Alla deriva in un sogno di dolore, Elminster si risvegliò gradualmente e s’accorse che invece era reale. Stava fluttuando, o cadendo, attraverso una nube di fumo rosso e nero, screziata di fuochi crepitanti. Di tanto in tanto lo trafiggevano saette di furia luminosa. Stava cadendo nella mente di Nergal.
SEI SVEGLIO, PICCOLO VERME? MI HAI DI NUOVO FATTO PERDER TEMPO, GRAZIE TANTE.
[un fulmine mentale lo colpisce ripetutamente finché non si dimena e non si contorce, in agonia, dopodiché lo trafigge ulteriormente]
CHE TE NE PARE? AFFASCINANTE, [ghigno] SCONFIGGI UN UOMO PER CASO, E PRENDI LA TUA RICOMPENSA DALLA DEA.
[sussulto]
BENE, SCHIAVO MENTALE, HO PERSO LA PAZIENZA. DI NUOVO. PREPARATI A ESSERE DISTRUTTO. NON SONO PIÙ DISPOSTO A SUBIRE I TUOI GIOCHETTI; ORA SONO DECISO A TROVARE, E A FAR MIEI, I RICORDI UTILI, UNA VOLTA PER TUTTE. MUORI, POTENTE MAGO!
[arco luminoso di fulmini mentali, che piovono come meteore e rimbalzano sino a sovrastare tutto, bruciando la sagoma evanescente del fantasma umano che ruzzola e geme]
ARRENDITI, SCIOCCO! DAMMI CIÒ CHE CERCO!
[cerchio di fuoco accecante, che si stringe come un cappio attorno all’essenza di Elminster, priva di membra, che precipita e svanisce a poco a poco]
DAMMI QUEL FUOCO ARGENTEO!
Nel vuoto in cui le stelle cadono senza tregua si sollevò una testa. Capelli di color blu-nero turbinavano dietro di essa formando una grande onda. Le stelle assunsero la forma di un volto accigliato. «Qualcosa non va.»
La Tela tremolò ancora una volta. Gli occhi di Mystra avvamparono improvvisamente di fuoco argenteo.
«Elminster! Vecchio Birbante, che succede?»
La dea allungò un braccio per percepire quel calore malizioso e familiare, quell’impertinente stravaganza che accoglieva sempre il suo tocco, insieme a una strizzata d’occhio e una carezza, ma non trovò nulla.
«Elminster!»
Allarmata, la dea della magia raccolse le forze intorno a sé e le spiegò lungo una linea luminosa, poi iniziò seriamente a cercare.
Dolore, il fuoco argenteo si rovescia, negli Inferi!
Il suo maestro, la fonte di gran parte del suo potere, il suo legame più sicuro con la Mystra che l’aveva preceduta… in pericolo!
«No!» Una luce avvampò fra le stelle, e il vuoto fu scosso.
Su tutta Faerûn gli altari dedicati alla Signora dei Misteri eruttarono fiamme blu, che non divorarono nulla né scottarono alcuna mano, ma gettarono tutti i fedeli in uno stato di vigilanza irrequieta. I lucchetti sui libri d’incantesimi vennero meno e i tomi si aprirono; le rune s’illuminarono per tracciare bagliori turbinanti, speculari, sopra le pagine, draghi tuonarono e grugnirono voltando la testa da una parte e dall’altra in cerca di nemici o di visitatori.
In una radura del Bosco di Neverwinter la giovane maga Dethaera Matchlass fluttuò sorpresa, stretta nella morsa del suo primo rituale di Fuocomagico. Si levò in alto, gli abiti improvvisamente luminosi, sopra le teste dei colleghi devoti, poi singhiozzò di dolore e di meraviglia quando una serie d’incantesimi potenti a lei sconosciuti si manifestò nella luce della sua mente.
Nelle verdi profondità di Myth Drannor una torre pendente e solitaria crollò con un boato.
A Waterdeep una fanciulla che stava ammirando la Torre di Ahghairon camminò attraverso le barriere, fino allora impenetrabili, che la circondavano e le porte si spalancarono al suo approssimarsi. La giovane entrò e non ne uscì più.
