Il Giardino delle Brezze d’Argento non era affatto un giardino ma un enorme negozio di vini, anche troppo grande per essere chiamato negozio, in cima a una collina nel mezzo del Calpene, la più occidentale delle tre penisole di Tanchico sotto al Grande Circolo. Almeno una parte del nome derivava dalle brezze che soffiavano fra le colonne lucide striate di verde e le balaustre che rimpiazzavano una parete, tranne all’ultimo piano. Delle tende dorate di seta oleata potevano essere abbassate in caso di pioggia. Da quel lato la collina era scoscesa, e i tavoli lungo la balaustra offrivano una visuale chiara sulle cupole bianche, le guglie e il grande porto affollato con più imbarcazioni del solito. Tanchico aveva un bisogno disperato di ogni cosa e c’era oro da guadagnare, finché con il tempo non si fosse esaurito.
Con le lampade dorate, i soffitti a intarsi di ottone lucidato fino a splendere come oro, e gli inservienti del luogo, uomini e donne scelti per la loro grazia, bellezza e discrezione. Il Giardino delle Brezze d’Argento era il locale più costoso della città, anche prima che giungessero i problemi. Adesso era oltraggioso. Ma quelli che avevano a disposizione somme consistenti ancora vi si recavano, come anche coloro che avevano a che fare con il potere e l’influenza sugli altri, o così pensavano. In alcuni casi c’era meno lavoro rispetto al passato, in altri di più.
Delle pareti basse circondavano ogni tavolo, creando sul pavimento delle isolette di mattonelle verdi e dorate. Ogni parete, lavorata come se fosse un merletto affinché nessuno spione potesse ascoltare senza essere visto, era alta abbastanza per nascondere le persone che si incontravano da sguardi occasionali o passanti. Anche così, se erano prudenti, gli avventori di solito erano mascherati, particolarmente negli ultimi tempi, e alcuni avevano delle guardie del corpo accanto ai tavoli, anch’esse mascherate per evitare di essere riconosciute. E si diceva che la maggior parte fosse prudente. Nessuna guardia era armata visibilmente: la proprietaria del Giardino delle Brezze d’Argento, una donna fiorente dall’età indefinita di nome Selindrin, non consentiva le armi. La regola non veniva infranta, almeno non apertamente.
Dal solito tavolo vicino alla balaustra, Egeanin guardava le navi nel porto, specialmente quelle che mettevano vela. Le facevano venire voglia di tornare sul ponte a impartire ordini. Non si era mai aspettata che il dovere l’avrebbe portata a questo.
Inconsciamente aggiustò la maschera di velluto che le nascondeva la parte superiore del viso. Si sentiva ridicola a indossare quella cosa, ma era necessario confondersi con la folla. La maschera — blu, per adeguarsi al vestito di seta a collo alto che indossava — l’abito e i capelli scuri, ormai arrivati fin sotto le spalle, erano il massimo che potesse fare. Passare per Taraboniana non era necessario — Tanchico era piena di rifugiati, per la maggior parte stranieri travolti dai problemi — ed era comunque oltre le sue possibilità. Queste persone erano degli animali, non avevano disciplina o ordine.
Con rimpianto si voltò dal porto al compagno di tavolo, un tizio dal viso sottile con il sorriso avido di una donnola. Il colletto consunto di Floran Gelb non era da Giardino delle Brezze d’Argento, e l’uomo non faceva altro che asciugarsi le mani sulla giubba. Egeanin era costretta a incontrare sempre lì gli uomini untuosi con cui doveva aver a che fare. Per loro era come una ricompensa e un modo per tenerli a disagio.
«Cos’hai per me, mastro Gelb?»
Asciugandosi le mani, l’uomo sollevò una ruvida sacca di tela di iuta e la poggiò sul tavolo, guardandola ansioso. La donna appoggiò la sacca a terra prima di aprirla. All’interno vi era un a’dam di metallo argentato, un collare e un braccialetto collegati da un guinzaglio ben lavorato. Chiuse la sacca e la lasciò in terra. Questo era il terzo che Gelb aveva trovato, più di quanto avesse fatto chiunque altro.
«Molto bene, mastro Gelb.» Un piccolo sacchetto apparve dall’altro lato del tavolo. Gelb lo fece scomparire sotto alla giubba come se contenesse la corona dell’imperatrice invece che una manciata d’argento. «C’è altro?»
«Quelle donne? Quelle che vuoi che io cerchi?» Egeanin si era abituata alla parlata veloce di questa gente, ma desiderava che l’uomo non si leccasse le labbra a quel modo. Non rendeva più difficile capirlo, ma era sgradevole da vedere.
Stava quasi per dire all’uomo che non era più interessata. Ma questo dopotutto era parte del motivo per cui si trovava a Tanchico, ormai forse la sola ragione. «Cosa mi dici di loro?» Che potesse anche solo pensare di tirarsi indietro dal proprio dovere la fece parlare più duramente di quanto voleva e Gelb trasalì.
«Credo... credo di averne trovata un’altra.»
«Ne sei certo? Ci sono stati... errori.»
Errore era un modo gentile di definirle. Circa una dozzina di donne che si avvicinavano vagamente alla descrizione da lei fornita, un fastidio che poteva ignorare dopo averle viste. Ma quella nobile, una rifugiata dopo che la residenza le era stata incendiata durante la guerra... Gelb l’aveva sequestrata dalla strada credendo che avrebbe guadagnato di più consegnandola piuttosto che rivelando dove si trovava. In sua difesa c’era da dire che lady Leilwin assomigliava molto a una delle donne che Egeanin stava cercando, ma aveva spiegato all’uomo che non parlavano con un accento riconoscibile, di certo non quello di Tarabon. Egeanin non voleva uccidere la donna, eppure anche a Tanchico qualcuno avrebbe potuto dare ascolto al suo racconto. Leilwin era stata imbarcata, legata e imbavagliata, su una delle navi messaggere che salpavano di notte; era giovane e bella, e qualcuno avrebbe saputo cosa farsene piuttosto che tagliarle la gola. Ma Egeanin non era a Tanchico alla ricerca di cameriere per il Sangue.
«Nessun errore, signora Elidar» rispose rapidamente, rivolgendole un sorriso dentato. «Non stavolta. Ma... ho bisogno di oro. Per essere certo. Per avvicinarmi a sufficienza. Quattro o cinque corone?»
«Io pago per i risultati» rispose con fermezza Egeanin. «Dopo i tuoi... errori, sei fortunato che ti paghi.»
Gelb si leccò nervosamente le labbra. «Avevi detto... proprio all’inizio, avevi detto che avevi del denaro per quelli che potevano fare lavori speciali.» Un muscolo sulla guancia dell’uomo guizzò, gli occhi scattarono in tutte le direzioni come se qualcuno stesse ascoltando dietro alla parte merlettata attorno ai tre lati del tavolo, e abbassò la voce a un sussurro. «Causare problemi? Ho sentito una voce — da un tizio che è il servitore personale di lord Brys — sull’Adunanza e la scelta del nuovo Panarca. Credo che potrebbe essere vera. L’uomo era ubriaco e quando si è accorto di quanto aveva detto, se l’è quasi fatta sotto. Anche se non fosse vera, la voce separerebbe ancora Tanchico in due.»
«Credi davvero che ci sia bisogno di comperare problemi in questa città?» Tanchico era un frutto marcio pronto a cadere al primo soffio di vento. Tutta questa terra disgraziata lo era. Per un momento fu tentata di comperare questa ‘voce’. In teoria lei era a caccia di voci e beni di ogni tipo, e ne aveva anche venduti alcuni. Ma avere a che fare con Gelb le dava il voltastomaco. E i suoi stessi dubbi la spaventavano. «Questo è tutto, mastro Gelb. Sai come contattarmi se trovi un altro di questi.» Toccò la sacca ruvida.
