5. A me i Maghi

«Se vuole seguirmi, Signor Mago», mormorò la ragazza, voltandosi in un vortice di seta bianca e dorata a indicare una scala laterale, il cui tappeto era più spesso e meno consumato di quello dei corridoi polverosi che aveva appena percorso, «da questa parte…»

Il vacillante Mago della Guerra raddrizzò la schiena, solitamente curva, e inclinò la testa con un’espressione che voleva essere cortese e che in realtà risultò lasciva. Con un ampio gesto della mano invitò la ragazza a precederlo.

La serva mantenne un’espressione serena, sollevò graziosamente la tunica e si avviò su per le scale. Il vecchio mago ossuto rimase a guardare. Era l’ultima apprendista di Vangy, giusto! E una Crownsilver…

VEDO MAGHI, MA NON ELMINSTER NÉ IL FUOCO ARGENTEO. MI STAI NASCONDENDO ALTRE COSE.

TI AVVERTO DI NUOVO, UMANO, LA MIA PAZIENZA NON È INFINITA.

Io arrivo tra poco, Lord Nergal… con i segreti della magia.

[sguardo beffardo] PARLI COME UN MERCANTE CHE CERCA DI CONCLUDERE UN AFFARE. È MEGLIO CHE TI AFFRETTI A COMPIACERMI, VERME.

Mi sforzo di soddisfarti. Sempre.

E IO MI TRATTENGO DAL PORRE FINE ALLA TUA MISERABILE VITA. SEMPRE.

Una Crownsilver, giusto? Hmmph. Come se ciò gli importasse. Tuttavia, erano passati molti anni da quando una fanciulla tanto bella era salita con tanto zelo su per le scale di palazzo davanti a quel vecchio Mago della Guerra. Era una ragazza diversa, allora, in una torre diversa, ed era ormai scomparsa.

Bolifar Geldert scacciò risoluto il ricordo e non lasciò che alcuno dei servi frettolosi e silenziosi che gli passarono accanto udisse il suo sospiro. Bolifar era diligente, accorto e un gran lavoratore, più di qualsiasi altro vecchio mago della guerra di Cormyr. Per tale motivo era rispettato e rivestiva un ruolo importante in quel luogo.

Si era crogiolato a sufficienza nelle glorie passate. I ricordi non riscaldano, né recano vantaggi, come il peso rassicurante del pugnale preferito nella propria mano o il grande potere di un incantesimo evocato. Ora toccava a lui salire quella stretta scala.

In cima, semi aperto, vi era un cancello arcuato di ferro pesante. Le sue sbarre erano forti quanto i suoi avambracci, ed erano costellate di punte smussate. Sembrava fosse stato creato molto tempo addietro, per impedire il passaggio dei draghi.

Nel corridoio retrostante lo attendeva la giovane serva. La fanciulla tentò di non apparire nervosa mentre si allontanava da due pantere irrequiete, che tiravano al massimo la catena che le legava. Le belve si sporsero in avanti, leccandosi le labbra e fissandola.

L’altra estremità delle catene era avvolta intorno alle mani forti e irsute di un uomo sorridente. Occhi scuri, pizzetto, un’aria crudele, il Padrone delle Bestie del Re sembrava tanto pericoloso quanto i due grossi felini che stava portando a passeggio.

Bolifar annuì lentamente, deliberatamente, e in tutta risposta vide l’uomo sollevare un sopracciglio. Non era un oltraggio inatteso, ma di certo qualcosa di cui Vangerdahast sarebbe stato informato. Non era bene che gli addestratori di bestie si considerassero più importanti dei Maghi della Guerra.

Le scale attraversavano la sala dove le pantere si erano accovacciate e battevano la coda. I felini fissarono il vecchio mago ossuto con sguardo meno avido di quello che avevano rivolto alla sua formosa guida. La fanciulla salì la rampa successiva, il sollievo scritto a chiare lettere sulla curva splendida della sua schiena. Bolifar Geldert la seguì, stringendo la sacca col materiale per la scrittura un po’ più forte del solito. Badò a non affrettarsi, anche quando udì uno sferragliare improvviso, indicativo del fatto che il domatore aveva sciolto le belve. La prima pantera che avesse osato affondare gli artigli o i denti in quel Mago della Guerra sarebbe stata anche l’ultima.

Nel corridoio successivo non c’erano bestie, ma servitori solleciti e silenziosi e un paio di guardie che lo salutarono rigidamente. Dei del cielo, non aveva forse chiesto una stanza con una porta che si potesse chiudere, in un luogo lontano dai «corridoi superiori, poco usati e fuori mano»?

In cima alla rampa di scale successiva non vi era nulla eccetto una porta chiusa. Il metallo emise un rumore secco quando la fanciulla girò la chiave nella toppa. Col suo tocco illuminò la pietra che rivestiva la porta di una luce cremisi. Nella luce rossastra la serva si voltò e mise una chiave, ancora calda dopo essere stata tenuta nel corpino, nella mano di Bolifar. Senza proferire parola oltrepassò il mago e scomparve giù per le scale.

Questi la osservò allontanarsi, pensieroso. Poi si voltò senza fretta e aprì la porta, entrando nella fitta oscurità. Forse quella stanza in cima alla torre non gli era molto familiare, ma era ben difesa da incantesimi e isolata… proprio il luogo di cui aveva bisogno per scrivere il suo rapporto.