Nel Luskan uno degli arcimaghi della Confraternita Arcana, impegnato a ordire un destino crudele per un apprendista maldestro, acquisì improvvisamente la testa di un leone al posto della sua. Perplesso e terrorizzato, cominciò a ruggire impotente, privato d’un tratto sia dei poteri magici sia della parola.
Nel Suzail, mentre passava rapido accanto a una spia Arpista, nascosta in un passaggio poco conosciuto del palazzo del Dragone Purpureo, Vangerdahast s’irrigidì. La donna fece per uscire dal nascondiglio per sorreggerlo al primo segno di traballamento, ma il vecchio e burbero mago continuò il suo cammino, sbattendo frettolosamente una porta dietro di sé. Nella camera oltrestante vi erano una sedia, una scrivania, un attaccapanni e uno specchio. Il mago si appoggiò al tavolo, domandandosi perché gli ribollisse il sangue e, per caso, si guardò allo specchio. Il volto che ricambiò il suo sguardo non era il suo, ma un viso femminile, gli occhi saggi e, nel contempo, giovani e belli. Respirando affannosamente, Vangerdahast batté le palpebre, e lo specchio andò in frantumi; il mago si voltò con aria torva, sapendo che finalmente era giunto il momento.
In Averno una sfera di fuoco precipitò verso pinnacoli bruciacchiati, ma d’un tratto virò lateralmente. Dall’aria antistante uscì una figura femminile, alta e slanciata, luminosa come un falò.
In un centinaio di forre e su migliaia di fianchi montagnosi una moltitudine di demoni sollevò la testa e rimase sbalordita. Si levarono in volo in folte schiere e videro una donna umana sospesa da sola, a mezz’aria, alta come una decina di demoni e avvolta nei suoi capelli di color blu-nero.
«Dov’è?» tuonò la sua voce in Averno.
I generali a comando dei demoni degli abissi trasalirono e grugnirono. I demoni minori si fecero piccoli per la paura; quelli che si erano lanciati all’attacco esitarono, ma fruste nere li incitarono a proseguire. L’intrusa li osservò avvicinarsi senza reagire.
Forche, lance e pugnali di fuoco affondarono in lei come fosse fatta di niente, squarciandone solo il manto luminoso. Nei punti in cui dalla carne nuda sarebbe dovuto sgorgare sangue si scorgevano soltanto chiazze scure, punteggiate di stelle vorticanti. Gli occhi della signora avvamparono d’argento.
«Dov’è lui?» domandò con più urgenza. «Che cosa gli avete fatto?»
Giunsero draghi, sbattendo ali rapide e possenti, le fauci spalancate dalla fame. Erano spronati da arcidemoni, i cui eserciti solcavano il cielo a migliaia, oscurando la volta rosso sangue con i loro corpi.
Mystra fissò coloro che affondavano le armi nel suo corpo, e questi svanirono trasformandosi in fili di fumo argenteo. Alcuni ringhiarono e sputarono incantesimi contro di lei, ma la dea si voltò e rispose al fuoco, uccidendo altre creature infernali.
Morte per sempre, bruciate come se non fossero mai esistite, scomparse a centinaia. Sotto gli eserciti confluenti Averno tremò, mentre arcidemoni nascosti nelle profondità degli Inferi guardavano in alto, allarmati, e impartivano ordini. Dalle rocce di Averno emersero allora i demoni degli abissi, a capo di armate di mostri alati.
Tutto l’Inferno era in tumulto. Il cielo fu squarciato da fulmini e le montagne fumanti eruttarono fuoco. In mezzo a milioni di demoni Mystra puntò lo sguardo e uccise, finché non bruciarono anche quelli che volavano tre file dietro ai demoni distrutti. Tutti caddero dai cieli su Averno, e una pioggia umida e scura di corpi straziati ricoprì le vette e ostruì i fiumi di sangue.
Trombe terribili risuonarono nell’aria. Cocchi scuri ascesero al cielo e dalle loro fauci irte di zanne riversarono orde di mostri alati, idre orribili viste raramente in Averno.
