccidere le larve che gli rosicchiavano i piedi, e aveva ormai perso il conto delle volte che aveva vomitato e sputato in preda alla nausea, per ciò che vedeva e udiva intorno a sé.
I demoni si stavano artigliando e sfigurando a vicenda sopra la sua testa: anche in quel preciso istante, si cavavano gli occhi e si squarciavano le budella con violenza inaudita e imbrattavano le rocce sottostanti senza prestarvi, per sua fortuna, alcuna attenzione. Elminster proseguì, sorridendo dentro di sé ricordando le sembianze che aveva assunto nella sua vita. Beh, un tempo era stato anche una ragazza dai capelli corvini e dai fianchi delicati, perciò non aveva motivo di lamentarsi. Non che le rocce ascoltassero i piagnucolii di un arcimago massacrato più di quanto non prestassero attenzione alle imprecazioni di altri esseri.
La terra tremò, scossa da una violenta esplosione sotterranea. El cercò di non pensare in quali trappole mortali si potessero trasformare le caverne in tali occasioni. Un’altra sfera di fuoco tonante attraversò il cielo.
Prima o poi in quella landa desolata di rocce, di fiamme e di fumi maleodoranti, dove i demoni vagavano in cerca di cibo o si spostavano in gruppi spietati - in lontananza una schiera di abishai si avventò all’unisono su alcuni nupperibos urlanti - la sua fortuna si sarebbe esaurita.
Più prima che poi. Mentre scivolava per la millesima volta e atterrava sul ventre, senza fiato, contro rocce affilate, una coda uncinata si levò di fronte a lui. Lucida e nera, era grande come la sua testa. Il corpo a cui era attaccata doveva essere davvero enorme. El seppellì la faccia fra le rocce un attimo prima che quella coda affilata come una lama gli ferisse la testa. Lo schiaffo che ricevette gli fece rimbombare il cervello e assumere una posizione eretta e vacillante. Il colpo gli aveva aperto il cuoio capelluto in un punto sufficientemente arretrato perché il sangue non lo accecasse col suo fluire.
Una vera fortuna. Con quel pensiero sarcastico, confinato nella parte anteriore della sua mente per distrarre Nergal da ciò che in realtà stava facendo, El usò una minuscola quantità di fuoco argenteo per arrestare il sangue che gli colava dalla nuca. Poi sollevò la testa per vedere il suo aggressore.
«Bene», mormorò compiaciuto quello che poteva essere soltanto un altro arcidemone reietto, mentre si sollevava dalle pietre di fronte a lui. «Che cos’abbiamo qui?»
Tre code serpentine, lunghe e sinuose, si levarono dal punto in cui erano raggomitolate attorno alle rocce, per unirsi a un corpo color ossidiana, che aveva la forma di un busto umano femminile e prosperoso. Dalle spalle spuntavano due ali di pipistrello, nere nella parte sottostante e rosso rubino sulle superfici esterne lucide. Una lingua biforcuta e una testa cornuta oscillavano in cima a un collo troppo lungo e, purtuttavia, dall’aspetto umano e attraente. Purtroppo le dita che si protesero nella sua direzione terminavano con artigli da falco, uncinati. Ognuno era lungo quanto il braccio di Elminster.
Le tre code uncinate si sollevarono per colpire le rocce simultaneamente e conferire al demone una carica ondeggiante; la testa del mostro giunse così a una trentina di centimetri da quella di El. Due occhi ambrati, dalle profondità fiammeggianti, fissarono intensamente gli occhi grigio-blu dell’umano, molto stanchi… e due labbra rosse, magnifiche, si aprirono in un sorriso.
«Un uomo mutato da un incantesimo, se non mi sbaglio, trasformato per quale motivo? È meglio che veda chi sei prima di cucinarti per cena o di farti diventare qualcosa di più piacevole per mio diletto…»
Il demone serpentino s’irrigidì e sibilò, facendo frusciare le ali in un unico brivido convulso. Inviò a Elminster una sonda mentale, e trovò Nergal.
[sole color rubino, che sboccia e si amplia, consapevolezza che continua a indagare, serpeggiando]
[il gigante tentacolato si volta per affrontare l’intruso, raccogliendo forze minacciose]
«Oh-oh, un mago dai grandi poteri, qui è pieno di ricordi, c’è da divertirsi e qualcosa che potrebbe essermi utile, se solo potessi trovare il ricordo giusto… ma aspetta: c’è una contaminazione piuttosto familia…»
MALACHLABRA!
«Nergal!»
MUORI LURIDO SERPENTE!