Vangerdahast aveva atteso abbastanza, più di quanto la sua pazienza fosse disposta a tollerare. Ciò che il Maestro Mago Geldert aveva appreso sui possibili traditori della corona nella nobile famiglia minore dei Cordallar doveva esser messo per iscritto quanto prima; il Vecchio Hammerspells stava, senza dubbio, già misurando le sue stanze, accigliato come una tempesta di Immersea.

Bolifar sorrise mesto alla calda oscurità che lo attendeva. Presto Vangy avrebbe perso la pazienza. Il vecchio Mago della Guerra si trovava lassù, in cima ai numerosi scalini, invece che nel suo solito studio nella Corte Reale, poiché nutriva sospetti sul coinvolgimento di un collega, Mago della Guerra, nel complotto organizzato da Casa Cordallar.

HUH. BANALI INTRIGHI A CONFRONTO CON QUELLI DELL’INFERNO, MA SENTO CHE LA MAGIA È PROSSIMA… SI STA AVVICINANDO. ORA NON DIVAGARE!

No. Ma devi seguire la sequenza di ricordi…

Vangerdahast sbadigliò ancora una volta. Cautamente si allungò verso la candela più vicina e spense la fiammella fra l’indice e il pollice.

Il dolore lo risvegliò del tutto. Lasciando che il fumo si levasse indisturbato, indietreggiò e diede un’occhiata alla stanza. La figura alta e snella era scomposta e immobile: Sardyl, seduta pazientemente sulla sua solita sedia, si era infatti assopita.

Era tardi. Il tempo era trascorso veloce… troppo tempo. Di certo le cameriere spettegolavano già da un po’ sul fatto che il messaggero personale, e scrivano, del Mago Reale fosse rinchiusa con lui nella stanza da tanto, e a quell’ora. Come se Lady Sardyl Crownsilver non si fidasse di Vangerdahast.

«Sveglia, fanciulla», esclamò, accarezzandole la guancia con un dito, con maggiore delicatezza di quanta le cameriere non avrebbero attribuito al Vecchio Hammerspells.

Sardyl batté le palpebre e lo fissò con sguardo interrogativo.

Vangerdahast annuì impaziente, arrabbiato per la lentezza di Geldert. «Sì, va’ a prenderlo», grugnì e ricominciò a misurare la stanza a grandi passi, non vedendo più le scrivanie disseminate di tomi e di pergamene, ma solo un letto accogliente e una notte di sonno di cui aveva tanto bisogno. «Non dargli altro tempo. Mi accontenterò di ciò che ha scritto finora», aggiunse, soffocando uno sbadiglio dopo l’altro.

Senza una parola la scrivana si alzò, si stirò come un gatto e si avviò verso la torretta dove qualche tempo prima aveva condotto il Maestro Mago Geldert. Vangy si voltò accanto alla scrivania e la guardò uscire. Lady Sardyl Crownsilver non aveva ancora imparato abbastanza incantesimi da riuscire a sopraffare un’abile guardia, ma era molto più silenziosa e discreta di una decina dei suoi più vecchi colleghi Maghi della Guerra, e anche più affidabile.

Mmm. La fiducia. Un bene raro a Cormyr.

HO, HO! LUSSURIA IN VISTA, O MI SBAGLIO?

[sopracciglio sollevato a livello mentale] Demone, mi fai apparire come un puritano… e quella, temo, è una qualità.

La porta in cima alle scale era ancora chiusa dalla magia. Sardyl inarcò un sopracciglio con grazia e sollevò ancora la mano, con la quale percepì il debole formicolio che le confermò di non essersi sbagliata.

«Bolifar», chiamò a bassa voce, sapendo che la stanza della torre era piuttosto piccola.

Nessuna risposta. Sardyl si accigliò, lanciò una rapida occhiata alle scale, per assicurarsi che nessuna guardia la stesse osservando, e tracciò un cerchio veloce con la mano, mentre mormorava le parole di un incantesimo che pochi, anche tra i Maghi della Guerra, conoscevano.

La serratura scattò con un piccolo bagliore, al che la fanciulla girò la maniglia ed entrò.

La lampada era accesa e la sua luce tenue e calda illuminava il tappeto, la sedia, il tavolo e una carta geografica appesa a una parete. Tutta la mobilia, e la stessa lampada, erano al solito posto, ma nella stanza non c’era traccia di Bolifar Geldert, delle sue penne, dell’inchiostro, delle pergamene, della carta assorbente e della sacca.

Non esistevano angoli dietro ai quali nascondersi. Sardyl guardò in alto, trovò il soffitto spoglio come doveva essere, poi esaminò la stanza. Si voltò lentamente, guardandosi attorno, allungando le mani nel vuoto. Le finestre erano chiuse, le persiane solide serrate dall’interno, e non vi erano segni strani nella stanza della torre. Ma neppure segni di Bolifar Geldert.

Lady Crownsilver strinse le labbra e arretrò rapida verso la soglia. Lì operò un incantesimo rivelatore di eventuali magie presenti nella stanza, ma scoprì solo ciò che da sempre vi si trovava: i numerosi sortilegi antichi contenuti nella mappa. Incantesimi protettori, elaborati molto tempo prima che lei nascesse, forse precedenti anche alla nascita di sua nonna.

Eppure lì in piedi, non si sentiva sola.

