24 Rhuidean

Il sassolino che Mat aveva in bocca ormai non lo aiutava più a produrre saliva. Sputandolo, si accovacciò accanto a Rand e fissò il muro grigio ondeggiante a forse trenta passi di fronte a loro. Nebbia. Sperava che almeno fosse più fresco. Anche un po’ d’acqua sarebbe stata gradita. Aveva le labbra screpolate. Si tolse il fazzoletto dal capo e si asciugò il viso, ma non c’era abbastanza sudore per bagnarlo. Non aveva più liquidi in corpo. Un posto dove sedersi. Si sentiva i piedi come salsicce cotte dentro agli stivali; per la verità si sentiva tutto cotto. La nebbia si estendeva a destra e a sinistra per più di un miglio e aumentava di volume sopra le loro teste come un dirupo torreggiante. Un precipizio di densa nebbia nel mezzo di un’arida valle aspra. Avrebbe dovuto esserci l’acqua.

Perché non evapora? si chiese. Non gli piaceva quel luogo. Scherzare con il Potere lo aveva trascinato in questo posto e adesso sembrava che dovesse giocarci nuovamente. Luce, volevo liberarmi dal Potere e dalle Aes Sedai, che io sia folgorato, lo voglio! Qualsiasi cosa andava bene pur di non entrare in quella nebbia, anche solo per un altro minuto. «Quella che ho visto correre era l’amica aiel di Egwene» gracchiò. Correre! In questo caldo. Solo pensarci mi fa aumentare il mal di piedi. «Aviendha. Qualunque sia il suo nome.»

«Se lo dici tu» rispose Rand studiando la nebbia. Parlava quasi avesse la bocca piena di polvere, il viso era bruciato e ondeggiava instabile dalla posizione accovacciata. «Ma cosa ci farebbe quaggiù? E nuda, per giunta?»

Mat lasciò cadere l’argomento. Rand non l’aveva vista — aveva appena tolto gli occhi dalla nebbia ondeggiante da quando avevano iniziato a ridiscendere la montagna — e credeva che nemmeno Mat l’avesse vista. Correva come una pazza e tenendosi alla larga dai due uomini. Diretta verso quella strana nebbia, così gli era parso. Rand non sembrava avere voglia di accedervi, non più di quanta ne avesse Mat che si chiedeva se aveva lo stesso brutto aspetto di Rand. Quando gli toccò la guancia, lui sobbalzò. Se lo aspettava.

«Abbiamo deciso di restarcene qui tutta la notte? Questa valle è molto profonda. Sarà buio in un paio d’ore. Forse allora sarà più fresco, ma non credo che mi piacerebbe incontrare qualsiasi cosa va in giro in questo posto di notte. Probabilmente leoni. Ho sentito dire che ci sono leoni qui nel deserto.»

«Sei sicuro di volerlo fare, Mat? Hai sentito cosa hanno detto le Sapienti. Potresti morire o impazzire. Puoi fare ritorno alle tende. Hai lasciato le borracce e le sacche dell’acqua sulla sella di Pips.»

Mat desiderava che Rand non glielo avesse ricordato. Meglio non pensare all’acqua. «Che io sia folgorato, no, non voglio. Devo entrare. Cosa mi dici tu? Non è abbastanza essere il maledetto Drago Rinato per te? Devi anche essere un maledetto capo clan Aiel? Perché ti trovi qui?»

«Devo Mat, devo.» La rassegnazione trapelò secca dalla sua voce, ma anche qualcos’altro. Un accenno di brama. L’uomo era davvero pazzo; voleva farlo.

«Rand, forse è una risposta che danno a tutti. Voglio dire quelle persone serpente, di recarsi nel Rhuidean. Forse dopotutto non dobbiamo essere qui.» Non ci credeva, ma con quella nebbia che lo fissava in volto...

Rand voltò il capo per guardarlo, senza parlare. Alla fine disse: «Non mi hanno mai menzionato il Rhuidean, Mat.»

«Oh, che io sia folgorato» borbottò. Voleva trovare un modo per passare nuovamente attraverso la soglia ritorta custodita a Tear. Mat estrasse distrattamente il marco d’oro di Tar Valon dalla tasca della giubba, lo fece rotolare sul dorso delle dita e lo ripose. Quella specie di rettili gli avrebbero fornito qualche altra risposta, che lo volessero o no. In qualche modo.

Senza aggiungere un’altra parola, Rand si alzò e si incamminò verso la nebbia, con passo malfermo e gli occhi fissi avanti a sé. Mat si affrettò a seguirlo. Che io sia folgorato. Che io sia folgorato, non voglio farlo, pensava Mat.