«È arrivato il tuo momento di nutrire i vermi, Sua Altezza di un bel Nulla!»
[fulmine mentale, deviato, agonia straziante, Elminster grida mentre pareti, soffitti e intere stanze crollano… frecce mentali, una, due, tre, parate e rimandate al mittente in sequenza scintillante… El continua a urlare]
«Umano, io sono Malachlabra, Duchessa dell’Inferno e figlia di Dispater! Se mi sarai fedele, libererò la tua mente da quella bestia tentacolata!»
[un fulmine mentale si scontra con un altro fulmine mentale, bagliore intenso, urlo d’agonia, lungo e disperato, El si dibatte mentre saette di fuoco vengono scagliate avanti e indietro nella sua mente bruciante]
«Umano, io… ah, il tuo nome è… Elminster! Elminster Aumar, aggrappati a me!»
Alcuni abishai fuggirono, fra sputi e urla, quando il demone serpente s’impennò ed emise lingue di fuoco nel cielo di Averno. Malachlabra infilò un artiglio lungo e crudele nella goffa creatura distesa ai suoi piedi. Le sue urla si trasformarono in guaiti schiumosi e persino le larve si allontanarono da quell’essere di carne ribollente, dalle membra eruttanti, che emanavano gas umidi.
In lontananza il terreno tremò. Malachlabra gridò trionfante. Stava ancora ridendo, sollevata in un cielo squarciato dai suoi artigli, quando la risposta di Nergal s’abbatté su di lei.
L’aria rossa scintillò, stillò sangue e si ritrasse per un istante, per poi vomitare enormi sfere purpuree di fiamme ruggenti e tremolanti addosso al demone serpente.
Sfere che, naturalmente, esplosero.
Artigli sferzarono, convulsi, l’aria e superarono oltre quella cosa filamentosa che era diventato Elminster. Il mago fu colpito da alcune pietre e sommerso dal sangue della diavolessa. Pezzi di serpente dilaniati e sventrati continuarono a tremolare in maniera macabra anche dopo essere caduti fra le pietre. Nel punto in cui prima c’era Malachlabra non era rimasto altro che pietre fumanti, e una poltiglia nera e cremisi che imbrattava il terreno.
D’un tratto la risata di Nergal tuonò nella mente di Elminster e la creatura dentata, dagli strani arti e dai corpi bitorzoluti, rabbrividì. Ciò pose fine al caos di trasformazioni. Inarcandosi e tirando su col naso, il mago trasformato iniziò a contorcersi sulle rocce sporche di sangue. Le larve s’impennarono affamate, bianco-giallastre, lucide di bava; El, immerso nelle ombre insanguinate della sofferenza, non le sentì nemmeno affondare i denti nel suo corpo.
DUNQUE PUOI CAMBIARE FORMA A PIACERE, PICCOLO UOMO? BENE, BENE. UN ALTRO SEGRETO CHE È ORA DI SVELARMI. ALLA FINE LI AVRÒ TUTTI, SAI… MA PER IL GRAN STIGE GELATO, MI RENDI IL LAVORO DURO, DEVO ESTORCERTI TUTTO QUANTO CON LA FORZA!
[attraverso fiumi di sangue la creatura tentacolata si apre la strada a spallate, impavida. Nelle stanze buie e distrutte, cerca i ricordi delle trasformazioni]
Il fuoco argenteo pervase il mago in maniera impercettibile… piccole gocce dove sarebbero state necessarie intere vampate. Il volto deformato dal dolore, Elminster Aumar si dimenò sul terreno, colpendo le larve. Mentre il pensiero di Nergal imperversava nella sua mente, sempre più in profondità, il lungo torso fessurato svanì, e le sue membra tornarono umane.
El grugnì e fece in modo che un lieve flusso di fuoco argenteo bruciasse le larve che lo attanagliavano. Queste si staccarono, uccise all’istante, e il mago si accasciò di nuovo con un mugugno. Lasciamo che Nergal pensi che la trasformazione sia stata opera mia e non di Malachlabra. Qualsiasi cosa per evitare che noti il fuoco…
[una grande testa cornuta si gira bruscamente a destra e a sinistra, mentre avanza in una mente in cui i fiumi rossi arretrano. Lunghi tentacoli strisciano nel sangue mentre il demone va su e giù e scruta]
«Muori, mago malvagio!» Lance crudeli s’infilzano come lingue di fuoco nella sua schiena. El ringhia un’imprecazione che si trasforma in un debole sputo di sangue. Le punte delle lance lo trafiggono. Lo spingono in avanti, fra i merli, per poi gettarlo nel vuoto sottostante, giù verso il fossato fetido.
