L’eterogeneo gruppo di schiavi era ancora là dove l’avevano incontrato, e dalle voci confuse e indisciplinate che li raggiunsero nella foschia compresero che stavano altercando. Rheba non aveva smesso di accumulare energia, operazione alla quale le Linee di Potenza sottocutanee rispondevano lucendo appena, e Kirtn sapeva che quell’esercizio incessante non le riusciva facile. Una Danzatrice del Fuoco, specialmente giovane, aveva bisogno di pause nel maneggiare le forze subatomiche, ed ella non se ne stava concedendo. Il Bre’n si aspettava che da un momento all’altro ne pagasse la fatica, ma nella situazione in cui erano anch’egli doveva appoggiarsi alle facoltà della ragazza.
«Le loro uniche armi sono sassi e bastoni», constatò. «Mi chiedo perché si siano uniti in una banda».
Rheba gli si strinse al fianco. «Forse ci conviene girare al largo, prima che ci vedano».
Il sentiero scorreva lungo una radura erbosa, in fondo alla quale si alzava una fitta parete di alberelli. Kirtn gettò alla zona un’occhiata incerta. «Mi sembra troppo facile. Forse si aspettano proprio questo. Potremmo cadere dalla padella nella brace».
Una folata di vento diradò la nebbia, consentendo agli individui di scorgerli. Dal loro atteggiamento si sarebbero detti trucemente sicuri che le loro prede non potevano fuggire. Rheba disse al compagno di non muoversi, uscì dal sentiero e finse di scappare lateralmente nella radura. La cosa parve non fare né caldo né freddo agli schiavi. Alcuni ridacchiarono, le loro intenzioni rimasero più imprescrutabili che mai, e nessuno si mosse per tagliarle la strada. Dopo una decina di passi la giovane donna fece dietrofront e tornò in fretta accanto a Kirtn.
«Non mi piace. Quelli conoscono la zona, e se ci lasciano fuggire di là significa che ci aspetta una trappola».
Kirtn strinse i denti. «Sono troppi, e tu sei stanca. Inutile andarci tanto per il sottile, Danzatrice».
Il Bre’n non disse altro, lasciando che la sua Akhenet capisse da sola. Uccidere costava a una Danzatrice del Fuoco molta meno fatica che ferire o stordire: un semplice tocco della mente le bastava per assorbire energia, e nessun cuore umano poteva continuare a battere senza l’impulso elettrico del suo centro nervoso. Per colpire le era invece necessario incanalare grandi quantità di particelle subatomiche, e quindi proiettarle con violenza verso il bersaglio. Costrette a creare intensi campi magnetici, le Linee di Potenza andavano sotto sforzo, e questo poteva avere serie conseguenze su un fisico che non riposava da molte ore.
Rheba ripensò ai cadaveri che avevano visto. Nessuno di loro aveva chiesto di venir lì a lottare ed a morire, neppure quegli schiavi che la sorte aveva trasformato in animali da preda.
«Ucciderò solo se sarò costretta», disse, a disagio. «E poi la cosa richiede più concentrazione, anche se é meno faticosa. Sai che io non …» La sua voce si spense in un borbottio.
Lui le fece una carezza. «Ti capisco», mormorò, pensando che sarebbe toccato a lui proteggerla, e che non ne era all’altezza.
«Forse sarà sufficiente bruciacchiarli un poco. Loro non hanno mai visto una Danzatrice del Fuoco al lavoro».
Il Bre’n tacque. La decisione spettava a lei. Doveva essere così, o non avrebbe più avuto vera fiducia in lui né in se stessa.
La ragazza si concentrò su un cespuglio a mezza strada fra loro e la torma degli schiavi. Quando finalmente l’arbusto cominciò a tremolare, sollevò le mani e dalle sue dita scaturì un filamento di energia d’un giallo brillante. Il gesto in sé stesso non era necessario, ma a quel modo l’effetto psicologico su chi osservava era maggiore.
Il cespuglio avvampò di fiamme. Allo spettacolo imprevisto gli individui si scambiarono commenti sottovoce, tuttavia non indietreggiarono affatto. Quello che sembrava il loro capo si mosse anzi baldanzosamente verso il piccolo incendio, controllò che non fosse un’illusione, quindi tese le braccia per scaldarsele al fuoco. Tutti gli altri si affrettarono ad imitarlo vociando come scimmie, è congratulandosi con l’individuo quasi a procurar loro quella fonte di riscaldamento fosse stato lui stesso.
Le fiamme si spensero di colpo, richiamate dalla Danzatrice disgustata e furente. Subito dopo le chiome di tutti gli schiavi presero a strinarsi e mandare fumo, arse dalle lingue d’energia violetta che s’erano accese nell’aria e svolazzavano sulle loro teste. Gli uomini e le donne della banda corsero da una parte e dall’altra, gridando e sferrando bastonate a quegli uccelli di fiamma, solo per scoprire che le lingue d’energia rovente li inseguivano con pertinacia e producevano dolorose ustioni.
