12. L’Arpista senz’arpa

La cosa più facile sarebbe stata gettarsi oltre il davanzale di pietra, nel buio e sotto la pioggia. Fuori dalla finestra e giù nel cortile sottostante. Alustriel afferrò lo spigolo di pietra con dita bianche e tremanti. Perché allora non si decideva a farlo!

Orgoglio. Semplice orgoglio… una piccola cosa che s’interponeva fra lei e una fine rapida. Sarebbe stato facile, sì, ma disonorevole, una vergogna sicura come quella che Irlar cercava di gettare su di lei con il suo sorriso beffardo e le sue parole melliflue. Alustriel guardò di nuovo in basso. La notte nascondeva le pietre che aveva fissato per ore; sarebbe stato semplice ora, nel buio, da sola. Il mattino seguente avrebbero trovato il suo corpo sulle rocce. «Già, si è buttata», avrebbe esclamato lo zio, poi avrebbe sputato di lato, scosso il capo e si sarebbe voltato, ordinando ai servi di avvolgere il corpo e di bruciarlo.

Non lascerò che pensi questo di me, mormorò fra sé Alustriel.

La ragazza voltò le spalle all’oscurità e guardò le stanze che l’attendevano. Irlar si sarebbe fatto vivo presto. Irlar, il giovane signore dalla risata facile, lo scherno stampato negli occhi. Irlar che l’avrebbe presa in moglie, non per amore - anche se, quella notte stessa, l’avrebbe certamente costretta ad accettare le sue profferte amorose - ma per le terre e la ricchezza legate al suo nome. Ricchezze a cui sottomettersi, che non si sarebbe mai goduta, per via dello zio.

Zio Thamator. Gli uomini lo chiamavano il Lupo e, quand’era infuriato, non osavano incrociare il suo sguardo. Tutti lo conoscevano come guerriero temerario, impareggiabile in battaglia, e come uomo duro; tutti sapevano che era un Arpista. Alustriel rabbrividì al ricordo del loro ultimo incontro. Erano insieme nelle sue stanze, dopo una festa, a sorseggiare vino - era il suo primo assaggio di fuoco ambrato, e le riscaldò la gola come salsa piccante - e la ragazza gli aveva chiesto con zelante innocenza quando avrebbe fatto di lei un’Arpista.

Thamator l’aveva fissata con occhi simili a vetro incolore. «Io ho dato mia moglie per gli Arpisti, ragazza. Mia moglie e mio figlio non ancora nato, che è morto con lei. Troppi compagni li hanno seguiti. Ho dato agli Arpisti questo braccio destro, forte, ormai trent’anni fa. Ho dato loro amici, anche grazie alla mia spada, quand’è stato necessario. Tu che cos’hai da offrire loro!»

Aveva pronunciato quelle ultime parole con rabbia pungente, quasi sputando per il disprezzo. Alustriel era rimasta in silenzio, sconvolta, dapprima pallida, poi improvvisamente paonazza. «Tu non sei una guerriera. Sei graziosa, ma la bellezza non è una cosa tanto rara da essere utile agli Arpisti. Tu non credi che ci sia un unico dio giusto e vero sopra tutti gli altri, e quindi non puoi servire come sacerdotessa, per lo meno come una brava sacerdotessa. Sai essere furtiva, ma non hai né forza né velocità, né sei capace di mentire con disinvoltura.»

Il lord di Bluetower aveva iniziato, allora, a misurare la stanza con passi rabbiosi, poi si era voltato per affrontarla di nuovo. «Perciò pagai molto denaro per farti diventare una maga. Il mago Thurduil diceva che avevi talento per il potere. Otto anni! Otto anni di monete estratte da questa borsa, una manciata dopo l’altra, molte peraltro d’oro, e qual è il risultato! Riesci a far starnutire un servo. Uno scherzo che posso fare anch’io con un pizzico di pepe! Senza dubbio Gaerd è riuscito a farti imparare altri trucchi del genere. Lui è un maestro, ma la colpa non è sua.»