Rand si immerse dritto nella nebbia densa, ma Mat esitò un momento prima di seguirlo. In fondo doveva essere il Potere a mantenere la nebbia, con quel bordo che ribolliva ma non avanzava o arretrava di un centimetro. Il maledetto Potere e nessuna maledetta scelta. Quel primo passo fu un benedetto sollievo, fresco e umido; aprì la bocca per lasciare che l’umidità gli impregnasse la lingua. Altri tre passi e iniziò a preoccuparsi? Oltre la punta del naso poteva solamente vedere un grigio informe. Non riusciva a distinguere nemmeno un’ombra che potesse essere Rand. «Rand?» Il suono poteva benissimo non essere provenuto dalla sua bocca; le tenebre sembravano ingoiarlo prima che raggiungesse le proprie orecchie. Non era nemmeno più tanto sicuro della direzione che seguiva e se la ricordava sempre. Di fronte a lui poteva esserci qualsiasi cosa. O sotto ai piedi. Non riusciva a vederli; la nebbia lo avvolgeva completamente fino alla vita. Riprese a camminare incurante. Di colpo si ritrovò accanto a Rand in una particolare luce priva di ombre.

La nebbia creava un’enorme cupola di vuoto che nascondeva il cielo, con la superficie interna che ribolliva e risplendeva di un pallido colore blu. Il Rhuidean non era grande come Tear o Caemlyn ma le strade vuote erano ampie come non ne aveva viste mai, con vaste strisce di terra spoglia nel centro come se una volta ci fossero stati alberi e grandi fontane con le statue. Enormi edifici fiancheggiavano le vie dei palazzi dalle insolite fiancate piatte di marmo, cristallo e vetro, che risalivano per centinaia di metri in scalinate o mura a filo. Non era visibile nemmeno un edificio che fosse piccolo, nulla che poteva essere stato una semplice taverna, una locanda o una stalla. Solo palazzi immensi, con colonne splendenti spesse quindici metri, che risalivano per almeno trenta, rosse, bianche o blu e grandi torri, scanalate o a spirali, alcune che perforavano le nuvole splendenti.

Per quanto fosse grandiosa, la città non era mai stata finita. Molte di quelle strutture enormi erano rimaste abbandonate. Il vetro colorato creava immagini in alcune immense finestre, uomini e donne maestosi e sereni, alti nove metri o più, albe e cieli stellati; altre erano vuote, incomplete e abbandonate da molto tempo. Nelle fontane non c’era acqua. Il silenzio copriva completamente la città come la cupola di nebbia. L’aria era più fresca che fuori, ma altrettanto arida. La polvere raschiava fra gli stivali e la pavimentazione di pietra chiara.

Mat corse comunque presso la fontana più vicina, giusto per fare un tentativo, e si affacciò dal bordo alto che gli arrivava alla vita. Tre donne svestite, alte il doppio di lui che sostenevano un pesce curioso sulle teste scrutavano in un ampio bacino polveroso non più asciutto della sua bocca.

«Naturalmente» esclamò Rand alle sue spalle «avrei dovuto pensarci prima.»

Mat si voltò. «Pensare a cosa?» Rand stava fissando la fontana, scosso da una risata silente. «Controllati, Rand. Non puoi essere impazzito nell’ultimo minuto. Avresti dovuto pensare a cosa?»

Un gorgoglio vuoto si materializzò nella fontana davanti agli occhi di Mat. Di colpo l’acqua zampillò dalla bocca del pesce, un rivolo spesso come la sua gamba. Si arrampicò nella fontana e corse a mettersi in piedi sotto alla cascata. Con la testa reclinata e la bocca aperta. Fredda, dolce acqua, abbastanza fredda da farlo rabbrividire, più dolce del vino. Si bagnò i capelli, la giubba, le brache. Bevve fino a quando credette di annegare, finalmente allontanandosi instabile per appoggiarsi contro la gamba di pietra di una delle donne.

Rand intanto stava ancora in piedi a fissare la fontana, con il volto rosso, le labbra screpolate, e rideva piano. «Niente acqua, Mat. Hanno detto che non potevamo portarla, ma non hanno detto nulla riguardo a quella presente qui.»

«Rand, non bevi?»

Rand sobbalzò, quindi entrò nell’acqua che adesso gli arrivava alle caviglie e si andò a mettere nel punto in cui era stato Mat bevendo allo stesso modo, con gli occhi chiusi e la testa reclinata per lasciare che l’acqua scorresse su di lui.