Si odono grida roche di felicità mentre il mago precipita, ma queste si trasformano in urla allarmate prima ancora che l’uomo raggiunga l’acqua. L’atterraggio avverrà da un’altra parte.
L’anello che portava al dito ha fatto bene il suo lavoro. Le sue ossa diventano elastiche; un senso di nausea lo assale, la pelle gli prude, il corpo si fa umido e vuoto… e fluisce, cambia, mentre il mago respira a fatica. Guarda il terreno e l’acqua ricoperta di schiuma che si avvicinano sempre più rapidamente…
A una distanza dal fossato pari a quella di un uomo non molto alto il corpo vestito di nero diventa una stella del medesimo colore. L’esplosione di luce scura si congela per un istante. La folla che osserva inizia a mormorare. La stella si sposta lateralmente nella brezza, poi ammicca e scompare…
Pozze nere e maleodoranti ribollono di vapori sulfurei. Vespe crudeli si posano sulla testa dei prigionieri, sommersi e impotenti, e infilano i loro lunghi pungiglioni, scambiando veleno con sangue. Le vittime agonizzanti e boccheggianti annegano.
Un gorgo improvviso agita quelle acque e porta in superficie carcasse giganti, nere di melma, e creature ignote dalle strane forme vengono scagliate lontano dal sudiciume. Al centro di quel turbinio si leva una nuvola rossa e nera. Questa continua a vorticare, dapprima rapida, poi sempre più lenta, fino a fermarsi e rivelarsi come…
«Malachlabra, Duchessa dell’Inferno e figlia di Dispater», mormorò Tasnya che stava osservando la scena. La donna scacciò l’immagine con un pigro gesto della mano, prima che il demone distante percepisse il suo incantesimo scrutatore. «Sei una sciocca testarda. Quasi malvagia quanto Nergal.»
Il demone si compiacque della sua intelligenza con un sorriso e si rotolò di nuovo per mordere la gola di una erinni. Mentre le altre piagnucolavano e si allontanavano dal letto grondante di sangue, i diavoletti sospesi sopra Tasnya continuarono a lavorare imperterriti, frustandola come lei aveva comandato, con le fruste uncinate inventate dalla loro padrona. Per tutti i Nove Inferni, quanto amava il dolore.
TENTI DI NUOVO DI GABBARMI, UMANO! FINO A CHE PUNTO MI CREDI STUPIDO?
[silenzio]
SÌ, FAI BENE A STARE ZITTO ORA. FUOCO E SANGUE, COME FAI A TROVARE QUALCOSA IN QUESTO PANTANO CHE TU CHIAMI MENTE? OGNI COLLEGAMENTO HA UN SENTIERO LATERALE, OGNI RICORDO È SOVRAPPOSTO AD ALTRI DUE O TRE, E TU SVOLAZZI DAVANTI A ME COME UN DIAVOLETTO CIARLIERO, GETTANDOMI IN PASTO UNA COSA QUANDO NE CERCO UN’ALTRA! QUANDO FINALMENTE AVRÒ CARPITO I TUOI SEGRETI, AVRÒ L’IMMENSO PIACERE DI DARTI UNA MORTE LENTA E DOLOROSA. TI STRAPPERÒ GLI ORGANI TENERI DENTRO E FUORI DAL TUO CORPO, ORGANI CHE NON SAPEVI NEMMENO DI AVERE!
[il silenzio fu pervaso da uno stanco divertimento]
SÌ, LO SO CHE DILEGGI I DEMONI PER LE LORO CRUDELTÀ GROSSOLANE, PICCOLO VERME UMANO, MA LE CREATURE CESSANO DI RIDERE QUANDO SONO TROPPO OCCUPATE A GRIDARE… SCOPRIRAI ANCHE QUESTO! ORA, VOGLIO ALTRI RICORDI, PERCIÒ CONTINUA!
Due ciotole di zuppa fumante erano posate davanti a loro sul tavolo consunto della cucina, con accanto altrettanti boccali di sidro caldo. Le due donne dai capelli argentei ignorarono entrambi, intente a ridacchiare dell’ultimo romanzo di Sembia Cuore d’acciaio.
«“Gli occhi scintillanti”», esclamò una voce tremula sul punto di scoppiare in una fragorosa risata, «“la donna lanciò gli dweomer che raggiunsero sfolgoranti l’apparizione sovrannaturale…”»
L’altra donna grugnì, fingendo d’essere disgustata, e fu colta da un attacco di riso poco dopo la sorella.