Gli occhi di Thamator erano diventati due punte di spada. «E tu vuoi sapere quando ti farò diventare Arpista», aveva esclamato con feroce sarcasmo. La ragazza non era riuscita a distogliere gli occhi da lui mentre questi si sedeva e aggiungeva con terribile dolcezza: «Sparisci per un po’ dalla mia vista. Somigli troppo a tua madre per dirmi idiozie simili». Il volto di Thamator era stato attraversato per un istante da uno spasmo di dolore o di rimpianto. Un’ombra passeggera, che aveva lasciato le sue fattezze intatte e inespressive come la pietra.

Alustriel si era voltata ed era uscita vacillante dalla stanza, asciugandosi invano le lacrime che le scorrevano lungo le guance…

Due giorni prima Irlar era giunto alla testa di una compagnia di giovani sorridenti, vestiti di tutto punto, le spade che rimbalzavano al fianco. Quando aveva chiesto la mano di Alustriel, lo zio non si era nemmeno curato di parlarle e le aveva inviato un servo con un semplice messaggio: «Dammi retta.» Nient’altro, e ciò davanti all’intera casa. Le arrossivano ancora le guance al ricordo.

Irlar! Lo stesso signorotto che un tempo le aveva sputato addosso a una festa di Shieldmeet e aveva sibilato: «Allontanati da me, sudicia donna! Sangue di strega! Arpista!». Alustriel non l’aveva mai dimenticato. E, dalle domande pungenti e indirette che le aveva rivolto negli ultimi due banchetti, era chiaro che nemmeno lui l’aveva fatto.

Se avesse potuto indossare la spilla della mezza luna e dell’arpa, il simbolo che secondo suo zio non meritava, Alustriel era certa che Lord Irlar sarebbe fuggito come di fronte a un fantasma. Oppure, se fosse stata capace di sferrare incantesimi abbastanza forti da scacciarlo quando si fosse avvicinato, la sua paura avrebbe sopito la sua brama. Ma lei era una preda debole e indifesa, e Irlar lo sapeva.

Irlar l’aveva punzecchiata quella sera, sussurrandole, tra un bicchiere di vino e una canzone del menestrello, che sarebbe passato da lei più tardi, quando la casa si fosse addormentata, per assaggiare ciò che avrebbe posseduto quando si sarebbero sposati. Aveva aggiunto che se avesse avuto qualcosa in contrario, si sarebbe potuta proteggere con la sua magia. In quel momento Alustriel avrebbe voluto gridargli tutta la rabbia e la frustrazione che provava. Come un animale nella gabbia di un cacciatore, la ragazza si era sentita imprigionata, in trappola! Poteva contare solo su piccole vittorie. Così non aveva risposto alle provocazioni e gli aveva sorriso con tutta la calma che era riuscita a ostentare, sperando di sconcertarlo. Dopo un attimo l’uomo si era messo a ridere, una risata breve e crudele, e se n’era andato sprezzante.

Tutta la sua magia, sì. Alustriel abbassò lo sguardo sulle sue dita lunghe e spoglie, bianche come latte nella penombra. Dalla finestra entrava solo il debole bagliore delle torce, proveniente dalle stanze adiacenti alla sua. Lei riusciva a far starnutire le persone; Irlar si era preso gioco di lei, ma Alustriel si era rifiutata di dimostrarglielo. Era anche in grado di produrre suoni dal nulla, ma solo in modo molto limitato: riusciva infatti a imitare una singola corda di arpa, pizzicata nota per nota, e a controllare il tono e l’intensità del suono, a seconda di come se lo immaginava nella mente. Era anche capace di far sembrare che il suono si avvicinasse pian piano, da una distanza approssimativa di cento passi. Dato che non era ancora un’Arpista, Gaerd le aveva suggerito di tenere segreta tale abilità fino a quando non fosse stata capace di abbinarla con un altro incantesimo.

Solo dieci giorni prima, sotto la gentile tutela del maestro mago, Alustriel era riuscita a far balzare una grossa scintilla blu da una delle sue dita fino a una moneta di metallo appoggiata su un tavolo distante. Aveva sentito solo un lieve formicolio, nessun dolore, ma riusciva a far apparire la scintilla solo quand’era eccitata, spaventata o sconvolta. Tale magia la lasciava sempre tremante e madida di sudore. Grande magia, come no.

