26 I Dedicati

Avanti, e indietro.

Adan giaceva nella cavità sabbiosa, stringendo forte il bambino piangente del figlio morto, proteggendosi gli occhi nella giacca logora. Anche a lui scendevano lacrime sul viso, ma silenziose, mentre scrutava cauto da oltre il bordo. A cinque e sei anni, Maigran e Lewin avevano il diritto di piangere; Adan era sorpreso di avere ancora lacrime da versare.

Alcuni dei carri bruciavano. I morti giacevano sparsi ovunque fossero caduti. I cavalli erano stati già portati via, tranne quelli ancora attaccati ai pochi carri che erano stati svuotati. Per una volta non notò le cose imballate che le Aes Sedai avevano consegnato alle cure degli Aiel, capovolte senza cura nella terra. Non era la prima volta che vedeva una scena simile, o degli Aiel morti, ma stavolta non gli importava. Gli uomini con le spade, gli archi e le lance, gli uomini che avevano ucciso, stavano caricando quei carri vuoti. Con le donne. Guardava Rhea, sua figlia, spinta su un carro con le altre, accalcate come bestie da assassini che ridevano. L’ultima dei suoi bambini. Elwin era morta di fame a dieci anni, Sorelle a venti per la febbre che i sogni le avevano preannunciato e Jaren si era gettato da una rupe anni fa, a diciannove anni, quando aveva scoperto che poteva incanalare. Marind questa mattina.

Voleva gridare. Voleva correre laggiù e non farsi portare via l’ultima figlia. Fermarli in qualche modo. E se lo avesse fatto? Lo avrebbero ucciso e avrebbero preso Rhea in ogni caso. Potevano anche uccidere i bambini. Alcuni di quei corpi riversi nel sangue erano piccoli.

Maigran gli stava aggrappata come se sentisse che avrebbe potuto andare via e Lewin era teso come se volesse stringersi più forte ma pensasse di essere troppo grande. Adan li accarezzò e tenne i loro volti premuti al petto. Lui però guardò, fino a quando i carri andarono via guidati da conducenti che gridavano, appresso ai cavalli che erano già quasi fuori dalla visuale verso le montagne fumanti che si allineavano all’orizzonte.

Solo allora si alzò, lasciando liberi i bambini. «Aspettatemi qui» disse loro. «Aspettate fino al mio ritorno.» Stringendosi l’un l’altro lo fissarono con i visi coperti di lacrime, annuendo incerti.

Camminò verso uno dei corpi, girandolo gentilmente. Siedre poteva essere addormentata, il viso era proprio come gli appariva accanto ogni mattina quando si svegliava. Lo sorprendeva sempre notare del grigio fra quei capelli color dell’oro; era il suo amore, la sua vita, sempre giovane e nuova per lui. Cercò di non guardare il sangue che impregnava la parte anteriore del vestito o la ferita squarciata proprio sotto al seno.

«Cosa vuoi fare adesso, Adan? Dicci cosa! Cosa?»

Tolse i capelli dal viso di Siedre — le piaceva essere in ordine — e rimase in piedi, voltandosi lentamente per confrontarsi con un gruppo di uomini arrabbiati e spaventati. Sulwin ne era a capo, un uomo alto dagli occhi profondi. Si era lasciato crescere i capelli, come per nascondere di essere un Aiel. Un diverso numero di uomini lo aveva imitato. Non aveva fatto differenza per questi ultimi incursori o quelli che li avevano preceduti.

«Intendo seppellire i nostri morti e proseguire, Sulwin.» Gli occhi ricaddero nuovamente su Siedre. «Che cos’altro c’è lì?»

«Andare avanti, Adan? E come possiamo farlo? Non ci sono cavalli. Siamo quasi senza acqua o cibo. Tutto ciò che ci è rimasto sono carri pieni di cose che le Aes Sedai non verranno mai a cercare. Cosa sono, Adan? Cosa sono quegli oggetti per cui dovremmo offrire le nostre vite per trascinarli attraverso il mondo, spaventati anche solo di toccarli? Non possiamo proseguire come prima!»

«Possiamo!» gridò Adan. «E lo faremo! Abbiamo le gambe; abbiamo le schiene. Se ce ne sarà bisogno, trascineremo i carri. Resteremo fedeli al nostro dovere!» Era stupito di vedere che agitava il pugno chiuso. All’inizio. Poi la mano tremò mentre la dischiudeva e la abbassava lungo i fianchi.

Sulwin fece un passo indietro e si unì al gruppo. «No, Adan. Crediamo si debba trovare un posto sicuro, alcuni di noi intendono farlo. Mio nonno mi raccontava sempre delle storie che aveva sentito da bambino, di quando vivevamo al sicuro e la gente veniva a sentirci cantare. Vogliamo trovare nuovamente un posto sicuro e cantare ancora.»

«Cantare?» Adan li schernì. «Anche io ho sentito quelle vecchie storie, su quanto il canto degli Aiel fosse una cosa meravigliosa, ma non conoscete quelle vecchie canzoni come non le conosco io. Quelle canzoni sono andate, come anche i vecchi tempi. Non rinunceremo al nostro dovere nei confronti delle Aes Sedai per inseguire quanto è andato perduto per sempre.»

«Alcuni di noi lo faranno, Adan.» Gli altri alle spalle di Adan annuirono. «Vogliamo trovare un posto sicuro. E anche le canzoni. Lo faremo!»

Un tonfo fece voltare il capo di Adan. Alcuni dei compagni di Sulwin stavano scaricando uno dei carri e una grossa cassa piatta era caduta, spaccandosi parzialmente per rivelare ciò che sembrava essere una soglia di granito scuro. Anche altri carri venivano svuotati, da altri amici di Sulwin. Almeno un quarto delle persone che vedeva era impegnato a svuotare i carri da tutto, tranne cibo e acqua.

«Non cercare di fermarci» lo mise in guardia Sulwin.

Adan rilasciò nuovamente i pugni. «Non siete Aiel» rispose. «Avete tradito tutto. Qualsiasi cosa siate, non siete più Aiel.»

«Seguiamo la Via della Foglia come te, Adan.»

«Andate!» gridò Adan. «Andate! Voi non siete Aiel! Siete perduti! Perduti! Non voglio guardarvi! Andate!» Sulwin e gli altri inciamparono per la fretta di allontanarsi.

Il cuore di Adan affondò mentre guardava i carri e i corpi che li circondavano. Così tanti, così tanti feriti che si lamentavano mentre venivano medicati. Sulwin e gli altri perduti erano impegnati a scaricare i carrozzoni. Gli uomini con le spade avevano aperto diverse casse prima di rendersi conto che non contenevano oro, o cibo. Quest’ultimo era più prezioso dell’oro. Adan studiò la soglia di pietra, pile accatastate di figurine dello stesso materiale, sagome curiose di cristallo fra i vasi di arbusti chora che la gente di Sulwin non sapeva come usare. C’era un uso per quegli oggetti? Era a questi oggetti che erano fedeli? Se sì, allora doveva andare avanti. Alcuni potevano essere salvati. Non c’era modo di dire cosa le Aes Sedai considerassero più importante, ma alcuni potevano essere salvati.