Invece di alzarsi, l’uomo rimase seduto a fissarla, cercando di vedere attraverso la maschera. «Di dove sei, signora Elidar? Il modo in cui parli, tutto strascicato e morbido — chiedo scusa, senza offesa — non riesco a identificarlo.»
«Questo è tutto, Gelb.» Forse fu il tono, o la maschera che tradì io sguardo freddo, ma Gelb balzò in piedi, inchinandosi e balbettando scuse mentre si affannava ad aprire la porta nella parete di merletto.
La donna rimase lì seduta dopo che era andato via per lasciargli il tempo di allontanarsi dal Giardino delle Brezze d’Argento. Qualcuno lo avrebbe seguito, per accertarsi che non l’aspettasse per seguirla a sua volta. Tutto questo essere furtivi e nascondersi la disgustava, desiderava quasi che qualcosa tradisse il suo mascheramento per regalarle finalmente un confronto faccia a faccia.
Una nuova nave stava attraccando nel porto, un perlustratore del Popolo del Mare, con il pennone torreggiante e nuvole di vele. Ne aveva esaminato uno fra quelli che avevano catturato, e avrebbe dato quasi tutto per comandarne uno, anche se sospettava che fosse necessario un equipaggio del Popolo del Mare per ottenere il meglio dal veliero. Gli Atha’an Miere erano ostinati con i giuramenti, non sarebbe stato lo stesso se avesse dovuto comperare la ciurma. Comprare un intero equipaggio nuovo! La quantità di oro che le giungeva con le navi messaggere le dava alla testa.
Raccogliendo la sacca di iuta incominciò ad alzarsi, quindi si sedette nuovamente alla vista di un uomo dalle ampie spalle che si allontanava da un altro tavolo. Capelli scuri, lunghi quasi fino alle spalle, e una barba che gli lasciava il labbro superiore scoperto incorniciavano il viso di Bayle Domon. Naturalmente non era mascherato. Gestiva una dozzina di velieri costieri dentro e fuori Tanchico e apparentemente non gli importava di chi fosse al corrente dei suoi movimenti. Maschera. Non stava pensando con chiarezza. Non l’avrebbe riconosciuta con quella maschera. In ogni caso attese che se ne andasse prima di abbandonare il tavolo. Prima o poi avrebbe dovuto occuparsi dell’uomo, se fosse diventato un pericolo.
Selindrin prese l’oro che Egeanin le offrì con un sorriso mellifluo, mormorando la volontà che continuasse a essere una sua cliente. Con i capelli scuri acconciati in dozzine di freccine, la proprietaria del Giardino delle Brezze d’Argento indossava un abito di seta bianca, sottile quasi come quelli delle servitrici e uno di quei veli trasparenti che facevano sempre venir voglia a Egeanin di chiedere alle donne di Tarabon quali balli sapessero fare. Le danzatrici Shea indossavano quasi gli stessi veli, forse anche qualcosa di più. Eppure, rifletteva Egeanin mentre si avviava verso la strada, la donna aveva una mente acuta, altrimenti non sarebbe stata in grado di muoversi per i bassifondi di Tanchico, rifornendo tutti senza guadagnarsi alcuna ostilità.
Quasi a conferma di questo, un alto uomo con un mantello bianco, tempie grigie, viso duro e sguardo severo, oltrepassò Egeanin per essere accolto da Selindrin. Sul mantello di Jaichim Carridin c’era un sole dorato ricamato all’altezza del petto, con quattro nodi d’oro sotto e un pastorale cremisi dietro. Un Inquisitore della Mano della Luce, un alto ufficiale dei Figli della Luce. Il concetto vero e proprio dei Figli oltraggiava Egeanin, un corpo militare che rispondeva solamente a se stesso. Ma Carridin e le sue centinaia di soldati avevano un certo potere a Tanchico, dove ogni altro tipo di autorità sembrava scarseggiare la maggior parte delle volte. La Vigilanza Civile non perlustrava più le strade e l’esercito — la parte che era ancora leale al re — era troppo impegnato a difendere le fortezze attorno alla città. Egeanin notò che Selindrin non aveva nemmeno guardato la spada al fianco di Carridin. Decisamente quest’uomo aveva potere.
Non appena la donna apparve in strada, i portatori le vennero incontro di corsa con la lettiga, abbandonando il gruppo di quelli in attesa dei loro padroni, e le sue guardie del corpo la circondarono lancia in mano. Erano un gruppo male assortito, alcuni con gli elmetti di acciaio, tre con delle vesti di pelle coperte di lamine di metallo, uomini dal volto rozzo, probabilmente disertori di altri eserciti, ma consapevoli del fatto che continuare ad avere lo stomaco pieno e dell’argento da spendere dipendeva dalla salvezza costante di quella donna. Anche i portatori avevano dei pugnali e dalle fusciacche spuntavano dei manganelli. Nessuno che avesse l’aspetto di un benestante osava uscire in strada senza protezione. In ogni caso, se avesse voluto rischiare, avrebbe solamente attirato l’attenzione su di sé.
Le guardie si aprirono un varco fra la folla senza problemi. La calca vorticava e turbinava nelle strette stradine che risalivano le colline della città, creando delle aree di vuoto attorno alle portantine vegliate dalle guardie di corpo. Si vedevano poche carrozze. I cavalli stavano diventando una stravaganza.
‘Estenuata’ era la sola definizione possibile per la folla che sciamava, estenuata e frenetica. Volti consumati, abiti sciupati, occhi frenetici troppo brillanti, disperati, speranzosi quando sapevano che non c’era speranza. Molti si erano arresi, accovacciati contro le mura, sotto le soglie, mentre stringevano le mogli, i mariti, i figli, non solo esausti, ma logori e inespressivi. A volte si destavano da quel torpore per elemosinare dai passanti una moneta, un pezzo di pane, qualsiasi cosa.
Egeanin teneva gli occhi davanti a sé, fidandosi necessariamente delle guardie del corpo per scoprire eventuali pericoli. Incrociare lo sguardo di un mendicante significava averne almeno una ventina speranzosa attorno alla portantina. Lanciare una moneta avrebbe significato averne attorno almeno cento che acclamavano e piangevano. Egeanin stava già usando parte del denaro delle navi messaggere per finanziare una cucina distributrice di zuppe, come se fosse una del Sangue. Rabbrividì pensando a cosa avrebbe significato la scoperta di un simile sconfinamento della sua posizione. Era come indossare un abito di broccato e radersi la testa.
Tutto questo poteva essere accantonato una volta che Tanchico fosse caduta, tutti sarebbero stati nutriti, ognuno al suo posto. E lei avrebbe potuto abbandonare vestiti e cose per cui non aveva l’esperienza o il gusto e tornare alla sua nave. Almeno Tarabon, e forse l’Arad Doman, erano pronti a ridursi in briciole a un solo tocco, come seta bruciata. Perché la Somma signora Suroth esitava? Perché?
Jaichim Carridin oziava sulla sedia, il mantello aperto sui braccioli lavorati, mentre studiava i nobiluomini di Tarabon che occupavano le altre sedie delle stanze private. Stavano seduti rigidamente con le giubbe ricamate d’oro, le labbra tese sotto maschere elegantemente lavorate per assomigliare a musi di falchi, leoni e leopardi. Aveva altro di cui preoccuparsi che questi tizi, ma riusciva a comportarsi con calma. Erano passati due mesi da quando aveva ricevuto notizia di un cugino trovato scuoiato vivo nella sua camera da letto, tre da quando la sorella più piccola, Dealda, era stata portata via dalla sua festa nuziale da un Myrddraal. Il maggiordomo di famiglia scriveva incredulo, angosciato da tutte le disgrazie che stavano ricadendo sulla casata Carridin. Due mesi. Sperava che Dealda fosse morta rapidamente. Si diceva che le donne non restassero sane di mente a lungo, fra le mani dei Myrddraal. Due interi mesi. Chiunque altro all’infuori di Jaichim Carridin avrebbe sudato sangue.