Mystra continuò a uccidere, una fiamma argentea scintillante contro una sfera sempre più piccola di morte nera. Anche l’aria stessa cominciò a frantumarsi e a caderle attorno come vetro infranto. Nel terreno s’aprirono spaccature dappertutto. Quando vide Faerûn luminosa e serena attraverso di esse, sotto e dietro di lei, Mystra capì che se ne sarebbe dovuta andare altrimenti avrebbe perso Toril in quell’impresa. La devastazione dell’Inferno e il salvataggio di Elminster avrebbero dovuto attendere un altro momento e un’altra occasione.
Come il suo fedele Eletto prima di lei, la dea concentrò l’attenzione sulla chiusura delle spaccature fra Toril e Averno. Ma a differenza di Elminster, lei uscì da quest’ultimo, chiudendo la lacerazione e lasciando dietro di sé un regalo di congedo.
Il cielo rosso sangue di Averno s’illuminò d’argento e poi di bianco e blu. In tutto il paesaggio torturato ogni demone volante cadde, disintegrato all’istante.
Un sangue nero e fumante impregnò e soffocò la terra. Mystra non seppe mai che aveva rischiato di affogare l’uomo che era venuta a salvare. Pochi istanti prima una erinni sfuggita al massacro aveva protetto Elminster, che si trascinava alla cieca e, quando cadde staccandosi da lui, ormai ferita e morente, il mago era illeso. Questi si mise faticosamente in piedi per vedere svanire l’ultimo bagliore argenteo.
«Mystra», sussurrò. «Grande Signora… tutto questo per me?»
Piangente, ricadde fra i morti. A perdita d’occhio l’aria era scossa da esplosioni nere; innumerevoli demoni degli abissi giunsero da Nessus, colmi della rabbia di Asmodeus, per distruggere l’intruso solitario che non era più nei cieli di Averno. L’Inferno fu scosso in profondità da una rabbia nera e le fiamme s’innalzarono alte. Il cielo divenne rosso sangue per un’altra eternità.
Azuth.
Nelle tenebre fluttuanti di uno spazio che non era un piano, formato dalla magia di tutti gli incantesimi di Candlekeep, il Signore degli Incantesimi scivolava come un serpente da una runa all’altra. Queste si ergevano come sculture in uno spazio vuoto. Il dio riattivò il fuoco di una e diede nuova forma a un’altra, cambiandone lievemente i poteri e il significato per salvaguardare il tessuto di Toril e per guidare i maghi in direzioni diverse, quindi…
La voce nel suo sangue, mentre lui si muoveva come una lingua di fuoco e di magia evocata, fu tanto delicata da sembrare opera dell’immaginazione.
Altissimo, ho bisogno di te. Questa volta la voce mentale era forte e chiara. Mystra era vicina e lo cercava.
«Grande Signora, ti sento. Come posso servirti?»
La voce avvampò improvvisamente di fuoco argenteo. Un bagliore bianco e blu rotolò all’orizzonte come un’onda che cerca una spiaggia distante. Due occhi, scuri e stellati come una calda notte d’estate, lo guardarono da un punto a breve distanza da lui.
Azuth si trattenne dall’improvviso desiderio di abbracciare la dea e di assaporarne l’amore; tale sensazione lo pervadeva ogniqualvolta s’incontravano, ogniqualvolta il potere divino faceva appello al suo.
«Grande guida», sussurrò Mystra, «il nostro Eletto più potente è caduto in Averno, e l’Inferno si è rivoltato contro di me. Dobbiamo riportarlo indietro. Ma in che modo?»
Sbigottito, Azuth si trasformò in un mago giovane e alto, con una tunica bianca scintillante e due occhi grandi e scuri. «Sei sicura… ma naturalmente.» Ci fu un baleno quando Mystra condivise con lui ciò che era accaduto, il suo contatto mentale con Elminster… e la debolezza assoluta del più potente dei suoi Eletti. Il Signore degli Incantesimi si accigliò.
«Ebbene?»