Mat lo guardava preoccupato. Non esattamente pazzo; non ancora. Ma per quanto tempo Rand sarebbe rimasto là in piedi ridendo mentre la sete gli avrebbe tramutato la gola in pietra se lui non gli avesse parlato? Mat lo lasciò lì e si arrampicò fuori della fontana. Parte dell’acqua che impregnava gli indumenti era colata negli stivali. Ignorò il rumore che facevano a ogni passo; non era certo che sarebbe riuscito a rimetterseli se se li fosse tolti ora. Inoltre era una bella sensazione.

Osservando la città, Mat si chiese cosa ci stava a fare in quel posto. Quelle persone avevano detto che altrimenti sarebbe morto, ma era abbastanza trovarsi nel Rhuidean? Devo fare qualcosa? Cosa? si chiese.

Le strade vuote e i palazzi parzialmente costruiti non proiettavano ombre nella pallida luce azzurra. Un formicolio gli crebbe fra le scapole. Tutte quelle finestre vuote che lo guardavano, tutte quelle linee interrotte da mura spaccate e abbandonate. Poteva nascondersi qualsiasi cosa in un posto come questo e qualsiasi cosa poteva essere...

Una qualsiasi maledetta cosa, si disse. Desiderava avere ancora con sé i pugnali che aveva nascosto negli stivali. Ma queste donne, queste Sapienti, lo avevano fissato come se sapessero che li stava trattenendo. E avevano incanalato, una o tutte. Non era saggio mettersi dalla parte del torto con donne che potevano incanalare, se era possibile evitarlo. Che io sia folgorato se posso farla finita con le Aes Sedai, non chiederò mai un’altra cosa. Be’, in ogni caso non per molto tempo. Luce, mi chiedo se qualcosa si stia nascondendo qui, pensava.

«Il cuore dev’essere da quella parte, Mat.» Rand stava uscendo dalla fontana grondante.

«Il cuore?»

«Le Sapienti hanno detto che devo arrivare al cuore. Dovevano alludere al centro della città.»

Rand guardò la fontana e di colpo il flusso d’acqua si ridusse a un rivoletto, quindi si fermò. «C’è un oceano di ottima acqua qua sotto. In profondità. Così profonda che non l’avevo quasi trovata. Se potessi farla risalire... Non c’è bisogno però di sprecarla. Potremo bere abbondantemente prima di andare via.»

Mat cambiò posizione a disagio. Idiota! Da dove pensavi che provenisse? È naturale che abbia maledettamente incanalato. Credevi che avesse incominciato a fluire nuovamente dopo la Luce solo sa quanto tempo? rifletté Mat.

«Il centro della città, naturalmente. Fai strada.»

Camminarono in mezzo all’ampia strada, lungo i margini della striscia di terra, oltrepassarono altre fontane, alcune con solamente la vasca e la base di marmo dove avrebbero dovuto essere deposte le statue. Niente era rotto nella città, era solo... incompleta. I palazzi si stagliavano da entrambi i lati come rupi. Doveva esserci qualcosa all’interno. Mobili, forse. Se non erano marciti. Forse oro. Pugnali. Non si sarebbero arrugginiti con questo clima arido, non importa per quanto tempo erano stati lì.

Ci potrebbe essere un maledetto Myrddraal nascosto qui per quanto ne sappiamo. Luce, perché devo pensare a una cosa simile? continuava a ripetersi. Se solamente avesse pensato a portarsi un bastone da combattimento quando aveva lasciato la Pietra. Forse avrebbe potuto convincere le Sapienti che era un bastone da passeggio. Non serviva a nulla pensarci adesso. Un albero sarebbe andato bene, se avesse avuto modo di tagliarne un buon rama e lavorarlo., Di nuovo un se. Si chiese se chiunque avesse costruito questa città fosse anche riuscito a far crescere alberi. Aveva lavorato nella fattoria del padre abbastanza a lungo per riconoscere la buona terra, quando la vedeva. Questi lunghi nastri di terra esposti erano poveri, non andavano bene per far crescere nulla che non fosse erbaccia, forse nemmeno quella. Adesso non c’era nulla.

Dopo aver camminato per circa un chilometro, la strada culminò improvvisamente in una grande piazza. Forse larga quanto la distanza che avevano camminato, e circondata da quei palazzi di marmo e cristallo. Incredibilmente un albero cresceva al centro della grande piazza, alto almeno trenta metri e con i rami fronzuti estesi sopra la pavimentazione polverosa di pietra bianca, vicino a quelli che sembravano cerchi concentrici di chiare e brillanti colonne di vetro, sottili come aghi se confrontate con la loro altezza, vicina a quella dell’albero. Si sarebbe chiesto come faceva un albero a crescere in questo luogo, senza luce solare, se non fosse stato troppo impegnato a fissare lo sbalorditivo miscuglio che riempiva il resto della piazza.