Rheba lavorò senza sosta, mentre lungo le sue braccia le Linee di Potenza Akhenet prendevano a rifulgere d’oro. Decine di focherelli aerei guizzavano sulle schiene e fra le gambe degli schiavi. Alcuni caddero a terra, un paio decisero d’averne abbastanza e fuggirono, poi il loro capo sbraitò ordini inferociti e prese a calci gli altri finché riuscì a farsi ubbidire: agitando le loro rozze armi gli uomini corsero all’attacco ululando come bestie.
Una gragnuola di pietre costrinse Rheba a fuggire indietro, e nell’agitazione del momento dovette smettere di proiettare energia. Prima che potesse riaversi, la torma degli assalitori fu loro addosso.
La maggior parte degli schiavi preferì attaccare Kirtn, invece della ragazza dalle cui mani avevano visto nascere il fuoco, ed ella ne approfittò per scappare fra i cespugli. Riuscì ad evitare d’esser presa, ed intanto le giunsero alle orecchie rauche urla di dolore: alcuni di quei selvaggi si stavano accorgendo di cosa significava lottare contro un Bre’n. Ma erano troppi, e quando gli si aggrapparono alle gambe e alle braccia riuscirono a rovesciarlo a terra.
In quel momento anche Rheba inciampò e cadde fra gli sterpi. Nel rialzarsi vide il compagno sepolto sotto i corpi nudi e sporchi di numerosi avversari, e mandò un gemito. La mischia era feroce, e il gruppo si affollava intorno a lui come sciacalli che attendessero il loro turno di mordere. Un fischio in linguaggio Bre’n raggiunse la ragazza: Kirtn le stava ordinando di fuggire finché ne aveva il modo. Poi nella nebbia ci furono soltanto gli ansiti, i pugni e i colpi di bastone.
Rheba si mosse barcollando verso gli schiavi. Una donna le si gettò addosso allacciandola alla cintura con le braccia, e un’altra le attanagliò le mani alla gola cercando di rovesciarla, ma entrambe vacillarono indietro strillando, stordite dalla scossa elettrica che ella aveva emanato per riflesso istintivo. Disperatamente gridò il nome di Kirtn, poi assorbì ciecamente energia dai cespugli che ancora bruciavano, dalla luce solare, dalla cupola del campo di forza e da ogni altra sorgente che riuscì a raggiungere. Sottili linee di fuoco percorsero il mucchio di corpi umani, simili a rapidi fulmini, e dove toccarono la carne lasciarono piaghe rosse e fumanti.
Gli schiavi sussultarono e rotolarono via, agitandosi nel fango, e fra essi si alzò in piedi la figura ricurva del Bre’n con due o tre avversari appesi addosso. Il capo della banda afferrò un massiccio bastone, gli corse alle spalle e lo raggiunse alla nuca con un colpo che lo fece piombare al suolo privo di sensi.
A quella vista Rheba perse il poco controllo che era riuscita a conservare, e alzò le braccia inorridita: da essa nacque un vento di fiamma simile all’alito di un drago, che dissolse la nebbia e provocò un boato per lo spostamento d’aria. Dalle punte delle sue dita fino alle spalle, l’arabesco di filamenti dorati sotto la cute brillava intenso, proiettando nuvole di morte rovente che spazzavano il terreno.
Il capobanda fu investito da un fulmine che zigzagava orizzontalmente e la sua carne bruciò sfrigolando. Accanto a lui tutti quelli che si trovavano in posizione eretta furono arsi vivi, mentre chi era steso al suolo presso il Bre’n poté ringraziare quella circostanza che casualmente lo aveva salvato. Una dozzina di donne e cinque uomini fuggirono in preda al panico fra la vegetazione che bruciava, lasciando dietro di sé solo morti e feriti.
Rheba cercò di richiamare energia per far spegnere quei piccoli incendi, fra i quali vedeva contorcersi dei corpi umani, ma non ne fu capace. Provava orrore per sé stessa. Quella scena le riusciva atrocemente familiare, e nella sua mente si sovrapponeva ad altre uguali nel loro contenuto di fuoco e di morte: i Senyasi ed i Bre’n che abbandonavano terrorizzati una stazione dietro l’altra, mentre i deflettori cedevano e l’alito della nova s’abbatteva sulla superficie di Deva. I Danzatori e le Danzatrici del Fuoco, che in ogni luogo cercavano di respingere il plasma stellare per difendere quanti più potevano, e venivano infine annientati loro stessi … Dovette urlare dentro di sé, per respingere le immagini che scaturivano da quell’angolo proibito della sua memoria. Cadde in ginocchio accanto al Bre’n e gli prese la testa fra le mani.
«Kirtn! …», singhizzò, cercando di non vedere quello che lo scatenarsi del suo fuoco poteva avergli fatto.
Dopo quella che le parve un’attesa interminabile il compagno aprì gli occhi. Nelle sue iridi d’oro si riflessero le Linee di Potenza che ancora brillavano sulla braccia di lei. Cercò di tirarsi a sedere, emise un grugnito e si sollevò su un gomito, poi con uno sforzo riuscì a mettersi in ginocchio. Il suo sguardo si soffermò sui corpi di alcuni schiavi letteralmente arrostiti, e sugli sterpi che crepitavano dappertutto. Si volse a guardare la ragazza tremante e per un poco non disse nulla, ma alzò una mano a carezarle una guancia con un gesto d’affetto che voleva consolarla del suo spavento.