Azuth trasalì. «Grande Signora», mormorò, «con l’Inferno in tumulto, la forza non è la soluzione migliore. Anche un’azione furtiva è destinata a fallire, per il momento. Se sopravvive, potrebbe essere indicato un salvataggio rapido, ma sappi, e non dimenticare, che chiunque inviamo, sarà perduto per sempre. Anche quelli che si salvano fisicamente dall’Inferno, spesso impazziscono».
DUNQUE LA TUA MYSTRA SENTE LA TUA MANCANZA E RIVUOLE IL SUO PICCOLO CANE DA SALOTTO. TUTTAVIA PERSINO LE DEE TROVANO IL BENVENUTO DELL’INFERNO UN PO’ TROPPO CALDO E FUGGONO A MANI VUOTE. NON TI AVRÀ MAI.
TU SEI MIO, PICCOLO MAGO INCATENATO.
MIO, SEBBENE QUELLA TUA MENTE ROVINATA E PIAGNUCOLANTE FUNZIONI ANCORA, E TENTI VANAMENTE DI TENERMI NASCOSTE LE COSE.
NON TI È RIMASTO MOLTO CON CUI OPPORRE RESISTENZA, VERO? VEDIAMO SE RIUSCIAMO A PORTARE ALLA LUCE I RICORDI IN CUI CONTROLLI LA MAGIA, QUANDO INSEGNI AGLI APPRENDISTI, HMMM?
Il vetro esplose nella stanza in una miriade di frammenti luccicanti. Sospirando, Elminster coprì la tazza di tè con una mano.
«Muori, maledetto stregone da quattro soldi!» La maga sulla finestra allungò le mani a mo’ d’artiglio, e fulmini scaturirono dalle sue lunghe dita.
Questi rombarono attraverso la stanza, fra bagliori accecanti e scintille scoppiettanti, e colpirono qualcosa d’invisibile a pochi centimetri dal naso del Vecchio Mago. Questi li osservò rimbalzare, tranquillo, e salutò la Maga Rossa con la mano, mentre il suo stesso incantesimo la trafiggeva e la spingeva, urlante, fuori dalla stanza.
«Lhaeo», annunciò con calma Elminster, «la finestra. Di nuovo. Una Thayana ambiziosa, come al solito».
«Lo so», una voce aspra si levò dal giardino sottostante. «Le mie rose, perché devono sempre atterrare sulle mie rose? C’è un intero acro di gigli e di erbe per giacere e consumarsi lentamente, ma oh, no, nelle mie rose, vi precipitano dentro e si dimenano…»
«È il tuo turno per l’incantesimo», gli ricordò El dolcemente, poi affondò un pollice nella tazza per mescolare bene la bevanda.
«Non è compito mio, lo sai», borbottò Lhaeo. «Potrei guadagnare un intero pezzo di rame a scavare tombe nel Voonlar».
«Potresti governare un regno da qualche parte non lontano da qui, ragazzo», ribatté Elminster, lo sguardo rivolto al soffitto.
«Non mi tentare», grugnì Lhaeo. «Vetri dappertutto, rose spezzate e fumanti, e numerose dozzine di giovani donne Sembiane che vengono per il tè! Non potresti, per favore, uccidermi e farla finita subito?»
«E domani che farei per divertirmi, eh! Voi principini, sempre a pensare solo a voi stessi, senza un minimo di considerazione per il benessere di vecchi maghi deboli, spossati dal compito millenario di salvare il mondo…»
«Oh, chiudi il becco! L’unica cosa peggiore dei sentimentalismi è un mago borioso! Ti sei già mangiato metà dei panini, e loro non sono nemmeno arrivate!»
«Era il minimo che potessi fare, ragazzo», rispose Elminster con tono offeso, «dopo che ti sei dato tanto da fare a toglierci le croste».
La testa di Lhaeo fece capolino alla finestra dai vetri infranti. «E c’è un’altra cosa! Te ne vai in giro per questi “altri mondi” e torni con le idee più assurde! Tagliare il mio pane alla glassa d’uovo senza crosta in maniera tanto sottile che ci potrei sputare attraverso! Che razza di idiota lo farebbe! lo…»
«Potresti sputarci attraverso: spero sia solo un’ipotesi», esclamò Elminster con disapprovazione, un sopracciglio sollevato.