Un sentiero proveniva da ogni strada che Mat poteva vedere, dritto verso l’anello di colonne di vetro, ma negli spazi che le intervallavano, erano piazzate casualmente alcune statue, grandi come un uomo o più piccole, fino alla metà, di pietra, cristallo o metallo, direttamente sul terreno. Erano tutte... All’inizio non sapeva come chiamarle. Un anello piatto argentato, largo tre metri e sottile come una lama. Un basamento di cristallo affusolato alto un passo che forse era stato il piedistallo di una delle statue più piccole. Una spirale di metallo nero brillante, sottile come una lancia e non più lunga, eppure in piedi su un’estremità come se fosse piantata nel terreno. Centinaia di oggetti, forse migliaia, di ogni forma immaginabile, qualsiasi materiale esistente, punteggiavano l’immensa piazza a una distanza fra loro di non più di tre metri e mezzo.

Era quella lancia di metallo nero, in quella posizione così innaturale, che gli suggerì di colpo di cosa doveva trattarsi. Un ter’angreal. Qualcosa che aveva comunque a che fare con il Potere. Almeno alcuni di quegli oggetti. Anche quella soglia ritorta alla Pietra nella Grande Proprietà non era crollata.

Era pronto a fare marcia indietro in quell’istante, ma Rand proseguì, guardando a malapena agli oggetti allineati lungo il suo percorso. Rand fece una pausa davanti a due figurine che meritavano appena un posto fra gli altri oggetti. Due statuette alte forse trenta centimetri, un uomo e una donna, ognuna con una sfera di cristallo sul palmo della mano. Sì inchinò parzialmente per toccarle, ma si raddrizzò così velocemente che Mat pensò quasi di esserselo immaginato.

Dopo un minuto Mat lo seguì correndo per raggiungerlo. Più si avvicinavano allo scintillante cerchio di colonne, più diventava teso. Quelle cose che li circondavano avevano a che fare con il Potere, come anche le colonne. Lo sapeva. Quelle impossibili aste alte e lucenti risplendevano di una luce bluastra, abbagliando gli occhi. Tutto quello che hanno detto era che dovevo venire qui. Be’, sono qui. Non hanno detto nulla circa il maledetto Potere.

Rand si fermò così di colpo che Mat lo oltrepassò di tre passi prima di accorgersene, poi vide che stava fissando l’albero. L’albero. Anche Mat si mosse verso di esso come se ne fosse attratto. Nessun albero aveva quelle foglie a tre punte. Solamente uno; un albero leggendario.

«Avendesora» mormorò Rand. «L’Albero della Vita. Si trova qui.»

Sotto ai rami distesi, Mat balzò per prendere una di quelle foglie; le dita allungate arrivarono appena a tre passi di distanza da quella più bassa. Si accontentò di camminare sotto a quel soffitto di foglie e appoggiarsi contro lo spesso tronco. Dopo un momento scivolò per sedersi. Le vecchie storie erano vere. Si sentiva... appagato. In pace. Bene. Anche i piedi non gli davano più tanto fastidio. Rand si sedette vicino a lui a gambe incrociate. «Ora posso credere alle storie. Ghoetam, seduto sotto l’albero di Avendesora per quarant’anni allo scopo di ottenere la saggezza. Adesso ci credo.»

Mat reclinò la testa contro il tronco. «Non so però se credere che gli uccelli mi porteranno il cibo. Prima o poi devi alzarti.» Ma almeno un’ora così non sarà male. Anche tutto il giorno, si disse. «In ogni caso non ha senso. Che tipo di cibo potrebbero procurarsi qui gli uccelli? Quali uccelli?»

«Forse il Rhuidean non è sempre stato così, Mat. Forse... non lo so. Forse allora Avendesora era altrove.»

«Altrove» ripeté Mat. «Non mi dispiacerebbe trovarmi altrove.» Però è una bella sensazione, pensò. «Altrove?»

Rand si voltò per guardare le alte colonne sottili che rilucevano così vicine. «Il dovere è più pesante di una montagna» sospirò.

Era parte di un proverbio che aveva imparato nelle Marche di Confine. «La morte è più leggera di una piuma, il dovere è più pesante di una montagna.» A Mat sembrava un’autentica idiozia, ma Rand si stava alzando. Mat lo imitò con riluttanza. «Cosa credi che troveremo lì?»

«Credo che da qui debba proseguire da solo» rispose lentamente Rand.