Vide Maigran e Lewin che si attaccavano alle gonne della madre. Era contento che Saralin fosse sopravvissuta per crescerli; il suo ultimo figlio, suo marito, il padre dei bambini, era morto colpito dalla prima freccia volata quel mattino. Alcuni oggetti potevano essere salvati. Avrebbe salvato anche gli Aiel, a qualsiasi costo.

Inginocchiandosi prese Siedre fra le braccia. «Siamo ancora fedeli, Aes Sedai» bisbigliò. «Per quanto tempo dovremo esserlo?»

Appoggiando la testa sul petto della moglie, singhiozzò.

Le lacrime bruciavano gli occhi di Rand; silenziosamente con la bocca mimò «Siedre.» La Via della Foglia? Non era una credenza aiel. Non riusciva a ragionare con chiarezza; poteva appena pensare. Le luci vorticavano sempre più veloci. Accanto a lui, Muradin aveva la bocca aperta in un grido silente; gli occhi dell’Aiel erano sporgenti come se stesse assistendo alla morte di tutto. Andarono oltre insieme.

Jonai stava in piedi al margine del precipizio guardando verso ovest sull’acqua che risplendeva sotto al sole. Cento leghe in quella direzione c’era Comelle. C’era stata Comelle. Sulle montagne che si affacciavano sul mare. A cento leghe a est, dove adesso c’era il mare. Se Alnora fosse stata ancora viva, forse sarebbe stato più facile da prendere. Senza i suoi sogni, sapeva a malapena cosa fare o dove andare. Senza di lei gli importava a malapena di vivere. Sentì ogni capello grigio che aveva sulla testa mentre si voltava per arrancare di nuovo verso i carri che attendevano a circa un chilometro. Ormai erano pochi e mostravano segni di usura. Anche la gente era poca, ne rimaneva una manciata del migliaio di quando c’erano state le tende. Ma pur sempre troppi per i carri restanti. Nessuno adesso cavalcava, se non i bambini troppo piccoli per camminare.

Adan lo incontrò al primo carro, un giovane uomo alto, gli occhi azzurri troppo sospettosi. Jonai si aspettava sempre di vedere Willim, se si fosse voltato abbastanza velocemente. Ma Willim era stato mandato via, anni fa, quando aveva iniziato a incanalare, non importa con quanta veemenza avesse provato a smettere. Nel mondo c’erano ancora troppi uomini che incanalavano; dovevano mandare via i ragazzi che ne mostravano i segni. Dovevano. Ma desiderava riavere indietro i suoi bambini. Quando era morto Esole? Così piccolo per essere sepolto in una fossa scavata velocemente, consumato dalla malattia perché non c’era un’Aes Sedai a guarirlo.

«Sono Ogier, padre» esclamò Adan eccitato. Jonai sospettava che suo figlio avesse sempre pensato che le sue storie erano solamente quello, storie. «Sono giunti dal nord.»

Adan gli fece strada verso un gruppo di persone infangate, non più di cinquanta, con le guance infossate, gli occhi tristi e le orecchie pelose abbassate. Si era abituato ai volti tesi e consunti della sua gente, gli abiti rattoppati, ma vedere lo stesso sugli Ogier lo colpì. Malgrado ciò doveva pensare alla sua gente e al dovere nei confronti delle Aes Sedai. Quanto tempo era passato da quando aveva visto un’Aes Sedai? Proprio dopo la morte di Alnora. Troppo tardi per lei. La donna aveva guarito i malati, preso qualche sa’angreal e poi era andata per la sua strada, ridendo amaramente quando le aveva chiesto dove fosse un luogo sicuro. Il suo vestito era rattoppato e consumato in fondo all’orlo. Non era certo che fosse sana di mente. Sosteneva che uno dei Reietti fosse solo parzialmente intrappolato, o forse libero; che Ishamael ancora toccasse il mondo. Doveva essere pazza come le rimanenti Aes Sedai.

Riportò la mente agli Ogier che stavano in piedi su gambe instabili. I suoi pensieri vagavano troppo dalla morte di Alnora. Avevano pane e ciotole fra le mani. Sentì una punta di rabbia all’idea che qualcuno aveva condiviso le loro magre riserve di cibo. Quante di quelle persone avrebbero potuto nutrirsi con ciò che potevano consumare cinquanta Ogier? No, condividere era la cosa giusta. Dare liberamente. Cento persone? Duecento?

«Avete degli arbusti di chora» osservò uno degli Ogier. Le sue dita grosse sfiorarono la foglia a tre punte delle due piante in vaso legate sul fianco di un carro.

«Alcuni» rispose seccamente Adan. «Gli altri sono morti, ma i vecchi ne hanno tenuti alcuni prima che succedesse.» Non aveva tempo per gli alberi. Doveva vegliare sulla sua gente. «Quanto male va a nord?»

«Male» rispose una donna Ogier. «Le Terre Macchiate si sono estese verso sud e ci sono Myrddraal e Trolloc.»

«Credevo che fossero tutti morti.» Non a nord. Non potevano dirigersi a nord. Sud? Il mare di Jeren si trovava dieci giorni a sud. Se ancora esisteva. Era così stanco. Così stanco.

«Giungete da est?» chiese un altro Ogier. Puh la ciotola con un pezzo di pane e lo mangiò. «Com’è la situazione a est?»

«Brutta» rispose Jonai. «Forse non troppo brutta per voi. Dieci... no, dodici giorni fa, alcune persone si sono prese un terzo dei nostri cavalli prima che riuscissimo a scappare. Abbiamo dovuto abbandonare i carri.» Questo lo addolorava. I carri abbandonati con il loro contenuto. Le cose che le Aes Sedai avevano affidato agli Aiel, abbandonate. Che non fosse la prima volta rendeva solamente tutto peggiore. «Quasi ognuno che incontriamo si prende qualcosa, qualsiasi cosa vogliono. Forse non si comporteranno così con gli Ogier.»

«Forse» rispose una donna Ogier come se non lo credesse. Anche Jonai non ne era certo; non esisteva un posto sicuro. «Sapete dove si trovano gli stedding?»

Jonai la fissò. «No. No, non lo so. Ma di certo potrete trovarli.»

«Siamo andati così lontano, per così tanto» rispose un Ogier dal gruppo, e un altro aggiunse con un rombo dolente: «La terra è cambiata così tanto.»

«Penso che dobbiamo trovare gli stedding, o presto moriremo» riprese la prima donna Ogier. «Sento una... brama... nelle ossa. Dobbiamo trovare uno stedding. Dobbiamo.»

«Non posso aiutarvi» rispose tristemente Jonai. Si sentiva un peso nel petto. La terra era cambiata e irriconoscibile, ancora in una tale fase di metamorfosi che le pianure attraversate lo scorso anno potevano essere montagne adesso. Le Terre Macchiate che si estendevano. Myrddraal e Trolloc ancora vivi. Gente che rubava, persone con i volti di animali, gente che non riconosceva i Da’shain o ignara di loro. Riusciva appena a respirare. Gli Ogier persi. Gli Aiel persi. Tutto era perduto. Il peso divenne dolore e cadde in ginocchio, ripiegato su se stesso, stringendosi il petto.