Gli occhi scuri spalancati, Sardyl fece numerosi passi indietro e mormorò un altro incantesimo, per scoprire la presenza di creature invisibili. Quando non ne trovò, il suo volto si fece pallido e truce. Richiuse la porta e bloccò nuovamente la serratura con la magia ma, con un movimento aggiuntivo del dito, rese la sua chiusura diversa da quella di un altro mago, poi andò a cercare Vangerdahast.

AH, UN PIZZICO DI MISTERO! VA’ AVANTI!

Naturalmente.

«Se ciò che afferma Lady Crownsilver è vero», esclamò il saggio, una punta di severità nella voce mentre, sfregandosi gli occhi con le nocche, scacciava le ultime tracce di sonnolenza, «ho fatto centinaia di gradini per non vedere niente». Fece nervosamente due passi lungo il corridoio, poi si voltò a guardare l’ultima rampa di scale. In cima, il potente mago di Cormyr, torvo davanti a una porta chiusa.

Il saggio sbottò: «Non c’è traccia di lui? Intendo dire, non potrebbe essere semplicemente andato da qualche parte? Solo in quest’ala vi sono migliaia di stan…»

Il Mago Reale si voltò e lo guardò con espressione calma. «Alaphondar», esclamò freddo, «conosciamo bene il nostro lavoro. Non ti avrei chiamato per testimoniare senza aver prima provato a rintracciarlo. I miei incantesimi lo scoverebbero, se fosse vivo e da qualche parte su Faerûn, a meno che non sia protetto magicamente». Poi si rivolse alla terza persona presente. «Quello è il tuo sigillo, ragazza?»

«Sì, mio signore», rispose Sardyl a bassa voce, le dita sospese sulla maniglia della porta. «Devo spezzarlo!»

Vangerdahast corrugò la fronte. «No, lascia fare a me.» Fece un piccolo gesto con la mano a significare, come tutti nel palazzo ormai sapevano, «state indietro», e mormorò un incantesimo che né il saggio né la scrivana avevano mai visto prima. Si udì la magia tuonare dall’altro lato della porta, un’eco debole e sibilante, come se avesse colpito le pareti e tornasse indietro tremolante, e poi silenzio.

Sardyl e Alaphondar guardarono entrambi il Mago Reale. Vangerdahast rimase con il capo piegato da una parte, intento ad ascoltare il silenzio. Dopo un lungo istante, avanzò e aprì la porta.

La stanza della torre era come Sardyl l’aveva lasciata.

Alaphondar si accigliò. «Chi ha acceso la lampada!»

«Bolifar, suppongo», rispose Sardyl. Il saggio guardò Vangerdahast come se si aspettasse una risposta diversa, ma il mago non proferì parola e si affrettò verso le persiane.

Sollevò per un istante la mano sopra di esse, poi azionò il saliscendi della serratura e le aprì. Il legno, fermo da tempo, scricchiolò e s’inceppò per un istante. La polvere del davanzale investì il mago in faccia, e questi starnutì come un toro che muggisce sotto un temporale. Il saggio e la fanciulla raggiunsero il Maestro dei Maghi della Guerra vicino alla finestra. Sotto di loro, dopo un salto di una trentina di metri, si estendeva il cortile di ciottoli; alcune guardie sorprese sollevarono la testa alla luce della lanterna per guardare chi si fosse affacciato.

Vangerdahast lasciò che le sentinelle scrutassero bene il suo viso, gli occhi lacrimanti e tutto il resto, ma non disse nulla. Nessuno apriva quelle persiane da tempo. Qualsiasi cosa fosse entrata o uscita attraverso di esse sarebbe stata avvistata. Il mago annuì irritato. Non si era aspettato di scorgere sangue di sotto né alcunché d’interessante penzolare dal tetto della torretta, e le sue aspettative non andarono deluse.

Il robusto Mago Reale si ritirò all’interno della stanza e si voltò, ondeggiando lievemente come un carro stracarico trainato in una curva stretta. «Non c’è niente», chiese brusco a Sardyl, «di diverso nella stanza rispetto a prima! Nulla… un dettaglio, un’impressione».

L’armonioso corpo dell’apprendista si voltò con molta più grazia del corpulento mago. Poi arricciò il naso e le sopracciglia, come faceva sempre quando si concentrava. «Il tappeto… sembra diverso, in qualche modo… più consumato.» La ragazza scrollò le spalle e aggiunse: «Ma com’è possibile?».

Nessuno dei due uomini rispose. Vangerdahast si stava già chinando, sospettoso, sopra il tappeto; lo sollevò e osservò le pietre solide del pavimento sottostante. Alaphondar s’inginocchiò e, quasi con rabbia, batté la mano sul pavimento fino ad allora coperto, in cerca di una giuntura o di un meccanismo scorrevole.

Dopo qualche tentativo inutile il saggio sospirò, si rialzò e guardò Vangerdahast. «Ebbene, O mastro tessitore!»

Il Mago reale non si curò di sorridere a quella sciocca battuta. «Come disse un tempo un principe Obarskyr di un dono molto più grandioso di questo», affermò con aria truce, «è solo un tappeto. Devono essercene almeno quaranta uguali nel palazzo. Tessuti a Wheloon ottant’anni fa. Comprati all’ingrosso nel 1306, quando fu costruita la Torre del Leone e fu spostata tutta la mobilia. Fu un periodo caotico».

Sentendosi addosso lo sguardo dei compagni, Vangy lanciò loro un’occhiata e aggiunse: «Sì, io c’ero nel 1306. In quell’anno il tempo fu mite, e anche nei cinque precedenti, se ben ricordo. Vi sarei grato se indirizzaste altrove la vostra incredulità, e se mi risparmiaste ogni commento sul rimbambimento dei maghi».