Tuttavia era quanto di meglio aveva. Alustriel voltò le spalle all’oscurità e s’incamminò nella piccola stanza in cui teneva gli ingredienti per gli incantesimi, sostanze innocue per piccole magie. Un istinto improvviso la indusse ad afferrare una fiala contenente limatura di ferro, che poi infilò nella tasca nascosta delle sue gonne. Forse con quella avrebbe potuto accecare Irlar. Lasciò invece dove si trovava il minuscolo pugnale incastonato di pietre, che sapeva essere appoggiato sul tavolo accanto alle boccette. L’uomo avrebbe potuto prenderlo e sfregiarla, oppure gettarlo via con una risata.

All’esterno dell’altra stanza si udì un improvviso stridore. Irlar era venuto a reclamarla.

Egli era un servitore di Bane. Aveva un piccolo marchio sotto un anello, che rigirava spesso sul dito, e aveva intenzione di portarla al tempio quella notte, per costringerla a rinnegare Mystra a favore di Bane e annientare per sempre qualsiasi magia la ragazza possedesse. Senza dubbio, si sarebbe anche approfittato di lei sull’altare nero, per consacrare qualsiasi bambino lei avrebbe concepito al dio delle tenebre…

Un brivido improvviso la scosse tanto da farle battere i denti. Alustriel si morse le labbra, cercò di placare il tremore delle sue gambe e si costrinse a raggiungere, calma e silenziosa, la stanza principale, per andare incontro al suo destino. Suo zio non sarebbe mai stato fiero di lei, ma non gli avrebbe permesso di trattarla come una poco di buono, una nullità. La ragazza udì un lieve sibilo e capì che una lama invisibile aveva tagliato la corda del campanello, in modo che non potesse chiamare aiuto o svegliare la casa.

Cercò di assumere un’espressione dignitosa e guardò la porta. Poi tolse deliberatamente il cappuccio dalla minuscola lampada a olio davanti a lei sul davanzale di pietra, che faceva anche da tavolo. La luce improvvisa lo colse mentre richiudeva la porta dall’interno con il debole chiavistello di filigrana d’ottone. La sua espressione allarmata e sorpresa si trasformò in un sorriso quando vide che Alustriel era sola.

«Buonasera», esclamò con gentile sarcasmo, «mia Alustriel». La guardò bramoso, in attesa di una reazione e di assaporare la sua paura.

La ragazza fu pervasa da un’ondata di panico e di nausea, ma lo guardò con espressione calma. Tuttavia, non osò parlare, per timore che la lingua o la voce esitante la tradissero. Irlar sogghignò per la sua indecisione e avanzò.

«Suvvia», chiese l’uomo, «la mia proposta di matrimonio è tanto odiosa? O una questione tanto irrilevante da non destare in voi il minimo entusiasmo!» A quelle parole Alustriel sorrise, per quanto dentro di sé si sentisse prossima alle lacrime. Doveva essere un sorriso felino e malizioso, ma tremolò e l’uomo, per nulla sospettoso, ricambiò con un ghigno. Perché mai esserlo?

Lei era indifesa, ed entrambi lo sapevano. Lentamente, Alustriel coprì la lampada, facendo ripiombare la stanza nell’oscurità mentre cercava di riprendere il controllo. Ancora una volta.

«Benvenuto, mio signore», mormorò, trovando la voce per pronunciare almeno quelle frasi cortesi, ricordo della sua educazione infantile.

«Speravo proprio d’esserlo», rispose Irlar, trionfante. Con un passo felino la raggiunse e l’abbracciò, baciandola avidamente. Le sue labbra erano quelle di un prode conquistatore.

Alustriel indietreggiò d’un passo, ma l’uomo avanzò, premendo il corpo contro il suo. La ragazza fu colta da una rabbia crescente, che le fece accelerare il battito cardiaco; Irlar lo scambiò per eccitazione e le sue mani cominciarono a muoversi. Con audacia iniziò a toccarle i fianchi e il seno, spingendola indietro.

Alustriel retrocedette verso il letto a baldacchino. Una determinazione furiosa le fece tremare il respiro, il che alimentò l’ardore del giovane. Questi la gettò sulle pellicce che ricoprivano il letto e la fece sprofondare in esse. Gli occhi chiusi, le labbra incollate alle sue, Alustriel si concentrò con cura infinita sull’incantesimo dell’arpa. Doveva suonare in maniera appropriata.