Un pugno gli stringeva il cuore.

Adan si inchinò preoccupato accanto a lui. «Padre, cosa succede? Che cos’è? Cosa posso fare?»

Jonai riuscì ad afferrarlo per il colletto e a tirarlo desideroso a sé. «Porta... il popolo... a sud.» Doveva sforzarsi per parlare fra gli spasmi che sembravano spaccargli il cuore.

«Padre, tu sei colui che...»

«Ascolta. Ascolta! Portali... a sud. Porta... gli Aiel... alla salvezza. Mantieni... il Patto. Vigila... su quello che le Aes Sedai... ci hanno affidato... fino a quando loro... non verranno a riprenderseli. La Via... della Foglia. Devi...» Ci aveva provato. Solinda Sedai doveva capire. Ci aveva provato. Alnora.

Alnora. Il nome svanì, il dolore nel petto di Rand diminuì. Non aveva senso. Come faceva questa gente a essere Aiel?

Le colonne lampeggiarono in pulsazioni accecanti. L’aria si agitò turbinando.

Al suo fianco Muradin aveva la bocca spalancata nel tentativo di gridare. L’Aiel si era afferrato il velo e il viso, lasciandosi dei graffi sanguinanti.

Avanti.

Jonai correva lungo le strade vuote, cercando di non guardare gli edifici distrutti e gli alberi morti di chora. Tutti morti. Almeno l’ultima delle navicelle-jo abbandonate da molto tempo era stata trascinata via. Il trauma ancora creava problemi alla terra. Indossava gli abiti da lavoro, il cadin’sor naturalmente, anche se non era stato addestrato per il lavoro assegnatogli. Aveva sessantatré anni, all’inizio della vita, non ancora abbastanza vecchio da avere i capelli grigi, ma si sentiva un uomo stanco.

Nessuno aveva discusso il suo ingresso nella Sala dei Servitori; non c’era nessuno nel grande colonnato all’entrata a porre domande o porgere il benvenuto. Era pieno di gente che correva all’interno, con le braccia piene di carte e scatole e occhi ansiosi, ma nessuno lo guardava. Da tutti emanava una sensazione di panico e aumentava ogni volta che il suolo tremava. Afflitto, attraversò l’anticamera e salì le ampie scale. Il fango macchiava la pietra bianca argentata. Nessuno poteva risparmiare tempo. Forse non importava a nessuno.

Non vi fu bisogno di bussare sulla porta che aveva trovato. Non era una delle grandi porte dorate all’entrata ma più semplice e discreta. Entrò piano e ne fu felice. Una mezza dozzina di Aes Sedai si trovava in piedi attorno a un tavolo lungo e discuteva, senza apparentemente notare quando il palazzo tremava. Erano tutte donne.

Jonai esitò, chiedendosi se gli uomini avrebbero mai più partecipato a una tale riunione. Quando vide cosa c’era sul tavolo, il brivido divenne tremore. Una spada di cristallo — forse un oggetto del Potere, forse solo un ornamento; non avrebbe saputo dirlo — appoggiata sulla bandiera del Drago di Lews Therin Kinslayer, aperta come una tovaglia che scendeva sul pavimento. Gli si strinse il cuore. Cosa ci faceva quell’oggetto lì? Perché non era stata distrutta, come anche il ricordo del maledetto uomo?

«A cosa serve la tua Preveggenza» gridava quasi Oselle «se non puoi dirci quando?» I lunghi capelli neri ondeggiarono quando scosse il capo adirata. «Il mondo si fonda su questo! Il futuro! La Ruota stessa!»

Deindre dagli occhi scuri la affrontò con la solita calma. «Non sono il Creatore. Posso solamente dirti quel che prevedo.»

«Pace Sorelle» Solinda era la più calma di tutte, la gonna dritta all’antica, di un semplice color azzurro nebbia. I capelli rosso oro che le scendevano fino alla vita erano quasi del colore di quelli di Jonai. Suo nonno l’aveva servita quando era giovane, ma la donna sembrava più giovane di lui; era un’Aes Sedai. «Il tempo del conflitto fra noi è passato. Jaric e Haindar saranno entrambi qui entro domani.»

«Il che significa che non possiamo permetterci di commettere errori, Solinda.»

«Dobbiamo sapere...»

«Se c’è una qualsiasi possibilità di...»

Jonai smise di ascoltare. Lo avrebbero visto quando sarebbero state pronte. Non era il solo nella stanza oltre le Aes Sedai. Someshta era seduto contro la parete vicino alla porta, una grande figura che sembrava tessuta di viticci e foglie, la testa più alta di quella di Jonai anche in quella posizione. Una fessura di marrone e nero carbone correva lungo il viso del Nym e solcava il verde erba dei capelli e, quando guardò Jonai, gli occhi nocciola sembravano preoccupati.

Quando Jonai gli fece un cenno con il capo, toccò la fenditura e aggrottò le sopracciglia.

«Ti conosco?» mormorò.

«Sono tuo amico» rispose tristemente Jonai. Non aveva visto Someshta per anni, ma ne aveva sentito parlare. La maggior parte dei Nym era morta, così aveva sentito dire. «Mi portavi sulle tue spalle quando ero bambino. Non ti ricordi nulla di quei tempi?»

«Canzoni» rispose Someshta. «C’erano canzoni? Così tante cose sono scomparse. Le Aes Sedai sostengono che alcune torneranno. Tu sei un Figlio del Drago, vero?»

Jonai sussultò. Quel nome aveva provocato problemi, non meno per non essere vero. Quante persone adesso credevano che gli Aiel Da’shain una volta avevano servito il Drago e non le Aes Sedai?

«Jonai?»

Si voltò nel sentire la voce di Solinda e si appoggiò su un ginocchio mentre la donna si avvicinava. Le altre ancora discutevano, ma con maggiore calma.

«È tutto pronto, Jonai?» chiese.

«Tutto, Aes Sedai. Solinda Sedai...» esitò e fece un respiro profondo. «Solinda Sedai, alcuni di noi desiderano rimanere. Possiamo ancora servire.»

«Sai cosa è accaduto agli Aiel a Tzora?» Jonai annuì e la donna sospirò, allungando una mano per carezzargli i capelli corti, come se fosse un bambino. «Certo che potete. Voi Da’shain avete più coraggio di... diecimila Aiel uniti per le braccia che cantano, cercando di ricordare a un pazzo chi erano e chi fossero stati, cercando di convertirlo con i loro corpi e con le canzoni. Jaric Mondoran li ha uccisi. Stava lì in piedi, come se stesse guardando un rompicapo e questi continuavano a stringere le linee e cantare. Mi è stato raccontato che ha ascoltato l’ultimo Aes Sedai per almeno un’ora, prima di distruggerlo. Poi Tzora è bruciata, una sola fiamma enorme che ha consumato pietra, metallo e carne. Adesso c’è una lamina di vetro dove una volta era sorta la seconda città più grande del mondo.»

«Molte persone hanno avuto il tempo di fuggire, Aes Sedai. I Da’shain hanno guadagnato il tempo per farli fuggire. Non abbiamo paura.»