«Che vuoi dire?» domandò Mat. «In fondo sono venuto fin qui, no? Non me ne andrò adesso.» Ma quanto mi piacerebbe! pensò.

«Non è questo, Mat. Se entri là dentro, o ne esci che sei un capo clan, o muori. O forse impazzisci. Non credo che ci siano altre scelte. A meno che non siano le Sapienti a entrarvi.»

Mat esitò. Morire e vivere nuovamente. Questo era quanto gli avevano detto. Ma non aveva alcuna intenzione di provare a essere un capo clan Aiel; questi probabilmente lo avrebbero trafitto con le lance. «Lo lasceremo alla fortuna» rispose, estraendo dalla tasca il marco di Tar Valon. «Sta diventando la mia moneta fortunata. Fiamma, entro con te; testa, resto fuori.» Lanciò velocemente la moneta, prima che Rand potesse obiettare.

Per un qualche motivo non riuscì a riprenderla; il marco batté sulle dita di Mat, cadde in terra, rimbalzò due volte... e ricadde lungo il bordo.

Mat fissò Rand con sguardo accusatore. «Fai questo tipo di cose di proposito? Non riesci a controllarti?»

«No.» La moneta cadde, mostrando un volto di donna dall’età indefinita, circondato da stelle. «Sembra che resterai qua fuori, Mat.»

«Sei stato tu a...?» Desiderava che Rand non incanalasse nelle sue vicinanze. «Oh, che io sia folgorato, se vuoi che resti qui, lo farò.» Afferrando la moneta, la ripose nuovamente in tasca. «Ascolta, adesso entri, qualsiasi cosa tu debba fare, e poi vieni fuori. Voglio lasciare questo posto e non ho intenzione di rimanere qui in piedi per sempre girandomi i pollici in tua attesa. Non pensare che ti seguirò, per cui sii prudente.»

«Non penserei una simile cosa di te, Mat» rispose Rand.

Mat lo fissò sospettoso. Perché sorrideva? «Basta che hai capito che non lo farò. Aaah, vai avanti e diventa un maledetto capo clan Aiel. Hai la faccia per farlo.»

«Non entrare là dentro, Mat. Qualsiasi cosa accada, non farlo.» Attese che Mat annuisse prima di voltarsi.

Mat rimase in piedi a guardarlo che camminava fra le colonne lucenti. Nel bagliore semovente sembrò svanire quasi immediatamente. Uno scherzo dell’occhio, si disse Mat. Ecco cos’era. Un maledetto scherzo visivo.

Si incamminò fra la schiera di oggetti tenendosene bene alla larga, nel tentativo di scorgere Rand. «Fai attenzione a cosa cavolo farai» gridò. «Lasciami da solo nel deserto con Moiraine e i maledetti Aiel e ti strangolerò, Drago Rinato o no!» Dopo un minuto aggiunse: «Non verrò a cercarti là dentro se ti cacci in qualche guaio! Mi hai sentito?» Non giunse risposta. Se non riesce entro un’ora...

«È pazzo semplicemente a entrarci» mormorò. «Be’, non sarò io a togliergli le patate dal fuoco. È lui quello che può incanalare. Se infila la testa in un nido di calabroni, può benissimo trovare la maledetta via d’uscita incanalando.» Gli do un’ora, pensò. Poi sarebbe andato via, che Rand fosse tornato o no. Si sarebbe semplicemente voltato e via. Solo andare. Questo avrebbe fatto. Lo avrebbe fatto davvero.

Il modo in cui quelle sottili aste di vetro coglievano la luce bluastra, rifrangendola e riflettendola, faceva venire il mal di testa al solo guardarle. Si voltò altrove, ritornando indietro da dove era venuto, scrutando a disagio i ter’angreal — o qualunque cosa fossero — che riempivano la piazza. Cosa ci stava facendo lui in quel posto? E perché?

Di colpo si immobilizzò, fissando uno di quegli strani oggetti. Una larga soglia di granito rosso, ritorta in uno strano modo che non riusciva a cogliere bene, perché l’occhio sembrava scivolare nel tentativo di seguirne il bordo. Lentamente si avvicinò, fra spirali brillanti e sfaccettate alte come lui e basse cornici dorate che circondavano qualcosa che sembrava essere una lamina di vetro, notandole a malapena, senza mai distogliere lo sguardo dalla soglia.