Ecco fatto. All’udire il suono Irlar s’irrigidì. Il suono era lontano e smorzato, come provenisse da un’altra stanza, ma pian piano divenne più forte. Alustriel trattenne Irlar contro di sé con false carezze, e si concentrò con tutta la sua volontà. L’arpista invisibile si stava avvicinando. Irlar staccò le labbra dalle sue e le afferrò un braccio con forza bruta. «Che cosa, chi è» sibilò, scuotendola.

«Mio zio», sussurrò la ragazza fingendosi allarmata. «Nel passaggio segreto! Sta venendo qui; suona in quel modo solo quando viene a parlare con me!»

Con un’imprecazione Irlar scese dal letto e sguainò il pugnale. Alustriel colse l’occasione, il cuore martellante nel petto. Tra le gonne, le sue dita trovarono la bottiglietta e la stapparono.

Irlar voltò il capo e sibilò aspro: «Dove?», per sapere l’ubicazione del fantomatico passaggio segreto.

Fu allora che la ragazza gli gettò il contenuto della bottiglietta in faccia. Allungò un dito verso i suoi occhi, si concentrò con quell’impeto particolare che sentiva sempre, ed ecco uno schiocco. Una scintilla blu esplose negli occhi di Irlar, crepitando per un momento fra la limatura di ferro.

L’uomo ringhiò, portandosi le mani agli occhi.

Alustriel sentì il pugnale vibrare intorno a lei, mancandola nell’oscurità mentre arretrava, rotolandosi lungo il bordo del letto. Come sempre, quell’incantesimo l’aveva lasciata debole e tremante. Scese dal letto e fuggì, vacillante, attraverso la stanza buia, ostacolata dalle gonne, cercando di tenersi lontana dalla lama affilata.

Tra un’imprecazione e l’altra Irlar la seguì. Agitava il pugnale selvaggiamente, ancora accecato, ma si stava dirigendo verso la porta del corridoio. La ragazza non avrebbe avuto tempo di aprire il chiavistello e di uscire dalla stanza, perciò girò rapidamente attorno al tavolo degli ospiti, invisibile nell’oscurità, concentrandosi sul suono dell’arpa, per farlo sembrare sempre più forte e più vicino.

Irlar la seguì. Dal tono con cui imprecava, ora sembrava più spaventato che infuriato. Alustriel mormorò una preghiera rivolta a Tyche, ma improvvisamente urtò un tavolino, incespicò e vi si aggrappò con entrambe le mani. Disperatamente, lo sollevò, rovesciando sul pavimento la caraffa d’acqua e menta e due bicchieri a forma di cornucopia, e lo tenne alzato a mo’ di scudo.

Irlar corse verso il rumore, menando fendenti a destra e a manca. Scivolò su una cornucopia e allargò le braccia per mantenere l’equilibrio.

Alustriel fece un passo in avanti e, come aveva visto fare agli uomini armati d’ascia al servizio dello zio, portò tutto il peso in avanti e scagliò il tavolino con tutte le sue forze sulla mano che stringeva il pugnale.

Irlar urlò sull’eco del fracasso assordante. Il pugnale rimbalzò rumorosamente sulla caraffa di vetro, da qualche parte, sul pavimento.

L’uomo si allungò verso di lei, afferrando il tavolino con la mano sana. La ragazza cercò di non mollare la presa, ma lui lo strattonò impaziente, glielo strappò dalle mani e lo gettò lontano. Il mobile si fracassò contro una parete lontana.

Alustriel fuggì ancora, questa volta disperata.

«Puttana!» sibilò Irlar selvaggiamente. «Ti ucciderò per questo!»

La ragazza sapeva che era sincero. L’idea del rapimento a dorso di cavallo e della visita al tempio di Bane era ormai stata dimenticata. Ora nulla l’avrebbe soddisfatto, se non il suo sangue. L’uomo urtò un altro tavolo, rovesciando statuette e vasi, ma non lo fece cadere e vi si aggrappò per riacquistare l’equilibrio. Alustriel udì un vaso rotolare sopra di esso, con lentezza quasi indolente, prima che raggiungesse il bordo e cadesse sul pavimento.