Sardyl sospirò. «Passaggi segreti!»

Il suo maestro la guardò con aria stanca. «Hai letto troppi libri fantastici, mia cara.» Alaphondar, che stava per domandargli la stessa cosa, chiuse la bocca con uno schiocco rumoroso.

Il Mago Reale lanciò al saggio un’occhiata raggelante e indicò l’intera stanza con un gesto della mano. «Guardate voi stessi: le pietre sono solide, non c’è nulla per sollevarle o abbassarle, né sul pavimento, né sul soffitto, e nelle pareti non c’è posto per porte o passaggi segreti. La curvatura che vedete è dovuta al fatto che i muri interni seguono l’andamento di quelli esterni.» Con una mano si toccò una tasca della cintura, esitò con visibile riluttanza e poi la infilò all’interno.

Quando la estrasse, le sue dita stringevano una piccola sfera di vetro, su cui il mago mormorò una parola. Una luce improvvisa balenò e si mosse nelle sue profondità.

«Magia di riserva!» chiese Alaphondar, allungando il collo per guardare meglio.

Vangerdahast annuì. «Questa contiene un solo incantesimo… che funziona solo una volta in un luogo particolare. Una volta pronunciatolo, in questa stanza non si manifesterà mai più un’altra magia dello stesso genere.»

«E si tratta di un…?»

Il Mago Reale lasciò che la domanda del saggio rimanesse in sospeso e si recò alla finestra, chiuse le persiane e si voltò. «Tra un attimo», annunciò, «dovremmo vedere un’immagine, una persona. Identificatela, se potete… e fissate i suoi lineamenti nella mente, se non la conoscete». Vangerdahast percepì la domanda di Sardyl senza bisogno di incrociarne lo sguardo, e aggiunse: «La mia magia cercherà il ritratto dell’ultima persona che ha usato un incantesimo di teletrasporto per entrare o uscire da questa stanza».

Mentre parlava, la sfera s’illuminò di una vivida fiamma dorata e andò in frantumi; le schegge di vetro caddero tintinnanti fra le sue dita.

Un istante più tardi l’aria al centro del locale scintillò, sembrò fluire per un momento, e farsi nebbiosa. Fili di fumo grigio si avvolsero a spirale, si allungarono e divennero all’improvviso una figura netta e distinta. I tre si ritrovarono a guardare una donna, o piuttosto l’immagine languida e tremolante di un busto femminile, il resto del corpo celato dalla foschia. La donna aveva un’aria determinata, addirittura bramosa, mentre sollevava le braccia nude e sottili e agitava le dita nell’incantesimo più aggraziato che Sardyl avesse mai visto. D’un tratto l’immagine scomparve, lasciando due granelli di luce brillante che si affievolirono a poco a poco.

Alla fanciulla occorse un lungo istante per rendersi conto che la donna non indossava nulla eccetto anelli e una collana. E ne trascorse un altro prima che si udisse Vangerdahast deglutire in maniera vistosa, come solo di rado accadeva.

Sardyl sapeva che cosa significasse quel rumore e si voltò appena in tempo per vedere un’espressione di dolore sul volto addolcito di Vangerdahast. Il Mago Reale sembrò esattamente ciò che era in quel momento: un vecchio sull’orlo di scoppiare in lacrime. Questo fu ciò che vide prima che la sua faccia s’indurisse di nuovo.

Vangy le lanciò un’occhiata che potrebbe essere definita solo come provocatoria. Senza proferire parola la ragazza gli appoggiò una mano sul braccio, per consolarlo - un gesto che Alaphondar non avrebbe mai osato fare - e lo guardò con una domanda negli occhi.

«Amedahast», rispose burbero il mago. «La Grande Maga di Cormyr, nel regno di Draxius. Questa era la sua stanza “privata”, molto tempo fa. Nessuno ha usato il teletrasporto in questo luogo dai tempi della signora, il che non sorprende davvero, dati gli incantesimi guardiani.»

Il mago fece qualche passo verso la parete, guardò la mappa e toccò un piccolo monogramma in un angolo. «Sì, qui c’è il suo segno. Lo disegnò più di settecento estati fa.»

Alaphondar guardò la stanza ancora una volta e scosse il capo. No, era davvero troppo piccola perché qualcuno vi si potesse nascondere. «Se il vostro Bolifar fosse in questa stanza…» esclamò cauto, «… e non è sceso semplicemente per le scale dopo che l’avete lasciato, forse è uscito della finestra, in forma spettrale».

Vangerdahast scosse il capo. «Non ci sono fori nelle persiane, e nessuno spiffero dal quale scivolare fuori. Hai visto la polvere quando ho aperto! No. Qui è accaduto qualcosa di oscuro. Lo sento.»

La scrivana stava annuendo. Anche lei aveva la stessa percezione, forte come quella che aveva avvertito quand’era entrata per la prima volta nella stanza. C’era qualcosa di strano lì dentro, si sentiva osservata…

Alaphondar alzò le spalle, irritato, ed esclamò: «lo vado a letto. Ho visto il vostro nulla e ho troppe cose da fare domani per starmene ancora qui a sbadigliare. Che gli dei vi concedano un buon sonno, per quanto non ve lo meritiate proprio».