Era uguale all’altra. La stessa pietra lucida, la stessa dimensione, gli stessi angoli che si distorcevano alla vista. Su ogni lato c’erano file di triangoli che puntavano verso il basso. C’erano anche su quella di Tear? Non riusciva a ricordarselo; l’ultima volta non aveva cercato di fissare tutti i dettagli. Era la stessa; doveva esserlo. Forse non poteva attraversare nuovamente l’altra, ma questa...? Una nuova opportunità di raggiungere le creature rettili, farle rispondere a qualche altra domanda.

Strizzando gli occhi contro il bagliore, guardò di nuovo verso le colonne. Aveva dato a Rand un’ora. In un’ora poteva attraversare questa cosa e tornare con ancora tempo a disposizione. Forse non avrebbe nemmeno funzionato per lui, visto che aveva usato la gemella. Sono la stessa cosa, si disse. Forse invece avrebbe funzionato. Significava semplicemente avere a che fare ancora una volta con il Potere.

«Luce» mormorò. «Ter’angreal. Pietre Portali. Rhuidean. Che differenza può fare un altro tentativo?»

Vi passò attraverso. Attraverso un muro di bianca luce accecante e un boato così vasto che annientò ogni suono.

Battendo le palpebre si guardò intorno e represse la peggiore imprecazione che conosceva. Ovunque si trovasse, non era lo stesso posto dell’altra volta.

La soglia ritorta si trovava al centro di una enorme camera che sembrava essere a forma di stella, per quanto riusciva a vederla attraverso la foresta di grosse colonne, ognuna profondamente scanalata con otto coste, i margini affilati color giallo e leggermente rilucenti. Nere e lucide se non per le parti che risplendevano, si elevavano da un pavimento bianco e opaco verso un’oscurità tetra molto in alto, dove svanivano anche le strisce gialle. Le colonne e il pavimento sembravano di vetro, ma quando si inchinò per passare una mano sul suolo, ebbe la sensazione della pietra. Impolverata. Si pulì la mano sulla giubba. L’aria odorava di muffa e le sue impronte erano gli unici segni nella polvere. Nessuno si era trovato in questo posto da molto tempo.

Deluso, sì voltò verso il ter’angreal.

«È trascorso molto tempo.»

Mat si voltò di colpo, scartando verso la manica alla ricerca di un pugnale che aveva lasciato sulla montagna. L’uomo in piedi fra le colonne non assomigliava affatto alle creature rettili. Mat si pentì di aver lasciato anche quelle ultime due lame alle Sapienti.

Il tizio era alto, più alto degli Aiel, e nerboruto, ma con le spalle troppo ampie per quella vita stretta, e la pelle bianca come la migliore carta. Fasce di cuoio chiare borchiate d’argento si incrociavano sulle braccia e il torso nudi, e sulle ginocchia gli scendeva un gonnellino nero. Gli occhi erano troppo grandi e quasi incolore, profondi in un volto dalla mascella fine. I capelli corti e rossicci erano tagliati a spazzola, le orecchie, piatte contro il capo, avevano un accenno di punta. Si inchinò verso Mat inspirando, aprendo la bocca per trarre più aria, mostrando denti affilati. Dava l’impressione di una volpe pronta a balzare su una gallina stretta in un angolo.

«Molto tempo» proseguì, tirandosi su. La voce era raschiante, quasi un ruggito. «Ti attieni ai trattati e agli accordi? Hai con te del ferro, strumenti musicali o congegni per fare luce?»

«Non ho nessuna di queste cose» rispose lentamente Mat. Non era lo stesso posto, ma questo tipo gli rivolgeva le stesse domande. E si comportava allo stesso modo, annusandolo continuamente. Frugando fra le mie maledette esperienze, vero? Be’, che lo faccia pure. Forse ne libererà qualcuna in modo che anche io possa rammentare, si disse. Si chiese se stesse nuovamente parlando la lingua antica. Era spiacevole non sapere, non essere in grado di dire nulla. «Se puoi portarmi dove posso ottenere alcune risposte, accompagnami. Se non puoi, me ne andrò, con le mie scuse per averti disturbato.»

«No!» Quei grandi occhi incolori sbattevano agitati. «Non devi andare via. Vieni. Ti accompagnerò dove puoi trovare ciò di cui hai bisogno. Vieni.» Il tipo arretrò facendogli cenno con entrambe le mani. «Vieni.»

Guardando il ter’angreal, Mat lo seguì. Desiderava che l’uomo non gli avesse sorriso proprio in quel momento. Forse voleva rassicurarlo, ma quei denti... Mat decise che non avrebbe mai più rinunciato a ‘tutti’ i suoi coltelli, nemmeno per le Sapienti o per l’Amyrlin Seat in persona.