Ogni uomo aveva in mano un calice d’oro colmo di vino, ma non c’erano camerieri presenti. Li aveva serviti Selindrin prima di andarsene assicurandoli che non sarebbero stati disturbati. Infatti non c’era nessun altro a questo piano, il più alto del Giardino delle Brezze d’Argento. Due uomini che erano giunti con i nobili — membri della guardia del corpo del re, a meno che Carridin non avesse indovinato male — stavano in piedi davanti alle scale per garantire la riservatezza.
Carridin sorseggiava il vino. Nessuno dei nobili di Tarabon aveva toccato il proprio. «Così» osservò superficialmente «re Andric desidera l’aiuto dei Figli della Luce per restaurare l’ordine in città. Non ci lasciamo coinvolgere spesso negli affari interni delle nazioni.» Non apertamente. «Certamente non riesco a ricordare una simile richiesta. Non so cosa dirà il lord Capitano Comandante.» Pedron Niall avrebbe detto di fare ciò di cui c’era bisogno e assicurarsi che i Taraboniani sapessero di essere in debito con i Figli, e accertarsi che lo avrebbero pagato completamente.
«Non hai tempo di richiedere istruzioni da Amador» ribatté un uomo con la maschera picchiettata da leopardo. Nessuno aveva detto il proprio nome, ma Carridin non ne aveva bisogno.
«Quel che chiediamo è necessario» scattò un altro, con i folti baffi che spuntavano sotto a una maschera da falco che lo facevano assomigliare a uno strano gufo. «Devi capire che non faremmo questa richiesta se non fosse assolutamente necessaria. Dobbiamo rimanere uniti, mai più altre divisioni, d’accordo? Ci sono molti elementi di separazione, anche all’interno di Tanchico. Devono essere repressi se vogliamo avere la speranza di imporre la pace nelle campagne.»
«La morte della Panarca ha reso le cose più difficili» aggiunse il primo tizio.
Carridin sollevò un sopracciglio con fare interrogativo. «Avete già scoperto chi l’ha uccisa?»
Lui supponeva che fosse stato Andric in persona, nella convinzione che la Panarca favorisse uno dei ribelli che reclamavano il trono. Il re forse aveva ragione, ma lo aveva scoperto dopo aver convocato quel che restava dell’Adunanza dei Lord — una buona parte era con qualche gruppo di ribelli nelle campagne — decisi ad approvare la sua scelta. Anche se lady Amathera non avesse condiviso il letto con Andric, le elezioni del re e del Panarca erano il solo potere che l’Adunanza detenesse, e non volevano rinunciarvi. Le difficoltà con lady Amathera in teoria non dovevano essere note. Anche l’Adunanza si rendeva conto che la cosa avrebbe potuto scatenare tumulti.
«Certamente uno di quei pazzi fautori del Drago» disse l’uomo che somigliava a un gufo, tirandosi un baffo. «Nessun Taraboniano autentico farebbe del male al Panarca, giusto?» Sembrava quasi che ci credesse.
«Naturalmente» rispose Carridin, sorseggiando il vino. «Se devo rendere sicuro il Palazzo del Panarca per l’ascesa al trono di lady Amathera, devo sentirlo dal re in persona. Altrimenti potrebbe sembrare che i Figli delle Luce siano alla ricerca del potere a Tarabon, quando tutto ciò che cerchiamo, come dici tu è la fine delle divisioni e la pace sotto la Luce.»
Un tipo più anziano con la mascella squadrata, la maschera da leopardo e i capelli biondi spruzzati di bianco, parlò freddamente. «Ho sentito dire che Pedron Niall cerca l’unità contro i fautori del Drago. Sotto il suo comando, giusto?»
«Il lord Capitano Comandante non cerca alcun dominio» rispose Carridin altrettanto freddamente. «I Figli servono la Luce, come tutti gli uomini di buona volontà.»
«Non possono esserci questioni» intervenne il primo leopardo «su Tarabon soggetta in qualche modo ad Amador, nessuna questione!»
Da quasi ogni sedia giunse un consenso adirato.
«Certo che no» rispose Carridin come se quel pensiero non gli fosse mai venuto in mente. «Se desiderate il mio aiuto, lo offrirò, alle condizioni che ho elencato. Se non lo volete, per i Figli c’è sempre lavoro. Il servizio della Luce non finisce mai, perché l’Ombra attende ovunque.»
«Avrai delle garanzie firmate e sigillate dal re» rispose un uomo dai capelli grigi con la maschera da leone, ed era la prima volta che parlava. Naturalmente era Andric in persona anche se in teoria Carridin non doveva saperlo. Il re non poteva incontrarsi con un Inquisitore della Mano della Luce senza scatenare delle voci più di quanto non poteva visitare un’enoteca, anche il Giardino delle Brezze d’Argento.
Carridin annuì. «Quando saranno fra le mie mani, renderò sicuro il Palazzo del Panarca e i Figli reprimeranno ogni... elemento di separazione... che cerchi di interferire con l’investitura. Lo giuro per la Luce.» La tensione rilasciò visibilmente i Taraboniani; sollevarono i calici come a tentare di rimpiazzare quella sensazione con il vino.
Per quel che riguardava la gente di Tarabon, i Figli sarebbero stati incolpati per le inevitabili uccisioni, non il re o l’esercito di Tarabon. Una volta che Amathera fosse stata investita con la corona e lo Scettro dell’Albero, qualche altro appartenente dell’Adunanza si sarebbe unito ai ribelli, ma se il resto avesse ammesso di non averla eletta, la notizia avrebbe incendiato Tanchico. Per quanto riguardava eventuali racconti dei fuggitivi — be’, i ribelli avrebbero messo in giro ogni tipo di bugia traditrice. Inoltre il re e il Panarca di Tarabon sarebbero rimasti attaccati a fili che Carridin poteva consegnare a Pedron Niall, per farne quel che voleva.
Non un gran regalo come avrebbe potuto essere stato se il re di Tarabon avesse controllato più di qualche chilometro quadrato attorno a Tanchico, eppure poteva di nuovo essere ambito. Con l’aiuto dei Figli — servivano almeno una legione o due, non solo i cinquecento che erano con Carridin — i fautori del Drago potevano essere schiacciati, i vari ribelli sconfitti e anche la guerra contro l’Arad Doman perseguita con successo. Se le due nazioni si fossero accorte che stavano combattendo fra loro. L’Arad Doman versava in condizioni peggiori di Tarabon, così aveva sentito dire Carridin.
In verità gli importava poco se Tarabon cadeva o meno sotto l’influenza dei Figli, o Tanchico. C’erano azioni da compiere, cose da fare che aveva sempre fatto, ma era difficile pensare ad altro se non al momento il cui gli sarebbe stata tagliata la gola. Forse lo desiderava addirittura. Erano trascorsi due mesi da quando aveva ricevuto l’ultimo rapporto.
Non rimase a bere con i Taraboniani, al contrario si congedò molto rapidamente. Se si offendevano, gli dovevano troppo per mostrarglielo. Selindrin lo vide scendere, e un giovane stalliere gli portò il cavallo davanti alla porta quando raggiunse la strada. Lanciando al ragazzo una moneta di rame, spronò il castrone nero a un trotto veloce. Gli straccioni per le strade contorte si tolsero dalla sua traiettoria, il che era un bene. Non era certo che se ne sarebbe accorto se ne avesse travolto qualcuno. Non che sarebbe stata una perdita. La città era piena di mendicanti, poteva appena respirare senza inalare il fetore di sudore vecchio e sporcizia. Tamrin doveva raccoglierli e spazzarli via, lasciare che con loro se la vedessero i ribelli della nazione.