«Potrebbe, ma l’ho fatto», ribatté Lhaeo. «Dovevo provarci, una volta venutami l’idea.»
Elminster, incredulo, emise una sorta di «eep» e guardò i mucchietti ordinati di panini senza crosta, impilati sui piatti di fronte a sé.
Lhaeo gli lanciò un’occhiata disgustata. «Tu non bazzichi molto nelle cucine, vero?»
In quel momento una statuetta di rame raffigurante una rana panciuta, appoggiata su uno scaffale, aprì un occhio e la bocca, si schiarì la gola e, con voce monotona, esclamò: «Bong».
Lhaeo grugnì. «Sono arrivate.» Agitò bruscamente una mano, mormorò qualcosa, e tutti i vetri della stanza tornarono al loro posto in un turbine silenzioso e scintillante.
Elminster sollevò sardonico un sopracciglio. «Ti metti in ghingheri per le signore!»
La finestra emise un suono molto aspro in risposta.
Il mago lo ignorò, sollevò due dita con un rapido gesto e cominciò a parlare rivolto all’aria. «Accomodatevi e siate le benvenute, gentili signore. Che la mia casa, per quanto modesta, sia per voi un rifugio. Mentre vi aggirate nella mia dimora, vi prego di ricordare solo questo: se non toccate nulla, nulla vi potrà far male. Il tè verrà servito nella stanza la cui porta emette ora un bagliore blu.»
Una foschia blu si levò per un attimo all’estremità più lontana del locale. La porta si spalancò di colpo.
Una cosa enorme, ornata di merletti e apparentemente con tre seni, fluttuò fra la nebbia prima che Elminster potesse sorridere. «Oh, voi siete dunque il grande Elmin-stah! Che onore, che gioia rara incontrarvi! I miei amici di Selgaunt saranno tanto gelosi! Un vero arci-mago in carne e ossa, seduto nel suo salotto con tutti i suoi libri e i cappelli buffi e i crani e i barattoli delle rane e… oh, beh, sì, è così eccitante! Non è vero, ragazze?»
Si udì un coro obbediente di «Sì, grande signora», provenire dalla porta, ma la Gran Lady Calabrista non era rimasta ad attendere la risposta.
«Voglio sappiate, signooore, che abbiamo fatto tanta strada solo per vedere voi, e che abbiamo scelto soltanto le giovani migliori! Non mi sognerei di farvi perdere tempo con qualcosa che non sia più che eccellente! Oh, sì, credo che rimarrete molto soddisfatto del tipo di ragazze che forma la mia piccola scuola… e lo dico addirittura io, in persona! Ragazze! ragazze! Non state sulla porta, entrate, entrate, in modo che il grande Elminster possa vedervi!»
La tazza di tè appoggiata di fronte al mago mormorò: «Sembra una schiava che ho udito una volta a Tharsult». La voce suonò sospettosamente come un’imitazione metallica di quella di Lhaeo.
Elminster sorrise e affermò: «Gran Lady Calabrista, sarete molto affamata dopo un viaggio tanto lungo e faticoso!».
La tazza di tè sputacchiò, ma il mago la ignorò. «Vi prego entrate, sedetevi sulla mia sedia migliore, e assaggiate questi panini succulenti con un po’ di cordiale alle bacche…. Anche voi signorine, sono certo, non disdegnerete…»
Prima che potesse terminare la frase, la proprietaria della tunica con la parte anteriore rialzata e con una strana acconciatura ad elmo s’era adagiata sui cuscini di seta rosa di una poltrona dorata, dallo schienale alto, che fino a quella mattina era stata un fungo marcio nella foresta della Collina dell’Arpista. Più rapida di una goccia di pioggia che cade per terra, la donna si servì alcuni panini su un piatto d’argento. Una fine caraffa piena di cordiale si sollevò lieve da uno scaffale e riempì un calice di vetro posto accanto al gomito di Lady Calabrista, al che la donna emise un risolino di sorpresa.