Poi si mise a tirare il chiavistello della porta con tutte le sue forze. Questo scricchiolò e, udendo il rumore, Irlar grugnì. L’istinto suggerì alla ragazza di abbassarsi e, un istante più tardi, una bottiglia di profumo s’infranse contro il muro poco sopra la sua testa, coprendola di vetri e di una nebbiolina bruciante. Poi ne arrivò un’altra e un’altra ancora. Incespicando nell’abito, Alustriel fuggì di lato in cerca di un’arma, o di un rifugio contro quella furia omicida, sapendo che non avrebbe trovato né l’una né l’altro.

Un sibilo nell’oscurità le indicò con fredda certezza che l’uomo aveva trovato il suo frustino da cavaliere.

Doveva assolutamente liberarsi di quelle gonne! Con dita tremanti, si slacciò gli abiti e tirò, acquattandosi e mordendosi le labbra. Irlar ansimava e, furioso, sferzava l’aria con la frusta, a caccia della sua futura moglie.

Si stava avvicinando, sempre di più. Alustriel riuscì finalmente a sfilarsi le gonne. Lui la udì e caricò con un ruggito d’esultanza. La ragazza si contorse sul pavimento e sollevò i vestiti con entrambe le mani, a mo’ di scudo. La frustata li lacerò con un rumore netto, e la ragazza sentì un improvviso bruciore su un braccio.

La frusta si riabbassò, ancora e ancora, in una pioggia di colpi, troppo selvaggi e rabbiosi per essere precisi. Alustriel si rotolò e gattonò sui tappeti sin troppo ornati, ma non poté sfuggirgli. Quando riuscì a mettere la superficie del tavolo fra lei e la frusta, Irlar le sferrò calci violenti in faccia e in pieno petto, finché la ragazza non uscì da sotto il tavolo, poi continuò a frustarla, grugnendo di fatica a ogni sferzata.

Alustriel singhiozzò mentre si dirigeva di nuovo verso il tavolo. Questa volta la frusta la mancò. Lei si accucciò immobile nel buio, chiamò a raccolta la sua volontà e si concentrò.

Nell’oscurità sopra di lei, Irlar starnutì e la ragazza emise un gridolino di trionfo. Di nuovo sentì l’impeto, e di nuovo l’uomo starnutì, lasciando ondeggiare la frusta, incontrollata. Alustriel allora uscì rapida da sotto il tavolo, se lo caricò sulle spalle e glielo lanciò addosso. Irlar barcollò all’indietro, incespicò nei mobili e cadde a terra, perdendo la frusta. La ragazza si allontanò e, mentre l’uomo agitava gambe e braccia sul pavimento, si diresse alla porta, la sua unica possibilità di salvezza.

Tirò il chiavistello con rinnovata speranza… ma nella fretta l’ottone s’incastrò e divenne impossibile da smuovere. Voltando la testa, Alustriel vide la sagoma di Irlar stagliata contro il debole bagliore proveniente dalla finestra, che si appoggiava al tavolo di pietra e raggiungeva il cappuccio della minuscola lampada a olio. Non poteva permettergli di sollevarlo, altrimenti sarebbe stata spacciata! Con la luce l’avrebbe trovata subito…

L’uomo aveva probabilmente recuperato la vista. Quando la sua mano si posò sulla lampada, Alustriel si avventò su di lui col cuore martellante e lo spinse non appena lui la scorse alla luce della lampada. Irlar la colpì sulla fronte con il cappuccio. La ragazza vacillò, ma le sue mani erano già sul metallo bollente, sollevarono la lampada e la gettarono dalla finestra, incuranti dell’olio versato, al che la stanza ripiombò fortunatamente nell’oscurità.

Alustriel era troppo vicina alla finestra. Lui poteva vedere il suo profilo nella debole luce delle torce. La allontanò in modo da poterle assestare un colpo con la mano sana: un pugno violento che la fece barcollare. La giovane sentì una fitta agli occhi e la mente improvvisamente offuscata. Forse le aveva fracassato la mandibola… dei, che male! Irlar si gettò su di lei, le braccia tese per strangolarla.