La mente di Carridin era concentrata sulla nazione, non sui ribelli. Con loro poteva prevalere facilmente, dopo che si fosse diffusa la voce che questo o quello erano Amici delle Tenebre. E quando fosse riuscito a consegnarne alcuni alla Mano della Luce, si sarebbero schierati contro chiunque e avrebbero confessato di venerare il Tenebroso, mangiare i bambini e qualsiasi altra cosa gli sarebbe stata detta. I ribelli non sarebbero durati a lungo dopo un tale servizio, i pochi ancora a piede libero si sarebbero ritrovati da soli. Ma i fautori del Drago, uomini e donne che si erano schierati dalla parte del Drago Rinato, non sarebbero caduti con l’accusa di essere Amici delle Tenebre. La maggior parte della gente li considerava tali, avendo essi giurato di seguire un uomo che poteva incanalare.
Il problema era l’uomo che avevano giurato di seguire, quello del quale non conoscevano nemmeno il nome. Rand al’Thor. Dov’era? Un centinaio di bande di fautori del Drago là fuori, almeno due abbastanza grandi da essere chiamate eserciti, che combattevano contro la milizia del re — ancora alleato di Andric — combattevano i ribelli — impegnati a combattere fra loro oltre che contro Andric e i fautori del Drago — eppure Carridin non aveva idea di quale gruppo nascondesse Rand al’Thor. Poteva trovarsi nella Piana di Almoth o nell’Arad Doman, dove la situazione era la stessa. Se lo era, Jaichim Carridin molto probabilmente era un uomo morto.
Al palazzo sul Verana dove aveva stabilito il quartier generale dei Figli lanciò le redini a una delle guardie dal mantello bianco ed entrò a grandi passi senza restituire i saluti. Il proprietario di questo elaborato ammasso di cupole, guglie merlettate e giardini ombreggiati aveva rivendicato la pretesa al Trono della Luce, e nessuno aveva discusso l’occupazione. Ultimo fra tutti il proprietario, quel che rimaneva della sua testa ancora decorava una lancia in cima alle Scale del Traditore, sul Maseta.
Per una volta Carridin guardò appena gli elaborati tappeti di Tarabon, o i mobili intarsiati di oro e avorio, o i cortili con fontane dove l’acqua scrosciante emetteva un suono delicato. Ampi corridoi con lampade dorate e soffitti alti coperti di delicate volute d’oro non lo interessavano affatto. Questo palazzo poteva eguagliare il più bello di Amadicia, se non il più grande, eppure il pensiero principale di quel momento era la forte acquavite che aveva nella camera che occupava come studio.
Era a metà strada su un tappeto di valore inestimabile, tutto decorato con motivi blu, scarlatto e oro, con gli occhi fissi su un mobiletto intarsiato che conteneva una fiasca d’argento di acquavite distillata due volte, quando di colpo si accorse che non era solo. Una donna con un abito trasparente rosso chiaro stava in piedi vicino alle alte finestre strette che si affacciavano sui giardini ombreggiati dagli alberi, i capelli biondo miele acconciati in una moltitudine di treccine che le sfioravano le spalle. Un leggerissimo velo non faceva nulla per nasconderle il viso. Giovane e carina, con la bocca a forma di bocciolo di rosa e grandi occhi marroni, non era una cameriera e non era nemmeno vestita come tale.
«Chi sei?» chiese irritato Carridin. «Come hai fatto a entrare qui? Vai via subito, o ti farò gettare in strada.»
«Sono minacce, Bors? Dovresti essere più gentile con un ospite, giusto?» Quel nome lo fece saltare. Prima di pensare aveva snudato la spada, mirando alla gola della donna.
Qualcosa lo afferrò — l’aria era diventata densa come gelatina — qualcosa lo aveva obbligato a inginocchiarsi, bloccandolo dal collo in giù. Lo strinse attorno al polso fino a quando le ossa non scricchiolarono, la mano si aprì e la spada cadde. Il Potere. La donna stava usando l’Unico Potere su di lui. Una strega di Tar Valon. E se conosceva quel nome...
«Ti ricordi» proseguì la donna avvicinandosi «un incontro dove apparve Ba’alzamon in persona, e ci mostrò i volti di Matrim Cauthon, Perrin Aybara e Rand al’Thor?» La donna aveva praticamente sputato quei nomi, in particolar modo l’ultimo. Con gli occhi avrebbe potuto perforare l’acciaio. «Vedi? So chi sei, capito? Hai dato la tua anima in pegno al Sommo Signore delle Tenebre, Bors.» La risata improvvisa della donna fu come uno scampanellio.
Il sudore sgorgò sul viso di Carridin. Non solo una schifosa strega di Tar Valon. Ajah Nera. Apparteneva all’Ajah Nera. Aveva pensato che sarebbe venuto un Myrddraal a cercarlo. Credeva di avere altro tempo. Più tempo. Non ancora. «Ho provato a ucciderlo» balbettò. «Rand al’Thor. Ci ho provato! Ma non riesco a trovarlo. Non ci riesco! Mi è stato detto che la mia famiglia morirà se io fallisco, uno alla volta. Mi era stato promesso che sarei stato l’ultimo! Ho ancora dei cugini. Nipoti. Ho un’altra sorella! Devi concedermi più tempo!»
La donna rimase là in piedi, guardandolo con quegli acuti occhi marroni, sorridendo con quella bocca rigogliosa, ascoltando mentre lui rivelava senza problemi dove poteva trovare Vanora, dov’era la sua camera da letto, come le piaceva cavalcare da sola nella foresta oltre Carniera. Forse se avesse gridato sarebbero giunte alcune guardie. Forse potevano ucciderla. Aprì ulteriormente la bocca — e quella spessa gelatina invisibile vi fluì, costringendo le mandibole ad allontanarsi fino a scrosciare. Dilatando le narici inspirò angosciato. Poteva ancora respirare, ma non poteva gridare. Tutto quello che riusciva a produrre erano dei mugolii soffocati, come una donna che gemeva da dietro a un muro. Voleva urlare.
«Sei molto divertente» disse alla fine la donna con i capelli color miele. «Jaichim. Un nome che va bene per un cane, mi pare. Ti piacerebbe essere il mio cane, Jaichim? Se fai il bravo cane un giorno potrei permetterti di vedere morire Rand al’Thor, ci stai?»
Ci volle un momento affinché ciò che aveva detto si radicasse. Se poteva vedere Rand al’Thor morire, allora lei non era... non era venuta a ucciderlo, scuoiarlo. fargli cose che nella sua mente si era immaginato avrebbero reso l’essere scotennato un sollievo. Delle lacrime gli scivolarono sul viso. Fu scosso da singhiozzi di sollievo, per quanto potesse tremare intrappolato com’era.
Quella trappola svanì di colpo, e Carridin cadde carponi, ancora piangendo. Non riusciva a fermarsi.
La donna si inginocchiò accanto a lui e gli passò una mano fra i capelli, tirandogli su la testa. «Adesso mi ascolterai, vero? La morte di Rand al’Thor è per il futuro, e la vedrai solamente sei farai il bravo cane. Sposterai i tuoi Manti Bianchi al Palazzo del Panarca.»
«Co... come fai a sa... saperlo?»
La donna scosse il capo in modo poco gentile. «Un bravo cane non fa domande alla padrona. Io lancio il bastone, tu lo prendi. Io dico uccidi, tu esegui. Intesi? Intesi.» Il sorriso della strega fu solamente un lampo di denti. «Ci saranno problemi a prendere il Palazzo? C’è la Legione del Panarca, mille uomini, che dormono nei corridoi, nella sala dei ricevimenti e nei cortili. Non hai così tanti Manti Bianchi.»
«Loro...» Dovette fermarsi per deglutire. «Non creeranno problemi. Credono tutti che Amathera sia stata scelta dall’Adunanza. È questa che...»