Quattro belle fanciulle in abiti di seta entrarono nella stanza, facendo un gesto di cortesia con la mano, e si posero davanti a quattro sedie vuote lontane dalla tutrice. Splendevano come preziosi mobili di corte, ma almeno due di loro esibirono un sorriso un po’ troppo altezzoso e beffardo. Tutte ostentavano un atteggiamento fintamente annoiato e una languida disinvoltura, e tutte si sarebbero ben presto buscate un raffreddore con le tuniche che avevano scelto per fare bella impressione. Guardando le perle scintillare, le pantofole strisciare e gli orecchini di gemme penzolare e ondeggiare, anche a Elminster cominciava a venire in mente il Tharsult.
«Venite più vicino, più vicino, ragazze! Non siate timide; i grandi uomini non hanno tempo per ragazzine titubanti! Signooor Elminster, questi panini sono davvero i bocconi più squisiti che abbiano sfiorato le mie labbra da settimane! Ditemi, di che cosa son fatti?»
«Lumache, Gran Lady», rispose El col più dolce dei sorrisi. «Farciti con una pasta verde fatta solo con le lumache arboricole più grosse della foresta che ci circonda, guarnite con pepe e succo di limone, naturalmente».
«Naturalmente», gli fece eco Lady Calabrista, un po’ esitante. In quell’istante Elminster coprì la tazza con la mano, per smorzarne lo sbuffo d’ilarità. Quattro mani delicatamente protese si bloccarono all’istante, tremarono e alla fine si ritrassero, senza nemmeno sfiorare i vassoi.
Il Vecchio Mago sollevò le sopracciglia. «Oh, ma sono buoni! I nobili di Waterdeep li apprezzano più d’ogni altra cosa! E se gli dei vi arridono, e vi concedono grande fortuna…» aggiunse, protendendo avido una mano e scrutando i panini sul vassoio davanti a lui. Poi ne afferrò rapidamente uno, lo apri e, dopo aver mostrato la lumaca che vi strisciava dentro, lo richiuse, lo portò alla bocca e lo addentò con voracità, concludendo, «… ne troverete una viva! Ah, non c’è nulla di più buono!».
Mentre parlava, la testa verde della lumaca fece capolino dall’angolo della sua bocca, si voltò di qua e di là con aria interrogativa, e poi svanì nuovamente all’interno. Elminster masticò con vigore, sorridendo agli ospiti. I piccoli trucchi facevano centro, sempre.
«I-io credo sarebbe meglio», balbettò Lady Calabrista, «se procedessimo con il motivo della nostra visita. Uomini di grande influenza nel Sembia… per dire le cose come stanno, uomini di grande ricchezza… hanno iscritto le proprie figlie alla mia scuola già da alcuni anni, per scoprire se gli dei abbiano donato loro il talento della magia, un talento che, non per vantarmi, so coltivare senza ricorrere ad altari neri, fuochi di mezzanotte o sacrifici di, ehm, lumache. Intendo dire, sono certa che queste ragazze, le mie studentesse migliori, non deluderanno alcun praticante competente dell’arte! Mi è stato chiesto di portarle al vostro cospetto da individui molto altolocati, affinché le esaminiate, ah, e le approviate».
«Avete preso una decisione buona e saggia», rispose Elminster sorridendo lievemente. «Io le approvo tutte.»
«Davvero! Senza nemme… voglio dire, la loro attitudine alla magia è tanto evidente!»
«Esatto, Gran Lady», ribatté Elminster con un sorriso aggraziato, picchiettando delicatamente la tazza (che aveva iniziato a emettere versi simili a singhiozzi), «proprio così. Non vi sono dubbi. Se non aveste avuto tanta parte, una parte importante, nel forgiare le loro glorie, il loro potere brillerebbe ancor di più! Vi prego di accettare le mie scuse, fanciulle, perché qui si discute di voi come si fa del bestiame, o di tuniche raffinate, o del cristallo di china… Ciò che mi sta più a cuore non è la vostra abilità con gli incantesimi, ma il vostro modo di pensare e il vostro carattere, e i viaggi quotidiani del vostro cuore. Forse possiamo tentare di analizzare tutto ciò già oggi. Io…». In quel momento una miriade di frammenti scintillanti di vetro fu piroettata nella stanza. Sospirando, Elminster coprì nuovamente la tazza di tè con una mano.