La mano della donna si strinse dolorosamente fra i suoi capelli. «I cittadini hanno già abbandonato Paaren Disen, Jonai. E poi per i Da’shain c’è ancora qualcosa da fare, se Deindre può solamente dirci cosa accadrà e non quando. In ogni caso ho intenzione di salvare qualcosa qui, e quel qualcosa sei tu.»

«Come tu dici» rispose con riluttanza. «Ci prenderemo cura di quanto ci hai affidato fino a quando non ci richiederai indietro quegli oggetti.»

«Naturalmente. Le cose che vi ho affidato.» Gli sorrise e allentò la presa, carezzandogli i capelli ancora una volta prima di ripiegare le mani. «Porterai le... cose... in salvo, Jonai. Continua a muoverti, sempre in movimento, fino a quando non troverai un posto sicuro, dove nessuno potrà farti del male.»

«Come tu dici, Aes Sedai.»

«Hai novità su Coumin, Jonai? Si è calmato?»

Non sapeva davvero come dirglielo; piuttosto si sarebbe morso la lingua. «Mio padre si nasconde da qualche parte in città. Ha cercato di convincerci a... resistere. Non vuole ascoltare, Aes Sedai. Non vuole ascoltare. Ha trovato un vecchio fucile elettro-fulminante da qualche parte e...» Non poteva proseguire. Si aspettava che la donna si sarebbe arrabbiata, invece gli occhi le brillavano di lacrime.

«Mantieni il Patto, Jonai. Se i Da’shain perderanno tutto il resto, fa’ che continuino a seguire la Via della Foglia. Promettimelo.»

«Certo, Aes Sedai» rispose scosso. Il Patto erano gli Aiel, e gli Aiel erano il Patto; abbandonare la Via sarebbe significato abbandonare ciò che erano. Coumin era un’aberrazione. Era stato strano fin da bambino, si raccontava, niente affatto un Aiel, anche se nessuno sapeva perché.

«Vai adesso, Jonai. Voglio che tu sia lontano da Paaren Disen per domani. E ricorda, continua a muoverti. Salva gli Aiel.»

Jonai si inchinò, ma la donna era già ritornata alla discussione.

«Possiamo fidarci di Kodam e dei suoi amici, Solinda?»

«Dobbiamo, Oselle. Sono giovani e inesperti, ma appena sfiorati dalla contaminazione, e... non abbiamo altra scelta.»

«Allora faremo quel che dovremo. La spada deve aspettare. Someshta, abbiamo un incarico per l’ultimo dei Nym, se vorrai. Ti abbiamo già chiesto molto; ora dobbiamo chiedere di più.»

Jonai si inchinò formalmente retrocedendo mentre il Nym si alzava, con la testa che sfiorava il soffitto. Di già immerse nei loro piani, le donne non lo stavano guardando, ma rivolse loro quest’ultimo onore in ogni caso. Non credeva che le avrebbe mai più riviste.

Corse via dalla Sala dei Servitori fino ad abbandonare la città dove la grande riunione lo attendeva. Migliaia di carri su dieci file che si estendevano per almeno due leghe, carri pieni di cibo e barili d’acqua, con gli oggetti imballati che le Aes Sedai avevano dato in custodia agli Aiel, angreal, sa’angreal e ter’angreal, tutti oggetti che dovevano essere tenuti lontano dalle mani degli uomini che impazzivano maneggiando l’Unico Potere. Una volta ci sarebbero stati altri sistemi per trasportarli, navicelle-jo e saltatori, libranti e grossi sho-alati. Adesso cavalli e carri riuniti a fatica dovevano bastare. Fra i carri c’erano le persone, abbastanza da popolare una città, ma forse gli unici Aiel sopravvissuti al mondo.

Un centinaio di loro gli venne incontro, uomini e donne, i rappresentanti che domandavano di sapere se le Aes Sedai avessero concesso a qualcuno di loro il permesso di rimanere. «No» rispose. Alcuni aggrottarono le sopracciglia con riluttanza, e aggiunse: «Dobbiamo obbedire. Siamo Aiel Da’shain e obbediamo alle Aes Sedai.»

Si dispersero lentamente verso i loro carri, e gli sembrò di sentire menzionare il nome di Coumin, ma non poteva lasciarsi preoccupare. Si affrettò verso il suo vagone, in testa a una delle file centrali. I cavalli erano nervosi per via del suolo che tremava a intervalli.

I suoi figli erano già a cassetta — Willim, di quindici anni, alle redini, e Adan, di dieci, al suo fianco, entrambi sorridevano nervosi per l’eccitazione. La piccola Esole giocava con una bambola sopra i tendaggi legati sulle loro cose — e, più importante, gli oggetti delle Aes Sedai. Non c’era posto per nessuno dei viaggiatori se non i giovani e quelli molto anziani. Una dozzina di arbusti chora con le radici nei vasi di argilla era sistemata dietro i sedili del carro, per essere piantata quando avessero trovato un luogo sicuro. Forse una cosa stupida da portarsi appresso, ma su nessun carro mancavano degli arbusti. Qualcosa che discendeva da tempi molto antichi; simbolo di giorni migliori che sarebbero tornati. La gente aveva bisogno di speranza e simboli.

Alnora aspettava accanto alla pariglia, i capelli neri e splendenti che le scendevano sulle spalle gli ricordavano la prima volta che l’aveva vista da ragazza. Ma la preoccupazione adesso le segnava gli occhi.

Riuscì a sorriderle, nascondendo la preoccupazione che aveva in cuore. «Andrà tutto bene, moglie del mio cuore.» La donna non rispose e lui aggiunse: «Hai sognato?»

«Nulla che accadrà prossimamente» mormorò Alnora. «Tutto andrà bene, tutto andrà bene, ogni genere di cosa andrà bene.» Sorridendo tremante, gli toccò la guancia. «Con te so che sarà così, marito del mio cuore.»

Jonai gesticolò sopra la testa, e il segnale discese lungo le linee. Lentamente i carri iniziarono a muoversi, gli Aiel stavano lasciando Paaren Disen.

Rand scosse il capo. Troppo. Ricordi che si affollavano. L’aria sembrava piena di luce assoluta. Il vento faceva turbinare polvere sabbiosa in mulinelli danzanti. Muradin si era scavato dei solchi profondi sul viso; adesso si stava cavando gli occhi. Avanti.

Coumin era inginocchiato al bordo del campo arato con gli abiti da lavoro, giubba e brache grigio-marrone e morbidi stivali legati sotto al polpaccio, allineato con altri come lui che circondavano il campo, dieci uomini degli Aiel Da’shain a una distanza di un paio di braccia, quindi seguiva un Ogier, tutto intorno al campo. Poteva vedere quello seguente, allineato nello stesso modo, oltre ai soldati con i fucili elettro-fulminanti seduti su delle navicelle-jo armate. Un librante ronzava sopra le loro teste nella sua perlustrazione, una mortale vespa di metallo nero che trasportava due uomini. Aveva sedici anni, e le donne avevano deciso che la sua voce era finalmente abbastanza profonda per consentirgli di unirsi al canto della semina.