Non appena il saggio si voltò per andarsene, il mago e l’apprendista si scambiarono un’occhiata di complicità. Corrugarono la fronte simultaneamente e si misero a perlustrare la stanza per l’ennesima volta, cercando ciò che ci sarebbe dovuto essere.

Con un improvviso grugnito d’impazienza per l’assenza di risposte, Vangerdahast pronunciò un incantesimo di ricerca e avanzò verso la mappa e la lampada, sospirando stizzito. Poi si appoggiò alla parete. La mappa rivelò la sua trama complessa di antichi incantesimi, mentre la lampada, compresa la fiamma, era priva di qualsiasi magia. Anche il tappeto presentava solo magie dei tempi passati.

Bolifar Gelde era, a quanto pareva, letteralmente svanito nel nulla. Semplice e impossibile. «Impossibile» per Vangerdahast significava sempre «causato dalla magia».

«L’idea del saggio di andarcene a dormire mi sembra vieppiù assennata», esclamò il mago a bassa voce. «Vieni, fanciulla. Sigilliamo la stanza e andiamocene. Domani avremo tutto il tempo di cercare invano.»

Sardyl annuì e rimase in silenzio, il che le era del resto abituale.

SEMBRA CHE DI TE NON CI SIA ANCORA TRACCIA, MAGO. ORA DELLA FINE IMPARTIRAI A VANGERDAHAST LEZIONI DI MAGIA O NO? OPPURE TI SERVE UN PO’ DI QUESTO?

[schiaffo mentale, dolore rosso che avvampa come un fuoco nell’oscurità a volta]

Se mi risparmi il tormento, Nergal, impiegherò meno tempo!

[borbottio diabolico d’avvertimento]

[scintillio di nuove immagini]

Fra enormi dipinti e tappezzerie, alcune lamine di rame lucidato adornavano le pareti del palazzo. La luce delle lampade si rifletteva sul metallo, gettando un bagliore caldo tutt’intorno e illuminando le guardie immobili e vigili. In coppia lungo le pareti, i soldati rimasero impassibili quando il Mago Reale scortò la sua apprendista fino alla porta delle sue stanze.

«Dormi un po’», esclamò arcigno, la voce alta quanto bastava perché solo lei lo udisse. «Domani mattina avremo un sacco di tempo per preoccuparci della sorte di Bolifar. Attiva il tuo scudo protettivo.»

Sardyl annuì e salutò il mago con un inchino. Era pallida e sembrava essere sul punto di piangere, gli occhi grandi e scuri.

Dopo un istante di silenzio Vangerdahast le posò una mano sulla spalla, per confortarla.

Lady Crownsilver si sottrasse delicatamente a quel tocco ed entrò nella stanza.

Il Mago Reale rimase immobile come una statua, ascoltando la scrivana chiudere la porta col chiavistello. Passarono pochi secondi, poi udì il lieve rumore sibilante che indicava che la ragazza aveva attivato lo scudo protettivo.

Vangerdahast annuì, serio, rivolto alla porta chiusa e mormorò un incantesimo. Quando si voltò per intraprendere la lunga camminata fino alla sua stanza da letto, le guardie rimasero sorprese nel vedere un occhio delle dimensioni di un pugno sospeso dietro la schiena del mago, che lo sorvegliava.

L’occhio magico non vide nulla di sospetto durante il tragitto, né cose fuori posto quando il Mago Reale entrò nelle sue stanze private, attivò i sortilegi di difesa, si recò in una stanza degli incantesimi interna e s’avvicinò al suo tavolo da lavoro. Senza nemmeno fermarsi ad accendere una lampada, elaborò una magia potente per rintracciare Bolifar Gelder.

Il grande incantesimo svanì nell’oscurità e fallì miseramente.

Vangerdahast osservò accigliato le ceneri evanescenti e i fili di fumo lasciati dalla magia. Sospirò, forse per la centesima volta quella notte, e si diresse verso un armadio che apriva raramente, nel quale si trovava un oggetto incappucciato.

L’incantesimo sulla porta dell’armadio gli fornì sufficiente bagliore rosso da togliere il cappuccio e gettarlo da parte. La pietra parlante che si nascondeva sotto di esso, posta in cima a un piedistallo, era un piccolo sasso scheggiato e inclinato, non la sfera di cristallo liscio tanto amata dai maghi alla moda del Sembia o del Calimshan. Ma in quel momento non gliene sarebbe potuto importare di meno. Sei guardie, le cui menti erano libere da magia, avevano testimoniato che Bolifar era salito per quelle scale, e non ne era ridisceso.

Perciò la risposta al mistero della sua scomparsa stava da qualche parte nella stanza della torre, quasi certamente nascosta da una magia più antica e più potente della sua. Per scoprire di che cosa si trattasse, il Mago Reale di Cormyr doveva parlare con qualcuno che ricordava Amedahast da viva, il modo con cui parlava, con cui pensava e come aveva vissuto.

Il mago sospirò ancora e si passò le dita nella barba. Volente o nolente, conosceva una sola persona ancora viva che, se gli dei l’avessero aiutato, avrebbe potuto conoscere abbastanza bene la maga…

Un tappeto steso in un angolo tremolò, s’increspò e s’impennò sul pavimento simile a una specie di mostro minaccioso. Vangerdahast batté stancamente le palpebre per un momento, voltò le spalle alla pietra parlante, afferrò una bacchetta dal banco di lavoro e la puntò con severità contro il tessuto ondeggiante.