Ma Alustriel gli sfuggì… sarebbe riuscita a evitarlo per sempre! Con risolutezza improvvisa la ragazza si voltò e smise di scappare; anzi, si abbassò all’altezza della sua vita, gli affondò la testa nel ventre con tutte le sue forze e caricò in avanti.

Irlar, dolorante, vacillò. Alustriel continuò a spingerlo, indietro e indietro fino alla finestra. Quando la sua schiena urtò il davanzale, l’uomo si mise a scalciare violentemente. Perse l’equilibrio. La ragazza gli sferrò pugni all’inguine, gli afferrò un piede, glielo torse, lo spinse… e d’un tratto si ritrovò sola nella stanza.

Nel cortile sottostante si udì un tonfo ripugnante. Lord Irlar si era schiantato sulle rocce ed era rimbalzato, una volta. Un momento più tardi Alustriel udì l’urlo improvviso di una guardia e numerose torce iniziarono a muoversi tremolanti.

La ragazza si sporse un momento dalla finestra per riprendere fiato, li guardò, poi si voltò e raggiunse decisa la porta. La melodia dell’arpa cominciò sotto forma di poche note allegre, in un continuo crescendo attorno a lei. Alustriel avanzò, incurante del suo aspetto, nel corridoio lungo e scuro, attraverso pesanti portoni e, svoltato un angolo, si fermò di fronte a quello dello zio. Non appena si avvicinò questa si aprì.

Thamator uscì nell’oscurità, la spada sguainata.

«Chi va là!» ringhiò, battendo le palpebre nel buio. La musica dell’arpa turbinò attorno a lui.

«Voglio ancora diventare un’Arpista», affermò Alustriel, sorpresa dalla tranquillità della sua voce.

«Tu, ragazza? Mi devi svegliare a quest’ora di notte con i tuoi giochetti! Non hai nient’altro da fare?» le chiese lo zio, confuso. Dal tono della voce Alustriel capì che la musica gli ricordava una persona del passato. La spada che brandiva iniziò a emettere un pallido bagliore. Nella luce crescente la ragazza vide l’espressione sorpresa dello zio.

L’uomo stava fissando il suo corpo semi nudo e imbrattato di sangue, cercando di capire come si fosse procurata quelle frustate che s’intersecavano sulla sua pelle. Fece un passo in avanti e la osservò, incredulo. «In nome di tutti gli dei, che cosa ti è suc…»

Improvvisamente si udì uno scalpiccio frettoloso di stivali e una torcia oscillante comparve da dietro l’angolo, la luce scintillante su elmi, punte di lance e su volti ansiosi. «Mio signore!» esclamò una delle guardie, la voce stridula per la tensione. «Lord Irlar! È morto! Nel cortile, forse è caduto da una finestra!»

«Sì», affermò Alustriel nel silenzio attonito, «è caduto». E, ignorando gli sguardi sbigottiti degli uomini che l’attorniavano, aggiunse: «Dopo che è stato spinto!».

Guardando lo zio fisso negli occhi, continuò: «Ero poco incline a diventare una sposa di Bane, ancor meno prima della mia notte di nozze».

La ragazza voltò loro le spalle e con ritrovata dignità si allontanò. Le imprecazioni sbalordite dello zio si persero dietro di lei mentre tornava alla sua stanza. La sua voce suonava, pensò Alustriel, stupita e lievemente compiaciuta.

E ora da Gaerd, per chiedergli come diventare Arpista. La ragazza si guardò, scrollò le spalle per lo stato in cui era ridotta, e s’incamminò con le gambe graffiate e doloranti lungo un altro corridoio. Perché non andarci subito? Perché suo zio sarebbe dovuto restare l’unico a essere buttato giù dal letto quella notte?

Quando bussò alla porta del mago, questa si aprì, e le apparve il viso sorridente di Gaerd… un po’ assonnato, ma pur sempre allegro.

In mano aveva una sfera di cristallo, nella quale vide, non senza sorpresa, la finestra aperta della sua stanza vista dall’interno, catturata nel cristallo come una minuscola scena. Il mago le fece cenno di sedersi, sorridendole con aria fiera. Sul tavolo davanti a lei, una spilla d’argento a forma d’arpa stava suonando dolcemente, da sola. Con un sorriso, Alustriel riconobbe la sua melodia.

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