I soldati lo affascinavano, uomini e Ogier, come avrebbe potuto farlo un coloratissimo serpente velenoso. Questi uccidevano. Il padre del nonno, Charn, raccontava che una volta non c’erano soldati, ma Coumin non ci credeva. Se non c’erano soldati, chi avrebbe impedito ai Predatori della Notte e ai Trolloc di venire a uccidere tutti? Naturalmente Charn sosteneva anche che non c’erano Myrddraal o Trolloc. allora. Nessun Reietto, o i Forgiati dell’Ombra. Raccontava molte storie che secondo lui risalivano a un tempo anteriore ai soldati, ai Predatori della Notte e ai Trolloc, quando diceva che l’Oscuro Signore della Tomba era stato incatenato e nessuno conosceva il suo nome, o la parola ‘guerra’. Coumin non riusciva a immaginare un tale mondo; la guerra durava da quando era nato.

Gli piacevano le storie di Charn, anche se non poteva crederci, ma alcune regalavano al vecchio espressioni di disapprovazione e rimprovero. Come quando aveva sostenuto di aver servito uno dei Reietti. Non un Reietto qualsiasi, ma Lanfear in persona. Era come dichiarare che aveva servito Ishamael. Se Charn doveva inventarsi delle storie, Coumin desiderava che raccontasse di aver servito Lews Therin, il grande condottiero in persona. Naturalmente chiunque avrebbe chiesto perché adesso non era al servizio del Drago, ma sarebbe stato meglio di come stavano realmente le cose. A Coumin non piaceva il modo in cui i compaesani guardavano Charn quando raccontava che Lanfear non era sempre stata cattiva.

Una certa agitazione all’estremità opposta del campo gli suggeriva che uno dei Nym si stava avvicinando. La grande sagoma, testa, spalle e torace più alti di qualsiasi Ogier, si fece avanti nel campo seminato, e Coumin non aveva bisogno di guardare per sapere che lasciava impronte piene di germogli. Era Someshta, circondato da nuvole di farfalle bianche, gialle e blu. Mormorii di eccitazione salivano dai cittadini e i proprietari del campo, riuniti a guardare. Adesso in ogni campo c’era un Nym.

Coumin si chiese se poteva domandare a Someshta qualcosa riguardo le storie di Charn. Una volta ci aveva parlato, e Someshta era abbastanza vecchio da sapere se Charn stava raccontando la verità; i Nym erano più vecchi di chiunque. Alcuni sostenevano che non morissero, non finché ci fossero piante. Ma adesso non era il momento di pensare a interrogare Nym.

Come era consuetudine, cominciarono a cantare gli Ogier, in piedi, un rombo basso e potente come il canto della terra. Gli Aiel si alzarono, voci di uomini che si sollevavano nella loro canzone, molto più acuta di quella degli Ogier. Eppure le canzoni si intessevano, e Someshta prese quei fili e li intrecciò nella sua danza, muovendosi leggero sul campo con passi rapidi a braccia distese, le farfalle che gli turbinavano intorno atterrando sulle dita spiegate.

Coumin sentiva il canto della semina provenire dagli altri campi, il battito di mani delle donne per sollecitare gli uomini a proseguire, il ritmo adesso di una nuova vita, ma era una consapevolezza distante. La canzone lo aveva preso, e sentiva quasi di essere la canzone, non il suono che produceva, che Someshta intesseva nel terreno e attorno ai semi. Non più semi ormai. Germogli di zemais coprivano il campo, più alti nei punti in cui il Nym aveva lasciato l’impronta. Nessuna ruggine avrebbe toccato queste piante, nessun insetto; i semi cantavano, sarebbero cresciuti alti il doppio di un uomo e avrebbero riempito i granai della città. Questo era ciò per cui era nato, questa canzone e le altre canzoni della semina. Non rimpiangeva il fatto di essere stato scartato dalle Aes Sedai quando aveva dieci anni perché non aveva la scintilla. Sarebbe stato meraviglioso essere addestrato come Aes Sedai, ma certamente non più di questo momento.

La canzone sfumò lentamente, gli Aiel guidavano la conclusione. Someshta danzò ancora qualche passo dopo che l’ultima voce cessò e sembrò che la canzone fosse ancora sospesa nell’aria per tutto il tempo che si mosse. Quindi si fermò; l’opera era compiuta.

Coumin fu sorpreso di vedere che gli abitanti del villaggio erano andati via, ma non aveva tempo di chiedersi dove fossero andati o perché. Stavano arrivando le donne, sorridenti, per congratularsi con gli uomini. Adesso lui era uno degli uomini, non più un ragazzo, e le donne si alternavano fra il baciarlo sulle labbra e arruffargli i rossi capelli corti.

Fu allora che vide i soldati, lontani solamente pochi passi, che li osservavano. Uno aveva lasciato da qualche parte il suo fucile elettro-fulminante e la mantella di seta evanescente da battaglia, ma indossava ancora l’elmetto, simile alla testa di qualche mostruoso insetto, le mandibole che nascondevano il viso, ma la visiera a specchio — trasparente all’interno e opaca all’esterno, che forniva per il viso la stessa protezione che l’elmo offriva alla testa — era alzata. Come se si fosse reso conto che ancora era lì, il soldato rimosse l’elmetto, rivelando un giovane uomo scuro di carnagione, non più di quattro o cinque anni più grande di Coumin. Gli occhi fissi del soldato incontrarono i suoi, e Coumin fu scosso da brividi. Il volto era solamente quattro o cinque anni più grande, ma quegli occhi... Il soldato probabilmente era stato scelto per cominciare l’addestramento quando aveva dieci anni. Coumin era contento che agli Aiel venisse risparmiata quella scelta.

Una degli Ogier, Tomada, si avvicinò con le orecchie pelose tese in avanti con curiosità. «Hai novità, combattente? Ho visto una certa eccitazione fra le navicelle-jo mentre cantavamo.»

Il soldato esitò. «Immagino di potertelo dire, però non è confermato. Ci è stato riportato che Lews Therin stamattina all’alba abbia condotto i Compagni contro Shayol Ghul. Qualcosa ha interrotto le comunicazioni, ma il rapporto conferma che il Foro è stato chiuso, con la maggior parte dei Reietti dall’altro lato. Forse addirittura tutti.»

«Allora è finita» sospirò Tomada. «Alla fine si è conclusa, che la Luce sia lodata.»

«Sì.» Il soldato si guardò intorno, sembrando di colpo perduto. «Io... immagino che lo sia. Immagino...» si guardò le mani, quindi le lasciò ricadere lungo i fianchi. Sembrava stanco. «La gente del posto non poteva aspettare di iniziare le celebrazioni. Se la notizia è vera potrebbero proseguire per giorni. Mi chiedo se...? No, certamente non vorrebbero che dei soldati si unissero a loro. Voi lo vorreste?»

«Forse per stanotte» rispose Tomada. «Ma dobbiamo visitare altre tre città prima di concludere il circuito.»