Il tappeto baluginò come a rimproverarlo, poi svanì per rivelare un uomo alto e magro, dalla barba bianca e dalla tunica cenciosa. Con una mano sul fianco e un sopracciglio alzato, questi contemplò il Mago Reale. Anche un tagliatore d’ardesia della periferia più occidentale di Cormyr avrebbe riconosciuto il visitatore: Elminster, il Vecchio Mago di Shadowdale.

«I tuoi incantesimi di difesa hanno bisogno di qualche ritocco», osservò con voce fredda l’ex tutore di Vangerdahast. «Li ho infranti senza difficoltà, dato che ho già usato prima questo tappeto.»

Vangy socchiuse gli occhi. «Davvero! Perché?»

Elminster sollevò l’altro sopracciglio. «Per visitare Amedahast, se vuoi saperlo», rispose El abbozzando un ghigno. «Quel tappeto giace accanto al suo letto.»

Il Maestro dei Maghi della Guerra roteò gli occhi. «Avrei dovuto saperlo», sbottò, iniziando a passeggiare per la stanza. D’un tratto si fermò, fece un respiro profondo, soffocò la rabbia che lo assalì quando vide il sorriso di Elminster ed esclamò brusco: «Noi… io… ho bisogno del tuo aiuto. È scomparso…».

«Un erede? Un gioiello della corona? La seconda miglior brachetta di Azoun? O si tratta ancora di un cameriere!»

Vangerdahast lanciò al collega un’occhiata torva. «Un Mago della Guerra», rispose pacato. «Un brav’uomo tutto sommato.» Senza posare gli occhi sul tappeto o sulla pietra parlante, il mago di corte si avviò a grandi passi verso le porte ed Elminster lo seguì, dopo aver scrollato le spalle.

MANCA ANCORA TANTO ALLA MAGIA, PICCOLO MAGO. CHE COSA STAI TRAMANDO?

Sto cercando di ricordare per te, demone. Vi sono tante memorie, sepolte nel profondo. Ma in questa vi è magia sufficiente. Aspetta e vedrai.

Al secondo giro di perlustrazione nella stanza, El si chinò ad annusare. Si mise carponi e, annusando costantemente si aggirò furtivo, come un ragazzino che gioca a fare il lupo a caccia, trascinando la barba sul pavimento e socchiudendo gli occhi. «Avete molti problemi coi topi?», chiese senza sollevare lo sguardo.

«Che corrono in giro! No. O intendi i topi morti nei muri?» Vangerdahast rivolse un’occhiata cupa al mago che avanzava a quattro zampe. «Non c’è nient’altro che aria al di fuori di queste mura… perché? Che cosa senti?»

«Carne putrida. Decadimento. Un odore molto debole.» El scattò in piedi e chiese bruscamente: «La ragazza ha detto che il tappeto sembrava diverso!».

Vangerdahast annuì.

El ricambiò il cenno e un freddo sorriso apparve sulle sue labbra. «Ma certo, ma certo.»

Gli occhi del mago di Cormyr divennero due fessure. «Che cosa sai o sospetti!»

«Una bestia-trappola sul pavimento, che si è mangiata il tappeto con sopra il tuo mago e le sue scartoffie. Ossa, boccette d’inchiostro, e cose simili sono facilmente inghiottibili. Le bestie feroci emanano quell’odore a volontà.»

«Una bestia-trappola! L’avrei notata», ribatté serio il Mago Reale di Cormyr, indicando il pavimento, «e ora non c’è. Mi sono già assicurato che il tappeto fosse solo un tappeto. Raccontane un’altra, Vecchio Mago».

«L’assassino l’ha messa qui prima che Bolifar arrivasse, e l’ha ripresa dopo che la ragazza è venuta a cercarti.»

«Qualcuno che si porta in giro bestie feroci come tappeti o comanda loro di seguirlo come cagnolini! Stento a creder…»

Vangerdahast non terminò la frase e rimase a bocca aperta. Ogni traccia di colore scomparve gradualmente dal suo volto.

«Kaugetharr Drell», riprese, lentamente. «Padrone delle Bestie del Re. Lui ha una bestia simile, l’ho vista divorare avanzi e altro. Quando quell’uomo sferra i giusti incantesimi, l’animale lo segue come un segugio.»

El sorrise e allargò le mani. «Bene allora», esclamò bruscamente, «ho del lavoro che mi aspetta, giù a Sh…»

Nell’istante in cui sollevò la mano dalle lunghe dita, Vangerdahast gridò: «Aspetta!».

Il Vecchio Mago alzò di nuovo un sopracciglio e il collega di Cormyr si affrettò ad aggiungere: «La mia scrivana, Sardyl, aveva chiuso magicamente la porta! Drell non può essere semplicemente…».

Vangy sbiancò per la seconda volta. Sembrò d’un tratto invecchiato, giallo e fragile come una pergamena pronta a sbriciolarsi.

«Sardyl», mormorò. «È coinvolta anche lei!»

Elminster scrollò le spalle. «Può darsi… ma non necessariamente. Non è quello il modo in cui la bestia e il domatore sono entrati.»

Con una mano indicò la mappa sul muro. «È uno dei portali di Amedahast. Lo sono tutte le sue mappe. Non lo sapevi!»

Vangerdahast lo guardò inebetito.