Storm, che possedeva sia il libro sia il titolo di Lettore ad alta voce alla folla, riuscì a placare per prima la sua ilarità. Scostandosi i lunghi capelli dagli occhi, osservò la sorella scuotere le spalle e affermare con voce roca, «Ora basta ridere… dobbiamo finire un’epica!»
«“Una saga da palpitazioni, che narra di cuori infranti e d’incantesimi abbaglianti!”» citò Syluné in preda a un nuovo accesso di riso. «In cui spade audaci trafiggono il male nel suo centro vitale, spezzando cinture di castità sul loro cammino!»
Storm sollevò lo sguardo verso di lei. «Non dice così», protestò gentilmente, le labbra tremanti, sul punto di ridere. «Dice “lungo il cammino”, ne sono sicura», esclamò, senza curarsi di verificare sul libro.
Syluné fu colta da un altro scoppio di risa, sprofondò la faccia nelle mani e fece cenno a Storm di continuare.
La sorella le lanciò un’occhiata dubbiosa, abbassò gli occhiali decorati, privi di montatura, sul naso (essi venivano forniti a chi svolgeva l’incarico di Lettore ad alta voce, per ragioni che entrambe avevano scordato da secoli) e si schiarì rumorosamente la gola.
Syluné si sedette obbediente, gli occhi lucidi, e si mise a fissare il soffitto per evitare di incrociare lo sguardo di Storm.
La sorella le rivolse un’occhiata divertita, poi sollevò di nuovo il libro e ricominciò a leggere. «“Il prode destriero blu-nero dai muscoli guizzanti nitrì tanto forte quanto la campana di un tempio, mentre il cavaliere in armatura scintillante scavalcava coraggiosamente il balcone, faceva acrobazie fra le travi incrociate, emettendo rumori pari a quelli che avrebbe fatto un intero esercito caduto nello stesso letamaio, e si sedeva pesantemente sulla sella dall’alto arcione… ma con la faccia rivolta all’indietro. Il clangore del metallo torturato e il grido del cavaliere straziato che quasi lo sovrastò, spaventarono il fedele destriero da battaglia ancor più del peso improvviso che gli era piombato in groppa; il cavallo s’impennò e, per l’ennesima volta, per poco non disarcionò Sir Taen, dopodiché partì a un galoppo selvaggio per la camera da letto. La principessa sbalordita scattò seduta sul letto appena in tempo per vedere…”»
«Oh, fermati!» singhiozzò Syluné, ridendo fragorosamente. La sua sedia a dondolo scricchiolò e aumentò la velocità; Storm osservò divertita quando la sedia cominciò ad avanzare sul pavimento, avvicinando le costole del nuovo corpo di Syluné al bordo del tavolo.
La donna non smise di ridere… nemmeno quando la sedia s’inclinò in avanti e il mento di Syluné colpì rumorosamente sul cucchiaio. La posata volò in alto verso le travi, Storm attese che ricadesse, l’afferrò con abile mossa e chiese: «Puoi evitare, per favore, di lanciare le posate! Non siamo a un banchetto reale, lo sai!».
La risata di Syluné si moltiplicò. La donna si gettò all’indietro con tutta la sedia che, ovviamente, ricominciò a dondolare. Forte.
Storm roteò gli occhi, sospirò ed esclamò rivolta al soffitto della fattoria: «Non è chiedere troppo, ma potrebbe esserlo… se capisci cosa intendo».
Il soffitto evidentemente capì. Qualcosa di piccolo e leggero svolazzò giù dalle travi più alte e impolverate. Storm l’afferrò e sollevò il palmo per vedere di che cosa si trattasse: una rana di carta che uno dei suoi allievi Arpisti aveva fatto tre estati prima. Evidentemente l’aveva lanciata lassù prima di andarsene.
Mentre osservava quell’oggetto ingegnoso, la sua ilarità lasciò il posto alla tristezza. Storm aveva sepolto le ossa tormentate dell’Arpista l’inverno precedente, nell’entroterra di Teshen; quella piccola rana era tutto ciò che rimaneva di lui.
«Sorella», mormorò Syluné, ogni traccia di umorismo ormai scomparsa, «devo andare… Alustriel ti dirà il perché!»
Storm sollevò lo sguardo dalla rana e fissò la sorella maggiore. La testa di Syluné ciondolò e sbavò, gli occhi vitrei, prima di ricadere nella zuppa.
Storni allungò un braccio lungo per afferrare una ciocca di capelli ed esclamò: «Non nella mia zuppa, no!», ma ormai era troppo tardi.