«Non annoiarmi, Jaichim. Non mi importa se uccidi tutta l’Adunanza se dopo controllerai il Palazzo del Panarca. Quando ti muoverai?»
«Ci vorranno tre o quattro giorni prima che Andric mi consegni le garanzie.»
«Tre o quattro giorni» ripeté la donna. «Molto bene. Un piccolo ulteriore ritardo non mi creerà grandi problemi.» Carridin stava chiedendosi a quale ritardo si riferisse la donna, quando questa gli tolse il poco terreno che gli era rimasto sotto ai piedi. «Manterrai il controllo del Palazzo e manderai via i soldati del Panarca.»
«È impossibile» esclamò, e la donna gli tirò la testa indietro così forte che non sapeva se gli avrebbe spezzato il collo o se gli si sarebbero staccati prima i capelli. Non osò resistere. Migliaia di aghi invisibili lo punsero, sul viso, sul petto, sulla schiena, sulle braccia, le gambe, ovunque. Invisibili ma, ne era certo, non meno reali.
«Impossibile, Jaichim?» lo apostrofò la donna. «Impossibile è una parola che non mi piace sentire.»
Gli aghi affondarono, l’uomo gemette, ma doveva spiegarle. Ciò che voleva era impossibile. Ansimava per la fretta. «Una volta che Amathera verrà investita con la carica di Panarca, controllerà la Legione. Se provo a mantenere il controllo del Palazzo me la scatenerà contro e Andric l’aiuterà. Non c’è modo che io riesca a resistere contro la Legione del Panarca e qualsiasi cosa Andric riesca a prendere dall’anello di fortificazione.»
La donna lo studiò così a lungo che incominciò a sudare. Non osava battere ciglio, quelle migliaia di piccoli coltelli non lo permettevano.
«Ci occuperemo della Panarca» rispose alla fine. Gli aghi svanirono e la donna si alzò.
Anche Carridin si alzò, cercando di recuperare l’equilibrio. Forse poteva raggiungere un qualche accordo, la donna sembrava disponibile ad ascoltare le sue motivazioni, adesso. Le gambe di Carridin tremavano per lo spavento, ma rese la voce il più ferma possibile. «Anche se puoi influenzare Amathera...»
La donna lo interruppe. «Ti ho proibito le domande, Jaichim. Un bravo cane obbedisce alla padrona, vero? Ti garantisco che se non lo farai mi pregherai di andare a cercare un Myrddraal che giochi con te. Mi hai capita?»
«Ho capito» rispose angosciato. La donna continuò a fissarlo e dopo un momento Carridin comprese. «Farò come dici... padrona.» Il fugace sorriso di approvazione di lei lo fece arrossire. La donna si mosse verso la porta, voltandogli le spalle come se fosse veramente un cane, e senza denti. «Come... come ti chiami?» Stavolta il sorriso che ricevette in risposta fu dolce e canzonatorio. «Sì. Un cane dovrebbe conoscere il nome della sua padrona. Mi chiamo Liandrin. Ma questo nome non dovrà mai sfiorare le labbra del cane. Se dovesse accadere, sarò molto dispiaciuta con te.»
Quando la porta si chiuse alle spalle dell’Aes Sedai, Carridin barcollò fino a una sedia dallo schienale alto intarsiata d’avorio e vi si accasciò. L’acquavite la lasciò dov’era, per come aveva lo stomaco a soqquadro lo avrebbe fatto vomitare. Che interesse poteva avere quella donna al Palazzo del Panarca? Forse era una linea pericolosa di pensiero, ma anche se servivano lo stesso padrone non poteva provare altro che repulsione nei confronti delle streghe di Tar Valon.
La donna sapeva meno di quanto credeva. Con le garanzie del re in mano, poteva tenere Tamrin e il suo esercito lontano dalla propria gola con la minaccia di svelare tutto e poteva fare lo stesso con Amathera. Però potevano sempre sollevare le folle. E il lord Capitano Comandante poteva più che disapprovare l’intera faccenda, poteva pensare che Carridin fosse alla ricerca di un potere personale. Carridin si lasciò ricadere la testa fra le mani, visualizzando Niall che firmava la sua condanna a morte. Sarebbe stato arrestato dai suoi uomini e impiccato. Se riusciva a organizzare la morte delle strega... ma aveva promesso di proteggerlo dal Myrddraal. Voleva mettersi nuovamente a piangere. La strega non era nemmeno presente, eppure lo aveva intrappolato del tutto, aveva delle morse d’acciaio strette su entrambe le gambe e un cappio attorno al collo.
Doveva esserci una via d’uscita, ma in ogni direzione guardasse c’era solamente un’altra trappola.
Liandrin si mosse furtiva lungo i corridoi, evitando facilmente servitori e Manti Bianchi. Quando uscì da una piccola porta posteriore in uno stretto vicolo dietro al palazzo, l’alta giovane guardia la fissò con un misto di sollievo e disagio. Il piccolo trucco di suggestionare il ragazzo — solo una goccia di Potere — non era stato necessario con Carridin, ma aveva convinto facilmente quest’idiota che lei doveva entrare. Sorridendo, si avvicinò a lui. Il magro tanghero fece un sorriso come se si aspettasse un bacio, ma l’espressione gli si congelò non appena una sottile lama gli trapassò un occhio.
Liandrin balzò indietro agilmente mentre il ragazzo crollava, un sacco di carne senza ossa. Adesso non avrebbe parlato di lei nemmeno per sbaglio. Nemmeno una goccia di sangue le macchiava la mano. Le sarebbe piaciuto avere la capacità di Chesmal di uccidere con il Potere, o anche il talento inferiore di Rianna. Strano che la capacità di uccidere con il Potere, di bloccare un cuore o far bollire il sangue nelle vene, fosse così strettamente legata alla guarigione. Lei non poteva guarire se non piccoli graffi o lividi, non che le interessasse.
La sua portantina laccata di rosso e intarsiata d’oro e avorio attendeva in fondo al vicolo e con quella le guardie del corpo, una dozzina di uomini con i volti di lupi affamati. Una volta nelle strade, aprirono facilmente un varco attraverso la folla, colpendo con le lance chiunque non si facesse da parte abbastanza in fretta. Erano tutti dediti al Sommo Signore delle Tenebre, e anche se non sapevano con esattezza chi lei fosse, sapevano che altri uomini erano scomparsi, uomini che non avevano servito come avrebbero dovuto.
La casa che lei e le altre avevano occupato, due piani coperti da pietra piatta e intonacata, sul fianco di una collina alla base del Verana, la penisola più orientale di Tanchico, apparteneva a un mercante che aveva prestato giuramento al Sommo Signore. Liandrin avrebbe preferito un palazzo — un giorno forse avrebbe preso il palazzo del re sul Maseta. Era cresciuta guardando con invidia i palazzi dei signori, e perché avrebbe dovuto accontentarsi di uno di quelli? — ma era più logico restare ancora nascosta. Impossibile che le sciocche di Tar Valon sospettassero che si trovavano a Tarabon, ma la Torre certamente stava ancora dando loro la caccia e i segugi di Siuan Sanche potevano essere ovunque.
Dei cancelli si aprivano su una piccola corte, senza finestre se non al piano superiore. Lasciando le guardie e i portatori là, si affrettò a entrare. Il mercante aveva procurato loro alcuni servitori, tutti fedeli al Sommo signore aveva assicurato, ma appena sufficienti per provvedere a undici donne che raramente uscivano. Una ragazza bella e robusta con un treccia nera, di nome Gyldin, stava spazzando le mattonelle rosse e bianche dell’entrata quando giunse Liandrin.
«Dove sono le altre?» chiese.
«Nella ritirata anteriore.» Gyldin indicò verso le porte con il doppio arco a destra di Liandrin come se questa potesse non sapere dov’era.