«Muori, maledetto stregone da quattro soldi!» La maga sulla finestra allungò le mani a mo’ d’artiglio, e fulmini scaturirono dalle sue lunghe dita.
Questi rimbombarono nella stanza, fra i soliti bagliori accecanti e scintille scoppiettanti, e colpirono qualcosa d’invisibile a pochi centimetri dal naso del Vecchio Mago. Lui li osservò rimbalzare, tranquillo, fra urla, un fuggi fuggi generale, collane di perle che si rompevano e una Lady Calabrista che si aggrappava con le unghie allo schienale della poltrona. Questa si ribaltò all’istante e rivelò al mondo intero un folto strato di sottane di seta e di garza ornate di gemme. I fulmini tornarono alla Maga Rossa che li aveva scagliati, ma si dispersero dopo aver cozzato contro il suo scudo. La donna emise quindi un verso di rabbia e di trionfo che riecheggiò in tutta la stanza, facendo tremare una certa tazza di tè, trasformando le sedie di nuovo in funghi, e facendo aprire entrambi gli occhi alla rana, che esclamò con tono interrogativo: «Bong!».
In pochi secondi quattro donne di Sembia scomparvero dalla stanza. Elminster si appoggiò comodamente alla sedia, il panino ancora in mano, e osservò con interesse mentre l’ultima delle giovani visitatrici, tremante e con le labbra pallide, protendeva una bacchetta estratta da un fodero fino ad allora rimasto nascosto lungo il suo fianco, digrignava i denti e sibilava una parola che risvegliò d’un tratto il pezzo di legno che stringeva tra le mani.
Un fascio di luce bianca inondò la stanza, accerchiò la maga di Thay con fuochi rossi per un istante e poi scaraventò maga, finestra, scudo magico e tutto il resto nel giardino sottostante, creando un buco largo e fumante.
La giovane Sembiana fissò sbigottita il suo operato, gli occhi colmi di lacrime.
Una voce debole salì dal giardino: «Le mie rose!».
«Stai bene, Lhaeo! Non mi aspettavo che questa sputafuoco avesse una bacchetta di fiamme brucianti…»
«Non ero io», rispose lo scrivano con aria stanca. «Io ero ancora una tazza di tè. Era un Mago Rosso… o una Maga, insomma era vero.»
Elminster corrugò la fronte. «Due in un pomeriggio! Dovrò istituire un pedaggio.» Il mago voltò lentamente il capo e chiese sbalordito alla fanciulla: «Nouméa Fairbright? È il tuo nome, vero!». Lei annuì ed El continuò: «Nouméa, dove diavolo hai preso una bacchetta di fiamme brucianti! Sono pericolose, lo sai».
La giovane lo guardò per qualche istante con la bocca spalancata, poi ritrovò la voce. «Pericolose? pericolose? Dopo che ordinate al vostro apprendista di scagliarci addosso fulmini? Per ingannarci, bruciarci e spaventarci come mai ci era accaduto prima! Perché, voi…»
El sogghignò, e il volto di Lhaeo, quando apparve alla finestra, aveva un’espressione identica.
«Tu sei perfetta», esclamarono in coro. «Sì, fai al caso nostro. Siediti, mettiti comoda e prendi un panino alla lumaca; in realtà sono fatti con senape, formaggio e cetrioli sott’aceto. Abbiamo molto di cui parlare.»
Nouméa li fissò per un lungo istante. Poi si sedette, risoluta, su un fungo e sollevò le pantofole dorate dal tacco a spillo sul tavolo di Elminster, con un gran tonfo. «Ebbene!» chiese, alzando un sopracciglio serio ma divertito. «Non c’era anche un po’ di cordiale?»