Rimise il corpo in posizione seduta e appoggiò la rana, come fosse la cosa più preziosa del mondo. Poi sospirò e prese il suo grembiule smesso per pulire la zuppa dal volto inespressivo di Syluné. Sollevò il corpo abbandonato della sorella fra le braccia, come se non pesasse nulla, e lo posò delicatamente di sopra, sul letto.
Il Bardo di Shadowdale abbassò lo sguardo, sospirò di nuovo e sistemò le mani senza vita sul romanzo Cuore d’Acciaio, appoggiato sul petto immobile, in caso non fosse stata presente al ritorno di Syluné.
Dopodiché scese dabbasso e uscì, per guardare la valle che amava. Prima, tuttavia, si fermò a prendere il boccale di sidro e rimase a domandarsi quanto tempo sarebbe passato, questa volta, prima che anche lei fosse chiamata alla guerra…
NO! NO! UN’ALTRA PERDITA DI TEMPO! DONNE MERAVIGLIOSE, MA A ME CHE IMPORTA? VOGLIO LA MAGIA, DANNATO UMANO! COME FAI A SFIDARMI ANCORA? COME?
[grugnito, soffocato con fermezza]
NO, NON ME NE STARÒ QUI A RINGHIARE. MI RITUFFERÒ NELLA TUA MENTE E QUESTA VOLTA CERCA ESSERI CHE RISPETTI MA CHE NON FREQUENTI IN MANIERA TANTO STRETTA. CHE ALTRO POTREBBE GUADAGNARSI IL TUO RISPETTO SE NON IL POTERE VERO? MAGIA CON LA QUALE SOTTOMETTERE I REGNI! MAGIA CHE IO POSSA USARE!
[occhi rossi e infuocati, che vagano per stanze buie e distruggono qualsiasi immagine trovino, scaraventando da parte alcuni ricordi, in cerca di altri…]
«R-regina?» balbettò la giovane, il volto una maschera di terrore. La fanciulla tremava violentemente ed era troppo spaventata per muoversi; avrebbe voluto trovarsi altrove, in qualsiasi luogo, tranne che inginocchiata nei giardini reali a offrire fiori alla regina di Aglarond.
La madre la osservava con il viso bianco come il gesso.
La Simbul, la strega i cui incantesimi riducevano i Maghi Rossi in un ammasso di ossa e sangue, abbattevano torri e facevano tremare le montagne, si era improvvisamente accigliata. Anche in quel momento i suoi capelli si sollevavano e vorticavano intorno alle spalle come se avessero vita propria… no, molte vite, ognuna di loro bramosa di bruciare e distruggere e di ridurre in pezzi ragazzine che osavano offrire fiori.
Un piccolo singhiozzo fece tornare in sé la Strega-Regina di Aglarond. Il suo sguardo si abbassò e incontrò gli occhi sgranati e impauriti della ragazzina che aveva emesso quel verso.
La Simbul fu percorsa da un brivido. Niente avrebbe dovuto indurre le ragazzine ad assumere espressioni del genere. La maga fece appello al suo sorriso più caldo e s’inginocchiò: «Molte grazie», e impresse un bacio reale sulla fronte tremante. «Sii sempre la benvenuta nei nostri giardini», aggiunse, sollevando la fanciulla ancora impaurita e voltando la testa per rassicurare con un sorriso la madre ansiosa.
I cortigiani che la circondavano si rilassarono visibilmente. La fanciulla fuggì via come un coniglio dalla stretta della regina, diretta verso la salvezza delle gonne materne.
La più anziana delle guardie si accostò alla Simbul e osò mormorare: «Qualcosa la turba, Maestà?».
La maga annuì. «Sì. Un ricordo.»
«Ah», esclamò la guardia arretrando. Senza dubbio una donna che negli anni aveva ucciso centinaia di Maghi Rossi in violente battaglie d’incantesimi serbava più di qualche ricordo truce che le sarebbe potuto tornare, indesiderato, in mente.
E non si sbagliava, ma ciò che incupì nuovamente la regina di Aglarond mentre si voltava e s’incamminava lungo il sentiero del giardino, fu il fatto che il ricordo non era suo. Sentiva ancora le risate sfrenate delle sue sorelle per un libro romantico, un romanzo di fantasia… un fatto nuovo per lei, ma sbrindellato e sfuggente nell’archivio della memoria di qualcun altro. Ma di chi?
Quale mente avrebbe potuto toccare la sua tanto delicatamente? La mente di chi?