«Naturalmente. Avete ancora del lavoro da fare. Voi avete quello.» Il soldato si guardò nuovamente attorno. «Ci sono ancora dei Trolloc in giro. Anche se i Reietti sono scomparsi, ci sono ancora i Trolloc. E i Predatori della Notte.»

Annuendo a se stesso, si avviò verso la navicella-jo.

Naturalmente Tomada non sembrava eccitata, ma Coumin si sentiva frastornato come il giovane soldato. La guerra era finita? Come sarebbe stato il mondo senza guerra? Di colpo sentì il bisogno di parlare con Charn.

Il rumore dei festeggiamenti gli venne incontro prima che raggiungesse la città, risate e canzoni. Le campane nella torre del municipio incominciarono a suonare esuberanti. I cittadini danzavano per le strade, uomini, donne e bambini. Coumin li schivò, alla ricerca. Charn aveva deciso di stare in una delle taverne che stavano costruendo gli Aiel invece di recarsi al canto — anche le Aes Sedai non potevano più fare molto per le sue ginocchia dolenti — ma di certo per questo sarebbe stato fuori.

Improvvisamente qualcosa colpì Coumin sulla bocca e le gambe vacillarono; si stava mettendo in ginocchio prima di accorgersi che era stato atterrato. Si mise una mano davanti alla bocca e la ritirò insanguinata. Guardò in alto e vide il viso infuriato di un cittadino che lo fissava, carezzandosi il pugno. «Perché lo hai fatto?» gli chiese Coumin.

Il cittadino gli sputò. «I Reietti sono morti. Morti, hai sentito? Lanfear non ti proteggerà più. Sradicheremo tutti quelli che hanno servito i Reietti mentre facevano finta di essere dalla nostra parte, e tratteremo quelli come voi allo stesso modo di come abbiamo fatto con il vecchio pazzo.»

Una donna stava tirando l’uomo per la manica. «Vieni via, Torna. Vieni via e tieni a freno la tua stupida lingua! Vuoi che gli Ogier vengano a cercarti?» Di colpo consapevole, l’uomo lasciò che la donna lo portasse via.

Alzandosi a fatica, Coumin cominciò a correre, incurante del sangue che gli colava sul mento.

La locanda era vuota, silenziosa. Nemmeno il locandiere era lì. la cuoca o gli aiutanti. Coumin corse attraverso gli edifici gridando. «Charn? Charn? Charn?»

Forse sul retro. A Charn piaceva sedere sotto l’albero di melo sul retro della locanda e raccontare storie di quando era giovane.

Coumin corse fuori dalla porta sul retro, e inciampò, cadendo di faccia. Uno stivale vuoto gli si era impigliato al piede. Uno degli stivali rossi che Charn indossava sempre, e adesso non era più parte del suo corpo. Qualcosa fece guardare Coumin in alto.

Il corpo canuto di Charn pendeva da una fune tirata sulla trave, un piede nudo da quando scalciando aveva lasciato cadere lo stivale, le dita di una mano attorno al collo dove aveva cercato di liberarsi dalla corda.

«Perché?» si chiese Coumin. «Siamo Da’shain. Perché?» Non c’era nessuno a rispondere. Stringendosi lo stivale al petto, si inginocchiò, fissando Charn, mentre il rumore della baldoria gli scivolava addosso.

Rand tremava. La luce delle colonne era una brillante foschia blu di consistenza quasi solida, che sembrava artigliare i nervi e strapparli dalla pelle. Il vento ululava, un unico turbine che lo risucchiava all’interno.

Muradin era riuscito a tirare giù il velo; le orbite degli occhi insanguinate fissavano ciecamente da sopra al velo nero. L’Aiel masticava, e una spuma insanguinata gli gocciava sul petto.

Charn si fece strada da un lato dell’ampia strada affollata fra gli alberi sparsi di chora, le foglie a tre punte che emanavano pace e contentezza all’ombra di edifici argentati che toccavano il cielo. Una città senza chora sarebbe sembrata brulla come una regione selvaggia. Le navicelle-jo ronzavano quietamente lungo la strada, e un grosso sho-alato bianco sfrecciava in cielo, trasportando i cittadini a Comelle, Tzora, o in qualche altro posto. Lui usava di rado gli sho-alati — se aveva bisogno di andare molto lontano, di solito un’Aes Sedai viaggiava con lui, ma stanotte lo avrebbe fatto, per recarsi a M’jinn. Oggi compiva venticinque anni e stanotte intendeva accettare l’ultima offerta di matrimonio che aveva ricevuto da Nalla. Si chiese se la donna ne sarebbe rimasta sorpresa; l’aveva respinta per un anno perché non voleva mettere su famiglia. Significava spostarsi al servizio di Zorelle Sedai, quella che serviva Nalla, ma Mierin Sedai gli aveva già dato la sua benedizione.

Svoltò a un angolo ed ebbe appena il tempo di vedere un uomo scuro dalle spalle ampie con una barba sottile alla moda, prima di ricadere all’indietro per l’impatto, battendo la testa su una passerella, le macchie bianche negli occhi. Intontito, rimase disteso lì.

«Guarda dove metti i piedi» lo ammonì irritato l’uomo con la barba, sistemandosi la giubba rossa senza maniche e rabbuffando il merletto ai polsi. I capelli neri dell’uomo, che gli arrivavano alle spalle, erano legati indietro. Quella era l’ultima moda, la cosa più vicina che poteva fare qualcuno che non avesse prestato giuramento al Patto per imitare gli Aiel.

La donna dai capelli chiari che era con lui gli mise una mano sul braccio, l’abito bianco splendente che divenne più opaco con il suo imbarazzo improvviso. «Jom, guardagli i capelli. È un Aiel, Jom.»

Toccandosi la testa per vedere se fosse rotta, le dita di Charn passarono fra i capelli corti, rosso dorati. Tirò il codino dietro la nuca invece di scuotere la testa. Un livido, pensò, niente di più.

«Sì, lo è.» Il fastidio dell’uomo mutò in costernazione. «Perdonami, Da’shain. Sono io quello che dovrebbe guardare dove mette i piedi. Lascia che ti aiuti.» Stava già onorando le parole, aiutando Charn ad alzarsi. «Stai bene? Lascia che chiami un saltatore per trasportarti dove ti stavi recando.»

«Non mi sono fatto male, cittadino» rispose tranquillo Charn. «Davvero, è stata colpa mia.» Lo era stato, correre a quel modo. Avrebbe potuto fare del male all’uomo. «Ti ho fatto male? Ti prego di perdonarmi.»

L’uomo aprì la bocca per protestare — i cittadini lo facevano sempre; sembravano pensare che gli Aiel fossero fatti di vetro soffiato — ma prima che potesse parlare, il terreno si squarciò sotto ai suoi piedi. Anche l’aria tremò, espandendosi a onde.

L’uomo sembrava incerto, mentre si stringeva il mantello di seta evanescente alla moda attorno alle spalle e faceva lo stesso con quello della sua signora, così che assomigliavano a due teste fluttuanti. «Che cos’è, Da’shain?»