Liandrin serrò le labbra. La donna non le aveva fatto la riverenza e non aveva usato nessun titolo in forma di rispetto. Non sapeva chi realmente fosse Liandrin, ma certamente sapeva che era in una posizione abbastanza elevata da dare ordini ed essere obbedita, da spedire la famiglia di quel mercante grasso in qualche stamberga. «Tu in teoria dovresti pulire, vero? Non dovresti stare in giro a ciondolare. Be’, pulisci! C’è polvere ovunque. Se stasera trovo un granello di polvere, brutta vacca, ti farò frustare!» Quindi strinse i denti. Aveva imitato per così tanto tempo il modo di parlare di nobili e benestanti da dimenticare che suo padre aveva venduto frutta al mercato, eppure nei momenti di rabbia il linguaggio volgare le tornava alla bocca. Troppa tensione. Troppa attesa. Con un ultimo aggressivo «Lavora!» entrò nella stanza e si sbatté la porta alle spalle.
Le altre non erano tutte presenti, cosa che la irritò anche di più. Eldrith Inondar, seduta dietro a un tavolo intarsiato di lapislazzuli sotto a un arazzo appeso a una parete bianca intonacata, stava raccogliendo con cura degli appunti da un manoscritto rovinato, a tratti pulendo con fare assente il pennino sulla manica del vestito di lana scura. Marrilin Gemalphin stava seduta accanto a una delle strette finestre, gli occhi azzurri sognanti che fissavano la piccola fontana zampillare nella corte, grattando pigramente le orecchie di un gatto rosso e apparentemente inconsapevole dei peli che restavano attaccati al vestito di seta verde. Lei ed Eldrith erano entrambe Marroni, ma se Marrilin scopriva che Eldrith era il motivo per cui i gatti randagi che portava a casa continuavano a scomparire, ci sarebbero stati problemi.
Erano state Marroni. A volte era difficile ricordare che non lo erano più, o che lei non era più una Rossa. Molto di ciò che le aveva evidenziate come appartenenti alle vecchie Ajah rimaneva, anche ora che erano apertamente impegnate con la Nera. Per esempio le due ex Verdi. La donna dalla pelle ramata e il collo da cigno, Jeaine Caide, indossava il più sottile abito di seta che era riuscita a trovare — oggi bianco — e rideva sostenendo che gli abiti dovevano bastare, visto che non c’era nulla di disponibile a Tarabon per attirare l’attenzione di un uomo. Jeaine era dell’Arad Doman. Le donne di quel posto erano note per i loro abiti scandalosi. Asne Zeramene, con gli occhi scuri a mandorla e il naso grande, sembrava quasi modesta con l’abito grigio chiaro, tagliato semplicemente e a collo alto, ma Liandrin l’aveva sentita rimpiangere più di una volta di essersi lasciata indietro i Custodi.
Per quanto riguardava Rianna Andomeran... i capelli neri con una striatura totalmente bianca sopra l’orecchio sinistro incorniciavano un viso con la fredda arroganza che solamente alcune bianche potevano assumere.
«È fatta» annunciò Liandrin. «Jaichim Carridin porterà i Manti Bianchi nel Palazzo del Panarca e lo occuperà per noi. Naturalmente non sa ancora che avremo ospiti.» Vi furono alcune smorfie; cambiare Ajah non aveva certamente alterato i sentimenti nei confronti di uomini che odiavano le donne che potevano incanalare. «C’è un fatto interessante. Credeva che fossi andata lì per giustiziarlo. Per non essere riuscito a uccidere Rand al’Thor.»
«Non ha senso» osservò Asne aggrottando le sopracciglia. «Dobbiamo legarlo, controllarlo, ma non ucciderlo.» Rise improvvisamente, una risata bassa e morbida, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Se ci fosse un modo per controllarlo, non mi dispiacerebbe legarlo a me. È un giovane di bell’aspetto, dal poco che ho visto.» Liandrin tirò su con il naso, non le piacevano affatto gli uomini.
Rianna scosse il capo preoccupata. «Ha un senso invece, e preoccupante. Gli ordini della Torre erano chiari, ma è anche chiaro che Carridin ne ha altri. Posso solo supporre che fra i Reietti ci sia disaccordo.»
«I Reietti» mormorò Jeaine, stringendo forte le braccia. La sottile seta bianca divenne anche più rivelatrice attorno ai seni. «Che bene possono portare le promesse che governeremo il mondo quando il Sommo Signore ritornerà, se restiamo schiacciate da una guerra fra i Reietti prima che accada? Qualcuna di voi crede che riusciremmo ad affrontare uno qualsiasi di loro?»
«Fuoco malefico.» Asne si guardò intorno, gli occhi scuri a mandorla avevano un’espressione di sfida. «Il fuoco malefico distruggerebbe anche uno dei Reietti. E siamo in grado di produrlo.» Uno dei ter’angreal che avevano rubato alla Torre, una verga nera scanalata lunga un passo, serviva a quello scopo. Nessuna sapeva perché era stato ordinato loro di prenderla, nemmeno Liandrin. La stessa cosa valeva per troppi altri ter’angreal, rubati perché era stato ordinato senza che fossero state fornite ragioni, ma alcuni ordini andavano eseguiti e basta. Liandrin avrebbe voluto prendere anche un angreal.
Jeaine tirò su con il naso. «Se qualcuna di noi può controllarlo. O avete dimenticato che la sola prova che abbiamo tentato mi ha quasi uccisa? E ha provocato un buco su entrambe le fiancate della nave prima che riuscissi a bloccarlo? Ci sarebbe servito a molto annegare ancor prima di raggiungere Tanchico.»
«Che bisogno abbiamo del fuoco malefico?» chiese Liandrin. «Se riusciamo a controllare il Drago Rinato, lasciate che i Reietti pensino a come vedersela con noi.» Di colpo divenne consapevole di un’altra presenza nella stanza. La donna di nome Gyldin che spolverava una sedia intarsiata in un angolo. «Che cosa ci fai qui, donna?»
«Pulisco.» La donna con la treccia nera si raddrizzò con fare indifferente. «Mi hai detto di pulire.»
Liandrin quasi la colpì con il Potere. Quasi. Ma Gyldin certamente non sapeva che erano Aes Sedai. Quanto aveva sentito di quel discorso? Nulla di importante. «Andrai dal cuoco» le disse Liandrin con fredda furia «e gli dirai che deve prenderti a cinghiate. Molto forte! E non mangerai nulla fino a quando la polvere non sarà sparita tutta.» Di nuovo. La donna l’aveva fatta parlare ancora come una donna grossolana.
Marillin si alzò, strofinando il naso contro quello del gatto, e passò la creatura a Gyldin. «Fai in modo che abbia una ciotola di latte quando il cuoco avrà finito con te. E un po’ di quell’ottimo agnello. Taglialo a pezzi piccoli, non gli sono rimasti molti denti, povera bestiola.» Gyldin la guardò senza battere ciglio e questa aggiunse: «C’è qualcosa che non capisci?»
«Ho capito.» Le labbra di Gyldin erano tese. Forse alla fine aveva capito; era una cameriera, non una loro pari.
Liandrin attese un momento dopo che la donna se ne fu andata con il gatto fra le braccia, quindi aprì di colpo una delle altre porte. L’ingresso era vuoto. Gyldin non stava origliando. Non si fidava di quella donna. Ma in realtà non riusciva a pensare a nessuno di cui si fidasse.
«Dobbiamo occuparci di ciò che ci preoccupa» puntualizzò tesa, chiudendo la porta. «Eldrith, hai trovato un nuovo indizio fra quelle pagine? Eldrith?»
La donna paffuta sobbalzò, quindi le guardò battendo le palpebre. Era la prima volta che alzava la testa dal manoscritto giallo e rovinato. Sembrò sorpresa di vedere Liandrin. «Cosa? Indizi? Oh, no. È già difficile accedere alla biblioteca del re. Se portassi via anche una sola pagina il bibliotecario se ne accorgerebbe immediatamente. Ma senza non scoprirei nulla. Quel posto è un labirinto. No, questo l’ho trovato da un libraio vicino al palazzo del re. È un trattato interessante su...»