«Attraverso di esse è anche possibile vedere e udire», aggiunse El con un sorrisetto. Voltandosi verso la mappa, il mago v’infilò le dita simili ad artigli di una vecchia arpia e sembrò chiamare con un cenno o trascinare qualcuno verso di lui.

La mappa scintillò e da essa uscì un uomo barcollante, con indosso una camicia adorna, aperta davanti, un paio di brache e stivali di pelle con nappe. Il nuovo arrivato aveva la faccia distorta in un ghigno e balzò addosso a Elminster. Una mano armata di un pugnale scintillante si sollevò e si riabbassò numerose volte e i colpi risuonarono sordi come zoccoli al galoppo, mentre l’uomo colpiva ripetutamente il Vecchio Mago.

Elminster sollevò l’altro sopracciglio. «Hai finito?» chiese con calma, osservando la lama che gli entrava e usciva dal torace, innocua come fumo.

La mano che impugnava l’arma s’irrigidì. Il pugnale cadde dalle dita tremanti, cozzò contro lo stivale dell’uomo e rotolò rumorosamente fino a fermarsi contro una parete.

«Baerune Cordallar», esclamò Vangerdahast con tono solenne proprio dietro l’orecchio dell’uomo, «arrenditi e confessa la verità, ora, oppure verrai condannato per sempre al tormento di una vita sotto forma di bestia!»

Il nobile immobilizzato riuscì a muovere solo gli occhi.

Elminster avanzò quasi con indolenza, toccò la fronte di Cordallar con un dito affusolato e mormorò, «Altri tre con le stesse fattezze… tra cui una donna. Suoi parenti. E un uomo crudele dai lineamenti sottili e dalla barba appuntita. Gli altri… uno di Arabel, uno di Marsember… sono ambiziosi ma solo lievemente coinvolti, da usarsi più tardi come fantocci. La donna ha organizzato il complotto, ma il qui presente doveva essere lo strumento principale. Avrebbe dovuto sposare la Principessa Alusair… per poi ucciderne la sorella maggiore, Tanalasta».

Vangerdahast borbottò, e il suo brontolio ben presto si trasformò in furia. Ora negli occhi di Baerune si leggeva disperazione: l’uomo cercò di parlare, la bocca tremolante, ma gli uscirono solo uggiolii, quasi fosse un cane con la museruola.

«Quanti complotti contro la corona sono stati orditi in questi dieci giorni!» chiese Elminster quasi allegro. «Adesso devo veramente andare.»

Vangerdahast fece un respiro profondo e rispose semplicemente, «Grazie. Ti devo un altro favore». Poi sollevò un sopracciglio. «Come sapevi delle mappe!»

Elminster sorrise. «Se fossi un gentiluomo», rispose dolcemente al suo ex allievo, «non te lo direi. Amedahast era… molto bella. Mi occuperò del tuo domatore di bestie, prima di andarmene; questa mappa porta a un’altra, appesa nelle sue stanze, nella camera posteriore delle toghe».

«Riesci a vedere attraverso la mappa?» domandò curioso il Mago Reale di Cormyr mentre avanzava per osservare il disegno del regno di Amedahast.

Baerun Cordallar fu trascinato impotente lungo la scia del mago, rigido, immobile, capace solo di roteare gli occhi come uno spiritato.

«No», rispose El con tono gentile. Il Vecchio Mago fece un passo ed entrò per metà nella mappa. «Ricordo dove si trovano quelle corrispondenti. Un tempo quella stanza delle toghe era mia.»

L’ultima cosa che Vangerdahast credette di vedere di Elminster non fu la mano agitata in segno di saluto, ma quel suo vecchio e sardonico sorriso. Come sempre.

GUARDO MA NON VEDO MYSTRA, NÉ IL FUOCO ARGENTEO. SOLO UN’ALTRA DIMOSTRAZIONE D’INTELLIGENZA DI ELMINSTER.

[rabbia rossa che svanisce]

EPPURE SEI UN ELETTO DI MYSTRA E DEVI PER FORZA CUSTODIRE ALCUNI DEI SUOI SEGRETI NELLE TENEBRE DELLA TUA MENTE.

PERCIÒ RIVELAMI CIÒ CHE CERCO, ALTRIMENTI MORIRAI.

Beh, prima o poi tutti dobbiamo morire. Uccidimi, dunque, se tieni tanto al mio attuale benessere.

TI DARÒ IL SOLLIEVO DELLA MORTE, ELETTO DI MYSTRA, QUANDO IL FUOCO ARGENTEO SARÀ MIO. SE LA SMETTI DI CONTRARIARMI, POTREBBE PERSINO ESSERE UNA FINE RAPIDA.

Ti ringrazio, demone.

VA’ AVANTI, MORTALE! [schiaffo mentale]

[dolore, vacillamento, la larva che si nutre, si nutre… aaghh]

[guarigione, fuoco purificatore, la larva che frigge]

ECCO. NON ERA NIENTE DI IMPORTANTE. PROCEDI.

* * *

«Vangy», brontolò la principessa in un’armatura scintillante mentre s’infilava i guanti, «spero che questa sia migliore. Devo occuparmi di una questione di tradimento e…»

Il Mago Reale sollevò un sopracciglio folto. «Credi che per me sia una novità? Alusair, dove hai il cervello? Nella brachetta, come tutti quei soldati che ti accompagnano?»

La principessa lo guardò e sorrise. «Ben detto, mago. Ma non iniziare con gli indovinelli su “Che cosa tiene la principessa ribelle nella sua brachetta”, d’accordo? Mia madre mi ha già fatto la predica.»