Altri che avevano notato i capelli di Charn si stavano riunendo per porre la stessa domanda, ma li ignorò, senza nemmeno pensare se si stava comportando maleducatamente. Iniziò a farsi spazio fra la folla, gli occhi fissi sullo Sharom; la sfera bianca, trecento metri circa di diametro, fluttuava alta sopra le cupole blu e argento del Collam Daan.

Mierin aveva detto che oggi era il giorno. Aveva detto di aver trovato una nuova sorgente dell’Unico Potere. Le donne e gli uomini Aes Sedai sarebbero stati in grado di attingere dalla stessa fonte, non da metà separate. Ciò che uomini e donne potevano realizzare uniti sarebbe stato anche più grande adesso che non ci sarebbero state differenze. E oggi lei e Beidomon lo avrebbero fatto per la prima volta. L’ultima volta che uomini e donne avrebbero lavorato assieme adoperando un Potere differente. Oggi.

Ciò che sembrava una minuscola scheggia di filato bianco emergeva dallo Sharom in un fuoco nerissimo; discendeva, ingannevolmente lento, insignificante. Quindi un centinaio di filamenti sprizzò ovunque attorno all’enorme sfera bianca. Lo Sharom si spaccò come un uovo e iniziò una lenta discesa, cadendo, un inferno di ossidiana. L’oscurità si estese nel cielo, ingoiando il sole in una notte innaturale, come se la luce di quelle fiamme fosse oscurità. La gente gridava, si sentivano strilli ovunque.

Con il primo spruzzo di fuoco, Charn incominciò a correre verso il Collam Daan, ma sapeva che era troppo tardi. Aveva giurato di servire le Aes Sedai, ed era troppo tardi. Le lacrime gli scendevano sul viso mentre correva.

Battendo le palpebre per disperdere i puntini che gli fluttuavano davanti agli occhi, Rand si strinse la testa fra le mani. L’immagine ancora gli vagava nella mente, quella sfera enorme che bruciava nera, cadendo. Ho visto davvero scavare il buco nella prigione del Tenebroso? L’ho fatto? si chiedeva Rand. Stava in piedi al limitare delle colonne di vetro, fissando l’albero di Avendesora che si trovava fuori. Un albero chora. Una città è un territorio selvaggio senza un albero di chora. E adesso ce n’è solo uno. Le colonne risplendevano nel bagliore blu proveniente dalla cupola di nebbia sopra la sua testa, ma, ancora una volta, la luce sembrava solamente una serie di riflessi brillanti. Non c’era segno di Muradin; non credeva che l’Aiel fosse uscito dalla foresta di vetro. O che lo avrebbe mai fatto.

Di colpo qualcosa attirò la sua attenzione, in basso fra i rami dell’Albero della Vita. Una sagoma che penzolava lentamente. Un uomo impiccato a un palo incastrato fra due rami, con una corda attorno al collo.

Con un silente ruggito, corse verso l’albero, afferrando saidin, la spada fiammeggiante gli apparve nelle mani mentre balzava, tagliando la fune. Lui e Mat colpirono la pavimentazione di pietra bianca polverosa con tonfi gemelli. Il palo si liberò e cadde a terra al loro fianco; non un palo, ma una strana asta nera di una lancia con una piccola lama di spada invece che una punta, leggermente incurvata e con un solo filo. A Rand non sarebbe importato se fosse stata d’oro e cuendillar, incastonata con zaffiri e rubini.

Rilasciando Potere e spada, tolse la corda dal collo di Mat e pressò un orecchio sul petto dell’amico per auscultarlo. Nulla. Disperatamente strappò la camicia e la giubba di Mat, spezzando il laccio di cuoio attorno al collo al quale era appeso un medaglione d’argento. Lanciò l’oggetto di lato, ascoltando di nuovo. Nulla. Nessun battito cardiaco. Morto. No! Sarebbe stato meglio se non avessi lasciato che mi seguisse quaggiù. Non posso lasciarlo morto! pensò.

Con la massima forza colpì Mat sul petto a pugni chiusi, ascoltando. Nulla. Colpì nuovamente, ascoltò. Sì. C’era. Un battito debole. Così debole, così lento. E stava rallentando. Mat però era ancora vivo, malgrado il segno porpora che aveva attorno al collo. Poteva ancora essere mantenuto in vita.

Riempiendosi i polmoni, Rand si predispose a effettuare la respirazione artificiale con tutte le sue forze. Ancora. Ancora. Quindi si mise a cavalcioni, lo afferrò per la vita dei pantaloni e lo sollevò, facendo alzare i fianchi dal pavimento. Su e giù, tre volte, quindi nuovamente la respirazione artificiale. Avrebbe potuto incanalare; forse in quel modo poteva fare qualcosa. Il ricordo di quella ragazzina nella Pietra lo fermò. Voleva che Mat vivesse. Vivo, non che fosse un pupazzo mosso dal Potere. Una volta a Emond’s Field aveva visto mastro Luhan rianimare un ragazzo trovato a galleggiare nelle acque della Fonte del Vino. Per cui respirava e sollevava, respirava, sollevava e pregava.

Di colpo Mat sobbalzò, tossendo. Rand si inginocchiò al suo fianco mentre Mat si portava le mani alla gola rotolando su un fianco, succhiando l’aria con un agonizzante rumore secco.

Mat toccò il pezzo di corda con una mano e rabbrividì. «Quei maledetti... figli... di capra» borbottò rauco. «Hanno provato... a uccidermi.»

«Chi è stato?» chiese Rand guardandosi attorno circospetto. I palazzi incompiuti attorno alla grande piazza piena di oggetti lo fissavano. Certamente nel Rhuidean non c’era nessuno, eccetto loro due. A meno che Muradin fosse ancora vivo, da qualche parte.

«La gente... dall’altro lato... di quella... soglia ritorta.» Deglutendo dolorosamente, Mat si sedette e fece un lungo e irregolare respiro. «Ce ne è una anche qui, Rand.» Sembrava ancora che la gola gli raschiasse.

«Hai potuto attraversarla? Hanno risposto a qualche domanda?» Questo poteva essere utile. Aveva disperatamente bisogno di altre risposte. Mille domande, e troppo poche risposte.

«Niente risposte» rispose Mat raucamente. «Mi hanno imbrogliato. E hanno provato a uccidermi.» Mat raccolse il medaglione, una testa d’argento di volpe che quasi gli riempiva il palmo, e, dopo un momento, se lo mise in tasca facendo una smorfia. «Almeno ho ottenuto qualcosa da loro.» Tirando a sé la strana lancia, vi fece scorrere le dita sopra. Una linea di una strana scrittura risaliva lungo di essa, racchiusa fra due uccelli intarsiati di metallo, anche più scuri del legno. Rand pensava fossero corvi. Un’altra coppia era incisa sulla lama. Con una risata asciutta e brusca Mat si alzò, appoggiandosi parzialmente alla lancia, la lama di spada all’altezza del capo. Non si scomodò ad allacciarsi la camicia o abbottonarsi la giubba. «Mi terrò anche questa. È un loro scherzo, ma la terrò.»

«Uno scherzo?»

Mat annuì. «Ecco cosa dice:

Così il trattato è stato scritto; così l’accordo raggiunto.

Il pensiero è la freccia del tempo; le memorie non scompaiono mai.