Abbracciando saidar, Liandrin fece cadere le pagine in terra. «A meno che non siano un trattato su come controllare Rand al’Thor, che brucino! Che cosa hai scoperto di quanto stiamo cercando?»
Eldrith guardò le carte sparpagliate. «Be’, si trova nel Palazzo del Panarca.»
«Questo lo hai scoperto due giorni fa.»
«E deve trattarsi di un ter’angreal. Controllare qualcuno che può incanalare richiede Potere, dal momento che si tratta di un utilizzo specifico: deve essere un ter’angreal. Lo troveremo nella sala delle esposizioni, o forse nella collezione del Panarca.»
«Qualcosa di nuovo, Eldrith.» Sforzandosi Liandrin rese la voce meno stridula. «Hai scoperto qualsiasi cosa che sia nuova? Una qualsiasi?»
La donna dal viso rotondo batté le palpebre incerta. «Be’... no.»
«Non importa» intervenne Marrilin. «Fra qualche giorno, quando sarà eletta la preziosa Panarca, potremo iniziare le ricerche, e a costo di dover frugare in ogni candelabro, lo troveremo. Ci siamo quasi, Liandrin. Metteremo Rand al’Thor al guinzaglio e gli insegneremo a sedersi e a rotolarsi.»
«Oh, sì» esclamò Eldrith felice. «Al guinzaglio.»
Liandrin lo sperava. Era stanca di aspettare e di nascondersi. Che il mondo la conoscesse. Che si inginocchiassero come le era stato promesso la prima volta che aveva rinnegato i vecchi giuramenti per i nuovi.
Egeanin si accorse di non essere sola non appena entrò nella sua piccola casa dalla porta della cucina, ma si tolse noncurante la maschera e lasciò cadere il sacco di iuta sul tavolo, avviandosi verso un secchio d’acqua posto accanto al camino di mattoni. Quando si inchinò per prendere il mestolo di rame, diresse la mano destra verso una cavità dove due mattoni erano stati rimossi, dietro al secchio. Si alzò di scatto con una piccola balestra in mano. Non più lunga di trenta centimetri, era poco potente da lontano, ma la teneva sempre carica e la sostanza scura che macchiava la punta di acciaio del dardo avrebbe ucciso in un attimo.
Se l’uomo che era appoggiato con fare indifferente nell’angolo aveva visto la balestra, non lo manifestava apertamente. Aveva i capelli chiari e gli occhi azzurri, di mezza età e di bell’aspetto. Anche se, per i suoi gusti, troppo magro. Chiaramente l’aveva guardata attraversare il piccolo cortile dalle inferriate delle finestre accanto a lui. «Credi che io sia una minaccia?» chiese dopo un momento.
Riconobbe l’accento familiare di casa, ma non abbassò la balestra. «Chi sei?»
In risposta l’uomo infilò due dita nel sacchetto appeso alla cintura — quindi poteva vedere — e ne estrasse qualcosa di piccolo e piatto. Egeanin gli fece cenno di appoggiarla sul tavolo e farsi indietro.
Solo dopo che fu tornato nell’angolo si avvicinò abbastanza per raccogliere l’oggetto. Senza mai distogliere occhi o balestra da lui, lo sollevò dove poteva vedere. Una piccola placca d’avorio bordata d’oro, con una torre e un corvo incisi sulla superficie. Gli occhi del corvo erano due zaffiri neri. Un corvo, simbolo della famiglia imperiale, la Torre dei Corvi, simbolo della giustizia imperiale.
«Normalmente questo sarebbe sufficiente» spiegò Egeanin «ma siamo lontani da Seanchan, in una terra dove le cose bizzarre sono quasi un fatto normale. Quale altra prova puoi offrire?»
Sorridendo divertito si tolse la giacca, slacciò la camicia e se la tolse. Su ogni spalla aveva tatuati il corvo e la torre.
La maggior parte dei Cercatori di Verità aveva tatuato il simbolo del corvo oltre a quello della torre, e nessuno che avesse osato rubare la placca dei Cercatori avrebbe osato tatuarsi a quel modo. Avere il marchio del corvo significava essere proprietà della famiglia imperiale. C’era una vecchia storia di un giovane sciocco signore e una dama che si erano fatti tatuare quando erano ubriachi, circa trecento anni fa. Quando l’imperatrice lo aveva scoperto li aveva fatti condurre alla Corte delle Nove Lune e aveva fatto loro pulire i pavimenti. Questo tipo poteva essere uno dei loro discendenti. Il marchio del corvo era per sempre.
«Le mie scuse, Cercatore» disse Egeanin abbassando la balestra. «Perché sei qui?» Non gli aveva chiesto il nome, qualsiasi cosa avesse risposto poteva e non poteva essere vera.
Lasciò la placca fra le mani di Egeanin mentre si rivestiva senza fretta. Un promemoria subdolo. Lei era un capitano e lui una proprietà, ma era anche un Cercatore e per legge poteva interrogarla in base solo alla sua autorità. Per legge l’uomo aveva il diritto di mandarla a comperare la corda per legarla mentre la interrogava e si sarebbe aspettato che la donna tornasse con la corda. Fuggire da un Cercatore era un crimine. Rifiutarsi di cooperare era un crimine. Egeanin non aveva mai preso in considerazione un’azione criminale in tutta la sua vita, non più di quanto aveva considerato il tradimento del Trono di Cristallo. Ma se avesse posto le domande sbagliate, preteso le risposte sbagliate... Aveva la balestra ancora a portata di mano e Cantorin era lontana. Pensieri selvaggi. Pensieri pericolosi.
«Io servo la Somma signora Suroth e il Corenne, per l’imperatrice» intonò l’uomo. «Sto controllando i progressi degli agenti che la Somma signora ha piazzato in queste terre.»
Controllando? Cosa c’era da controllare, e perché un Cercatore? «Non mi è stato riferito nulla dalle navi corriere.» Il sorriso dell’uomo si fece più profondo ed Egeanin arrossì. Ovviamente gli equipaggi non avrebbero parlato di un Cercatore. Malgrado ciò l’uomo rispose mentre si abbottonava la camicia.
«Le navi corriere non possono essere messe in pericolo con i miei viaggi. Ho navigato sul veliero di un contrabbandiere locale, un uomo che si chiama Bayle Domon. La sua imbarcazione si ferma ovunque a Tarabon, nell’Arad Doman e nel mezzo.»
«Ho sentito parlare di lui» rispose tranquilla. «È andato tutto bene?»
«Adesso sì. Sono contento che almeno tu abbia compreso bene le tue istruzioni. Fra tutti, solo i Cercatori ci sono riusciti. È increscioso che non ci siano più Cercatori con l’Hailene.»
Mettendosi la giacca in spalla raccolse la placca del cercatore dalle mani di Egeanin. «C’è stato un certo imbarazzo circa il ritorno delle sul’dam disertaci. Non devono diventare di dominio pubblico. Molto meglio se spariscono semplicemente.»
Solo perché aveva avuto alcuni momenti per pensare Egeanin riuscì a mantenere un’espressione uniforme. Le era stato riferito che le sul’dam erano state lasciate indietro durante la fuga precipitosa da Falme. Probabilmente qualcuna aveva disertato. Le sue istruzioni, impartitele dalla Somma signora Suroth in persona, erano state di far tornare tutte quelle che riusciva a trovare, che volessero o no e, qualora non fosse stato possibile, eliminarle. L’ultima era sembrata solamente l’alternativa finale. Fino a questo momento.
«Mi dispiace che in queste terre non conoscano il kaf» osservò l’uomo, sedendosi a tavola. «Anche a Cantorin solo il Sangue ha ancora il kaf. Almeno era così quando sono partito. Forse da allora sono arrivate delle navi con i rifornimenti da Seanchan. Il tè andrà bene. Preparamelo.»