Vangerdahast le lanciò un’occhiata severa mentre lei gli si avvicinava. «Lo so bene. A differenza di tante fanciulle altezzose, io l’ho consolata.»

Alusair roteò gli occhi. «Vanj», esclamò, utilizzando un soprannome che il mago notoriamente detestava, «la regina è più forte di tutti noi messi insieme. Ha bisogno di conforto quanto un drago di altre squame. Ora, che cosa vuoi da me… oh. Che stai facendo?»

Il Mago Reale di Cormyr le aveva slacciato la gorgiera e l’aveva scostata con un colpetto; ora le sue dita stavano trafficando con i lacci della giubba di pelle posta sotto di essa.

Alusair inarcò un sopracciglio. «Davvero, mago! Non hai mai sentito parlare di corteggiamento? Occhiate d’intesa, parole dolci, magari un bicchiere di vino da offrire a una ragazza…»

«Alusair Nacacia», grugnì Vangerdahast, «comportati bene. Ora ascolta, scopriti la gola e pesca quel pendente che ti diedi». Il mago guardò disgustato la corazza dalle due protuberanze appuntite e si strofinò l’avambraccio nel punto in cui aveva urtato il Dragone Purpureo scolpito e tagliente che l’adornava. «La tua armatura mi lascia poco spazio per lavorare.»

La Principessa d’Acciaio sorrise ironica. «È fatta apposta. Alcuni degli uomini che mi si avvicinano usano spade e coltelli, ricordi?»

«Huh», borbottò il mago. «Sono quelli saggi, suppongo.»

Alusair scoppiò a ridere.

Vangerdahast lanciò un’occhiata severa oltre le spalle della ragazza, ai Dragoni Purpurei che si erano affacciati per scoprire perché la loro principessa-guerriero avesse l’armatura scostata e la gola esposta davanti al Mago Reale.

«Ora, questo», spiegò Vangy, intento ad agganciare un ciondolo nuovo a quello vecchio, «ti proteggerà da incantesimi piuttosto meschini con cui temo tenteranno di ucciderti i nuovi traditori. È un… è un…»

«Mago?» sbottò Alusair, allungando una mano per fermarlo. Non aveva mai visto il volto di Vangerdahast tanto cupo e livido. Sembrava spaventato e vecchio. Spaventato e… pieno di vergogna.

«Vanj», mormorò la ragazza, scuotendolo mentre lo guardava negli occhi, «che cosa c’è? Che cosa ti affligge?»

Con un grugnito il Mago Reale si sottrasse alla sua presa e indietreggiò. «Io… niente di cui ti debba preoccupare. È una faccenda di maghi.»

«Oh, capisco. Come un cavaliere che entra nel suo palazzo con due spade conficcate nel petto. In tal caso sarebbe una “faccenda di guerrieri”, vero?»

«Alusair», esclamò solenne Vangerdahast, mostrando una certa stanchezza, «lasciami stare. Per favore. Non puoi aiutarmi. Nessuno lo può fare».

Alusair lo fissò, gli batté amichevolmente una mano sul braccio, si voltò e uscì dalla sala. Nella stanza accanto il mago la udì mormorare: «Jalance, puoi legarmelo, per favore? E questa volta cerca di tenere le dita sulle cinghie, hmm?».

Numerosi uomini risero, e il vecchio mago li udì uscire. Rimase solo al centro della stanza e sentì gli occhi riempirsi di lacrime.

«Che Mystra mi perdoni», sussurrò, «ma non posso. Sono vecchio. Non avrei resistito cinque secondi in Averno nel periodo d’oro della mia spericolata gioventù. Il mio posto è qui, a Cormyr, dove avranno bisogno di me ancora per un po’ di tempo. Oh, Signora Mystra e Lord Azuth, perdonatemi. Elminster, perdonami».

Fuori di sé, si guardò attorno nella stanza deserta ed ebbe una fugace visione di quel ricordo: le rocce aguzze dell’Inferno stagliate come denti neri contro un cielo rosso sangue. Un essere massacrato che strisciava, le ossa spezzate che protrudevano dalle membra martoriate. Un volto aspro rigato di bava, sangue e lacrime, due occhi infossati che conosceva bene. Il suo vecchio maestro, Elminster.

Il Vecchio Mago di Shadowdale era intrappolato all’Inferno, la sua magia esaurita o fatta prigioniera, e tentava di raggiungere con la mente coloro che sperava potessero aiutarlo. Doveva essere tutto ciò che gli restava.

Vangerdahast fece due passi rapidi nella stanza e scosse il capo. Quegli occhi… con uno sforzo scacciò l’immagine dalla mente. Era stata, senza dubbio, strappata a qualche creatura infernale che stava osservando Elminster. Ciò significava, probabilmente, che questi ne era ormai stato divorato. Tuttavia, se ne sarebbe dovuto assicurare; bisognava tentare di fare qualcosa per aiutare quel vecchio ficcanaso. Ma che cosa?

«Mystra, Madre dei Maghi», sussurrò, le parole di una preghiera molto antica, «che devo fare?»

In risposta ebbe solo silenzio.

«Che devo fare?» Il grido rimbombò contro il soffitto della stanza e fece accorrere servi spaventati e Dragoni Purpurei.

Quando questi raggiunsero la stanza, l’aria echeggiava ancora d’angoscia, ma il Mago Reale era scomparso.

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