La larga porta con cinque lati sembrava una gola che introduceva in un corridoio, esattamente della stessa dimensione e forma, con quelle linee gialle leggermente luminose che correvano lungo le incurvature, fiancheggiando pavimento e soffitto. Sembrava snodarsi per sempre, svanendo nella lontananza tetra, interrotto a intervalli regolari da altre grandi porte a cinque lati affiancate. L’uomo che indossava il gonnellino non svoltò fino a quando non si trovarono entrambi nel corridoio, e anche allora continuava a guardarsi alle spalle per accertarsi che Mat fosse ancora lì. L’aria non odorava più di muffa; c’era un vago odore di qualcosa di sgradevole, qualcosa che gli sembrava familiare ma non abbastanza da riconoscerlo.

Quando incontrò la prima delle porte, Mat vi guardò attraverso e sospirò. Oltre le colonne a forma di stella, una soglia di granito si intravide su un pavimento di vetro bianco opaco dove la polvere mostrava le impronte di un paio di stivali che provenivano dal ter’angreal, guidate verso il corridoio da sottili impronte di piedi nudi. Si guardò alle spalle. Invece di culminare a cinquanta passi in un’altra camera come questa, il corridoio andava oltre fin quando era possibile vedere, un’immagine speculare di ciò che aveva di fronte. La sua guida gli rivolse un sorriso pieno di denti; sembrava affamato.

Sapeva che doveva aspettarsi una cosa simile dopo ciò che aveva visto dall’altro lato della soglia a Tear. Quelle guglie che si muovevano da dove avrebbero dovuto essere a dove non potevano trovarsi secondo la logica. Se lo facevano le guglie, perché non le stanze? Avrei dovuto rimanere fuori ad aspettare Rand, ecco cosa avrei dovuto fare. Avrei dovuto fare molte cose, pensò. Almeno non avrebbe avuto problemi a ritrovare il ter’angreal, se tutte le porte conducevano a esso.

Guardò nella seguente e vide le colonne nere, il ter’angreal di granito, le sue impronte e quelle della guida nella polvere. Quando l’uomo dalla mascella sottile si guardò di nuovo dietro le spalle Mat gli sorrise. «Non pensare di aver acchiappato un bambino nella tua trappola. Se provi a imbrogliarmi, userò la tua pelle per farmi la sella.»

Il tizio lo fissò sgranando gli occhi pallidi, quindi si strinse nelle spalle e sistemò sul torace le cinghie di cuoio con le borchie d’argento; il sorriso canzonatorio sembrava fatto apposta per attirare l’attenzione su quanto stava facendo. Di colpo Mat si ritrovò a chiedersi da dove provenisse quel cuoio chiaro. Certamente non da... Oh, Luce, credo che lo sia, pensò. Riuscì a trattenersi dal deglutire, a malapena. «Fammi strada, figlio di una capra. La tua pelle non vale tanto da essere borchiata con l’argento. Portami dove voglio andare.»

Con un ringhio l’uomo proseguì. A Mat non importava se lo aveva offeso. Però desiderava avere almeno uno dei suoi pugnali. Che sia folgorato se lascerò che una faccia di volpe con il cervello di capra si faccia un finimento con la mia pelle, pensò.

Non c’era modo di dire per quanto tempo avevano camminato. Il corridoio non cambiava mai, con le curve, le pareti e le strisce gialle luminescenti. Ogni porta mostrava la stessa camera, ter’angreal, impronte e tutto. L’uguaglianza faceva scivolare il tempo nell’informità. Mat si preoccupava del tempo che aveva trascorso in questo posto. Certamente più dell’ora che si era dato. Gli indumenti adesso erano solamente umidi; gli stivali non emettevano più quel rumore acquoso, e lui camminava, con gli occhi fissi sulla schiena della guida, e camminava.

Di colpo il corridoio culminò davanti un’altra porta. Mat batté le palpebre. Avrebbe giurato che un momento prima il corridoio si estendesse lontano fino a dove poteva vedere, ma aveva guardato il tipo dai denti affilati più di quanto non avesse guardato di fronte a sé. Si voltò indietro e quasi bestemmiò. Il corridoio si perdeva alle sue spalle in modo tale che le linee gialle luminescenti sembravano convergere tutte in un punto. E nessuna apertura era visibile lungo le pareti.

Quando si voltò in avanti era da solo di fronte alla porta a cinque lati. Che io sia folgorato, vorrei che non lo facessero, si disse. Inspirando profondamente vi entrò.