Ciò che è stato chiesto è stato concesso. Il prezzo è pagato.

«Uno scherzo divertente, come vedi. Li farò a fette con il loro stesso scherzo, se mai ne avrò la possibilità. Glieli davo io ‘pensiero e memorie’.» Mat sussultò, passandosi una mano fra i capelli. «Luce, quanto mi fa male la testa. Mi gira e vedo come un migliaio di brani di sogni, ognuno un ago. Credi che Moiraine farà qualcosa a riguardo se glielo chiedo?»

«Sono certo che lo farà» rispose lentamente Rand. Mat doveva stare molto male se cercava l’aiuto di un’Aes Sedai. Guardò nuovamente l’asta scura della lancia. La maggior parte della scritta era coperta dalla mano di Mat, ma non tutta. Qualunque cosa fosse, non aveva idea di cosa dicesse. Come aveva fatto Mat? Le finestre vuote del Rhuidean lo fissavano canzonandolo. Sembravano dire ‘nascondiamo molti, segreti’. Più di quanto pensi. Peggiori di quanto credi. «Torniamo indietro adesso, Mat. Non mi importa se dobbiamo attraversare la valle durante la notte. Come hai detto tu, sarà fresca. Non voglio restare ancora qui.»

«Mi sembra assolutamente perfetto» rispose Mat, tossendo. «Purché ci fermiamo di nuovo a bere a quella fontana.»

Rand manteneva il passo di Mat che all’inizio era lento e barcollante mentre usava la strana lancia come bastone da passeggio. Si fermò una volta per guardare le due figurine di un uomo e una donna che tenevano le sfere di cristallo, ma le lasciò dov’erano. Non ancora, non per molto tempo. Non ancora. Non per molto tempo ancora, se era fortunato.

Quando si lasciarono la piazza alle spalle, i palazzi incompleti che arretravano lungo le strade avevano un aspetto minaccioso, i tetti seghettati ricordavano le mura di grandi fortezze. Rand abbracciò saidin, anche se non vedeva una reale minaccia. Ma la percepiva, come se degli occhi omicidi gli perforassero la schiena. Il Rhuidean era pacifico e vuoto, privo di ombre nel bagliore blu della cupola di nebbia. La polvere nelle strade si increspava nel vento... Il vento. Non c’era vento.

«Oh, che sia folgorato» mormorò Mat. «Mi sa che siamo nei guai, Rand. Succede sempre, a starti intorno. Mi metti sempre nei guai.»

Le increspature adesso erano più veloci, scivolando tutte assieme per creare linee più spesse, sempre tremanti.

«Puoi camminare più veloce?» chiese Rand.

«Camminare? Sangue e cenere, posso correre.» Mettendosi la lancia davanti al petto, Mat tenne fede alle sue parole e iniziò a correre disordinatamente.

Correndogli a fianco, Rand evocò nuovamente la spada, incerto di cosa avrebbe potuto fare contro delle linee ondeggianti di polvere, incerto che ve ne fosse davvero bisogno. Che fosse davvero polvere. No, non lo è, maledizione. Si tratta di una di quelle bolle. Il male del Tenebroso, che scivola lungo il Disegno, alla ricerca dei maledetti ta’veren, si disse. So che lo è.

Tutto attorno a loro la polvere ondeggiava e tremava, diventando sempre più spessa, rimbalzando e riunendosi. D’improvviso, proprio davanti a loro, una sagoma arretrò in una vasca di una fontana asciutta, la figura solida di un uomo, scura e priva di lineamenti, con dita come artigli affilati. Balzò loro addosso senza il minimo rumore.

Rand si mosse d’istinto — la luna sorge sulle acque — e la lama di Potere trapassò la figura scura. In un battibaleno fu solamente una densa nuvola di polvere che scendeva verso il pavimento.

Altre però la rimpiazzarono, figure nere senza volto che arrivavano da tutte le direzioni, non una uguale all’altra, ma tutte con gli artigli protesi. Rand eseguiva le figure di scherma in mezzo a loro, la lama intesseva motivi intricati nell’aria, lasciandosi solo il pulviscolo alle spalle. Mat usava la lancia come un bastone da combattimento, un movimento confuso, ma affondava la lama nelle creature quasi avesse usato quell’arma da sempre. Le creature morivano — o almeno tornavano a essere polvere — ma erano tante e veloci. Il sangue colava sul viso di Rand, e la vecchia ferita sul fianco bruciava sul punto di aprirsi nuovamente. Il rosso si spandeva anche sul viso di Mat, e sul petto. Troppi e troppo veloci.

Non riesci a eseguire un decimo di quanto sei già in grado di fare, pensò Rand. Era quanto gli aveva detto Lanfear. Rise mentre eseguiva le figure. Imparare da una dei Reietti. Poteva farlo, se non nel modo in cui voleva lei. Sì, poteva. Incanalò, intessendo flussi di Potere e mandò un mulinello nel centro di ogni figura nera. Esplosero in nuvole di polvere che lo lasciarono con la tosse. Per quanto vedeva, la polvere adesso, si stava depositando.

Dolente e ansante, Mat si appoggiò alla lancia con il manico scuro. «Sei stato tu?» sibilò, pulendosi il sangue dagli occhi. «Era ora. Se sapevi come, perché non lo hai fatto subito, maledizione?»

Rand si mise a ridere ancora — perché non ci ho pensato. Perché non sapevo come farlo finché non l’ho fatto — ma si trattenne. La polvere stava scendendo, e mentre si depositava al suolo, iniziò a incresparsi. «Corri!» gridò. «Dobbiamo uscire da qui. Corri!»

Corsero affiancati verso la nebbia, sferrando fendenti a ogni linea di polvere che sembrava si stesse ispessendo, scalciandola, qualunque cosa per evitare che solidificasse. Rand inviava mulinelli selvaggiamente in ogni direzione. La polvere dissipata ricominciava immediatamente a riunirsi, tremante adesso, anche prima che raggiungesse il suolo. Continuavano a correre, verso e attraverso la nebbia, finché spuntarono fuori in una debole luce dalle ombre ben delineate.

Con il fianco dolorante, Rand si voltò di scatto pronto a tentare i fulmini o il fuoco, qualsiasi cosa. Dalla nebbia non uscì nulla che li inseguisse. Forse per quelle figure scure la nebbia era un muro. Forse li tratteneva all’interno. Forse... Non lo sapeva. Non gli importava veramente, purché quelle cose non potessero inseguirlo.

«Che io sia folgorato» mormorò rauco Mat. «Siamo rimasti là dentro tutta la notte. È quasi l’alba. Non credevo fosse trascorso tanto tempo.»

Rand fissava il cielo. Il sole non aveva ancora raggiunto le montagne; un brillante nembo contornava i picchi seghettati delle montagne. Lunghe ombre si proiettavano nella valle. ‘Verrà dal Rhuidean all’alba, e vi legherà con legami che non potrete spezzare. Vi riporterà indietro e vi distruggerà’, si rammentò.

«Ritorniamo sulla montagna» disse con calma. «Ci staranno aspettando.» Aspettando me, pensò.

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