Egeanin quasi lo buttò giù dalla sedia. L’uomo era una proprietà. E un Cercatore. Egeanin preparò il tè e glielo servì, rimanendo in piedi vicino alla sua sedia con la teiera in mano per mantenere la tazza piena. Fu sorpresa che l’uomo non le avesse chiesto di indossare un velo e danzare per lui su un tavolo.
Alla fine le fu permesso di sedersi, dopo aver preso penna, inchiostro e carta, ma solo per disegnare mappe di Tanchico e le sue difese e ogni altra città e villaggio che conosceva, fino all’ultimo. Egeanin elencò le varie forze in campo, tutto quello che sapeva della loro potenza e lealtà, quanto aveva dedotto del loro schieramento.
Quando ebbe terminato, l’uomo si mise in tasca tutte le carte, la istruì di inviare il contenuto del sacco di iuta con la successiva nave corriere e se andò con un sorriso divertito, avvisando che avrebbe potuto controllare i suoi progressi tra poche settimane.
Egeanin rimase seduta a lungo dopo che l’uomo se ne fu andato. Ogni mappa che aveva disegnato, ogni lista che aveva compilato, tutti duplicati di copie che aveva spedito da tempo con le navi corriere. Farglielo fare di nuovo mentre guardava poteva essere una punizione per averlo costretto a mostrarle i tatuaggi. I Sorveglianti della Morte ostentavano i loro corvi, i Cercatori lo facevano raramente. Poteva essere quello. Almeno non era sceso in cantina prima del suo arrivo. O forse sì? Era semplicemente rimasto ad aspettarla per parlare?
Il grosso lucchetto di ferro davanti alla porta sul corridoio subito oltre la cucina sembrava intonso, ma si raccontava che i Cercatori sapessero come aprire i lucchetti anche senza chiavi. Prendendo la chiave dal sacchetto appeso alla cintura, aprì il lucchetto e scese la stretta scala.
Una lampada su uno scaffale illuminava il pavimento impolverato della cantina. Solo quattro pareti di mattoni, prive di qualsiasi cosa potesse servire per fuggire. Nell’aria era sospeso il vago odore del secchio dell’acqua sporca. Dal lato opposto alla lampada, una donna in un abito sudicio stava seduta sconsolata su alcune rozze coperte di lana. Sollevò il capo quando sentì i passi di Egeanin, gli occhi scuri erano spaventati e imploranti. Era la prima sul’dam che Egeanin aveva trovato. La prima e l’unica. Egeanin aveva smesso di cercare dopo aver trovato Bethamin. E da allora la donna era rimasta rinchiusa in cantina, mentre le navi corriere andavano e venivano.
«È sceso qualcuno?» chiese Egeanin.
«No. Ho sentito dei passi di sopra, ma... No.» Bethamin allungò le mani. «Ti prego, Egeanin. Questo è tutto un errore. Mi conosci da dieci anni. Toglimi queste cose.»
Attorno al collo aveva un collare d’argento, collegato da uno spesso guinzaglio d’argento a un braccialetto dello stesso metallo appeso a un gancio a qualche centimetro di distanza dalla testa. Glielo aveva messo quasi per sbaglio, solo per tenerla ferma qualche momento. A quel punto aveva cercato di abbattere Egeanin per fuggire.
«Se me lo porti, lo farò» rispose arrabbiata Egeanin. Era adirata per molte cose, ma non con Bethamin. «Porta l’a’dam qui e io lo rimuoverò.»
Bethamin rabbrividì e lasciò ricadere le mani. «È un errore» sussurrò. «Un terribile errore.» Ma non fece una mossa verso il braccialetto. Il primo tentativo di fuga l’aveva lasciata in preda alle contrazioni sul pavimento del piano superiore, stravolta dalla nausea, ed Egeanin si era sbalordita.
Le sul’dam controllavano le Damane, donne che potevano incanalare, usando l’a’dam. Era la Damane che poteva incanalare, non la sul’dam. Ma un a’dam poteva controllare solo una donna in grado di incanalare. Nessun’altra donna o nessun altro uomo — i giovani uomini che potevano incanalare venivano giustiziati — solo una donna in grado di incanalare. Se a una donna così veniva messo il collare non poteva fare più di pochi passi senza il braccialetto al polso di una sul’dam a completare il legame.
Egeanin si sentiva molto stanca quando risalì le scale e richiuse la porta. Anche lei voleva del tè, ma il poco che il Cercatore aveva lasciato era freddo e non aveva voglia di prepararne altro. Invece si sedette ed estrasse l’a’dam dal sacco di iuta. Per lei era solamente una fine lavorazione d’argento, non poteva usarlo e non poteva farle del male, a meno che qualcuno non l’avesse usato per colpirla.
Anche il solo collegarsi con un a’dam, negando la sua capacità di controllarlo, era abbastanza da farle correre dei brividi lungo la schiena. Le donne che potevano incanalare erano animali pericolosi, non persone. Erano state loro a provocare la Frattura del Mondo. Dovevano essere controllate, o avrebbero trasformato tutti in loro proprietà. Questo era quanto le era stato insegnato, ciò che era stato insegnato a Seanchan per un millennio. Strano che non fosse accaduto anche qui. No. Quella era una pericolosa e sciocca linea di pensiero.
Infilando l’a’dam nel sacco, si mise a pulire la tazza e la teiera per distrarsi. Le piaceva l’ordine, e trasse una piccola soddisfazione nel pulire la cucina. Prima di accorgersene si stava preparando una tazza di tè. Non voleva pensare a Bethamin, e anche questo era pericolosamente stupido. Tornando al tavolo, mise nel tè scuro quanto più miele possibile. Non era kaf, ma avrebbe dovuto accontentarsi.
Malgrado le negazioni e le preghiere, Bethamin poteva incanalare. Ne erano in grado anche altre sul’dam? Per quello la Somma signora Suroth voleva far uccidere quelle che erano state lasciate a Falme? Era impensabile. Impossibile. Le prove annuali eseguite in tutta Seanchan trovavano ogni ragazza che avesse la scintilla dell’incanalare. Ognuna veniva eliminata dal gruppo dei cittadini, dai registri familiari e portata via per divenire Damane. Le stesse prove individuavano le ragazze che potevano portare il bracciale delle sul’dam. Nessuna donna sfuggiva alle prove annuali fino a quando non fosse stata troppo grande perché il potere si manifestasse. Come poteva anche una sola ragazza essere presa come sul’dam quando invece era una Damane? Eppure in cantina c’era Bethamin, imprigionata da un a’dam come da un’ancora.
Una cosa era certa. Le possibilità qui erano mortali. Questo fatto coinvolgeva il Sangue e i Cercatori. Forse anche il Trono di Cristallo. La Somma signora Suroth poteva osare nascondere una tale conoscenza all’imperatrice? Un semplice capitano di una nave poteva morire gridando per uno sguardo diretto nel modo sbagliato in tale compagnia, o ritrovarsi a essere una proprietà per un capriccio. Doveva saperne di più se sperava di evitare la Morte delle Diecimila Lacrime. Tanto per iniziare significava elargire altro denaro a Gelb e agli altri scansafatiche come lui, trovare altre sul’dam e vedere se un a’dam poteva trattenerle. Oltre a quello... Oltre a quello navigava lungo scogliere non segnate sulle carte geografiche senza un guardacoste sul ponte.
Toccando la balestra ancora sul tavolo caricata con il dardo mortale, si rese conto che qualcos’altro era certo. Non avrebbe lasciato che il Cercatore la uccidesse. E non solo per aiutare la Somma signora Suroth a mantenere un segreto. Forse non c’era un motivo. Era un pensiero terribilmente vicino al tradimento, ma non voleva andare via.