Era un’altra stanza dal pavimento bianco a forma di stella, non larga come quella — o quelle — con le colonne. Una stella a otto punte con un piedistallo nero e cristallino si trovava su ogni punta, come fosse una fetta alta due spanne tagliata da quelle colonne. Le linee gialle luminose percorrevano i bordi della stanza e dei piedistalli. Qui l’odore sgradevole era più forte; adesso lo riconosceva. L’odore della tana di un animale selvatico. Mat vi prestò poca attenzione, perché la stanza era vuota, a parte lui.

Voltandosi lentamente guardò corrucciato i piedistalli. Di certo avrebbe dovuto esserci qualcuno su di essi, qualcuno che avrebbe dovuto rispondere alle sue domande. Era stato imbrogliato. Se era potuto giungere in questo posto, avrebbe dovuto ricevere delle risposte.

Di colpo girò su se stesso, alla ricerca non dei piedistalli ma delle lisce pareti grigie. La porta era scomparsa; non c’era via d’uscita.

Eppure prima che completasse un secondo giro, qualcuno apparve in piedi su ogni piedistallo, gente come la guida, ma vestiti differentemente. Quattro erano uomini, gli altri erano donne. I capelli dritti si alzavano in una cresta prima di ricadere sulle spalle. Tutti indossavano lunghe gonne bianche che nascondevano i piedi. Le donne indossavano bluse bianche che scendevano sotto ai fianchi, con alti colletti di merletto e svolazzi ai polsi. Gli uomini avevano anche più cinghie della guida, decorate in oro. Ogni bardatura supportava un paio di pugnali a lama snudata, all’altezza del torace. Lame di bronzo, secondo l’opinione di Mat che ne aveva valutato il colore, ma avrebbe dato tutto l’oro che possedeva per averne solamente una.

«Parla» una delle donne intimò con voce ringhiante. «Secondo l’antico trattato, c’è un accordo. Di cosa hai bisogno? Parla.»

Mat esitò. Non era ciò che le creature rettili avevano detto.

Lo guardavano tutti come volpi che fissavano la cena. «Chi è la Figlia delle Nove Lune e perché devo sposarla?» Sperava che la considerassero un’unica domanda.

Nessuno rispose. Nessuno di loro parlò. Si limitarono a continuare a fissarlo con quegli occhi grandi e chiari.

«Dovreste rispondermi» osservò Mat. Silenzio. «Che le vostre ossa inceneriscano, rispondetemi! Chi è la Figlia delle Nove Lune e perché devo sposarla? Come farò a morire e vivere nuovamente? Che cosa significa che devo rinunciare a metà della luce del mondo? Queste sono le mie domande. Dite qualcosa!»

Silenzio mortale. Poteva sentire il proprio respiro, il sangue che gli pulsava nelle orecchie.

«Non ho intenzione di sposarmi. E non ho nemmeno intenzione di morire, che debba vivere nuovamente o no. Me ne vado in giro con i buchi nella memoria, nella mia vita, e voi mi fissate come degli idioti. Se le cose dovessero essere fatte a modo mio, vorrei che quei buchi venissero colmati, ma almeno le risposte colmeranno quelli del futuro. Dovete rispondermi...»

«Fatto» ruggì uno degli uomini, e Mat batté le palpebre.

Fatto? Cosa? Era stato fatto? Che cosa volevano dire? «Che vi brucino gli occhi» borbottò. «Che brucino le vostre anime! Siete cattivi come le Aes Sedai. Be’, voglio trovare il modo di liberarmi delle Aes Sedai e del Potere, e voglio essere lontano da voi e di nuovo nel Rhuidean, se non volete rispondermi. Aprite la porta e lasciatemi...»

«Fatto» rispose un altro uomo, e una delle donne gli fece eco. «Fatto.» Mat ispezionò le pareti, quindi assunse un’espressione furiosa con l’intenzione di comprenderli tutti, sui loro piedistalli mentre lo fissavano. «Fatto? Cosa è fatto? Non vedo alcuna porta. Voi, bugiardi figli di capra...»

«Sciocco» sibilò una delle donne e le altre lo ripeterono. Sciocco. Sciocco. Sciocco.

«È saggio chiedere il permesso di prendere congedo, quando non hai stabilito un prezzo, o dei termini.»

«Eppure sciocco a non aver prima concordato il prezzo.»

«Lo stabiliremo noi.»

Parlavano così velocemente che Mat non riusciva a capire chi diceva cosa.

«Ciò che è stato chiesto verrà concesso.»

«Il prezzo verrà pagato.»

«Che siate folgorati,» gridò «di cosa state parlando...»

Il buio assoluto si strinse intorno a lui. Aveva qualcosa attorno al collo. Non riusciva a respirare. Aria. Non poteva...

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