Appoggiandosi a lei si rimise in piedi. I riflessi dei numerosi incendi, nella nebbia che tornava ad addensarsi, erano luci ed ombre che giocavano sui loro corpi nudi e infangati.
«Mi dispiace, piccola Danzatrice», sospirò. «Non per loro … credo che pochi sarebbero sopravvissuti comunque. So che quel che hai fatto è contrario alla tua natura».
«Io … non mi sono neppure accorta di quel che stavo facendo». Rheba rifiutava di guardare i cadaveri. «Tutto ciò che sapevo era che non dovevo colpire te. Io non vorrei più vivere, Kirtn, se tu morissi».
La ragazza si osservò le braccia, dove nuove Linee di Potenza si erano aggiunte alle altre complicandone il sottile arabesco. Man mano che si opacizzavano e spegnevano, cominciavano a pruderle forte. Se le grattò leggermente, quasi lieta di quell’occupazione che le distraeva la mente. Poi si appoggiò a una spalla di lui.
«Andiamocene da questo posto», lo pregò.
Tenendosi per mano si allontanarono in fretta. Rheba avrebbe desiderato lasciare dietro di sé quella nebbia e tornare alla luce del sole, ma l’umida caligine sotto la cupola del campo di forza velava tutto, come nella mezza luce di un sogno che non aveva risveglio. Quando accelerarono il passo sul sentiero la fatica fisica fu quasi la benvenuta. Le impediva di pensare con chiarezza, e teneva la sua attenzione fissa su cose insignificanti.
Un boschetto di alberi fronzuti emerse dalla foschia. Erano forniti di rami sottili che si stagliavano alti, e le loro foglie filiformi si agitavano come alghe in preda alla corrente. Ma nella zona non c’era un alito di vento.
I due si fermarono meravigliati. Davanti a loro il sentiero si divideva. Una diramazione s’inoltrava dritta fra gli alberi, la cui fronde color lavanda la ricoprivano piacevolmente, e terminava sulla riva di uno specchio d’acqua che era tutto un invito al riposo.
Avanzando cautamente Kirtn osservò con desiderio il piccolo stagno circolare, dove gli alberi allungavano le. loro radici ramificate come a suggerne l’acqua. Avrebbe potuto raggiungerlo in una ventina di passi, e sebbene insospettito fremeva per la voglia di bere e di lavarsi le ferite in quel liquido cristallino.
«No. C’è qualcosa di strano, Kirtn», lo fermò lei.
«Lo so. Ma cosa?»
«Vorrei non avere tanta sete. Mi rende difficile persino star qui a pensare», si lamentò Rheba fissando la polla d’acqua. Poi trasalì. «Forse siamo arrivati! … Jal ha detto che al centro del Rifugio c’è un pozzo. Potrebbe essere questo».
«Tu credi?»
Lei chiuse gli occhi e tese le sue facoltà a captare le sottili correnti energetiche verso la muraglia perimetrale. Poi scosse il capo. «No. Sento che la recinzione è vicina da un lato, ma molto lontana da quello opposto. Questo non può essere il centro».
Kirtn si chinò a raccogliere un pesante sasso, calcolò la distanza e lo scagliò nel mezzo dello stagno. L’acqua zampillò alta, ma con strani riflessi argentei e sprigionando una nuvoletta di fumo.
«Acido», commentò Rheba con una smorfia. Poi indietreggiò. «Guarda!»
Sui bordi della polla le radici degli alberi si stavano torcendo come fasci di serpenti vegetali. Pochi secondi dopo una di esse emerse dal liquido ritorta attorno al sasso, e lo trascinò a riva. Ai due parve che venisse esaminato, analizzato in cerca di sostanze organiche e quindi scartato. I vegetali tornarono allo stato di quiete in attesa della prossima preda.
«Morodan?», chiese Rheba, ripensando ancora a quel che aveva detto Jal.
«Trykke, direi. Esseri vegetali del Secondo Popolo».
La ragazza osservò il boschetto di piante come affascinata. Non le era mai capitato di vedere vegetali senzienti, così complessi e di tali dimensioni.
«Mi chiedo come avranno fatto a trapiantarli qui. Chissà cosa pensano e cosa dicono, mentre aspettano che qualcuno venga a dissetarsi nel loro stagno di acido».
«Quello è il loro stomaco. E dall’altezza che hanno raggiunto, credo che si trovino qui da molti secoli».
«Potrebbero essere diventati pazzi, in questo ambiente?»
Kirtn sorrise. «Può darsi. Oppure sono soltanto Addomesticati. Degli schiavi anche loro».
«Schiavi vegetali?», Rheba rabbrividì.
Il Bre’n le fece cenno di seguirlo, e s’incamminarono sul sentiero girando al largo delle piante. Una cinquantina di metri più avanti dalla foschia provenne un gemito che li fece arrestare ancora, allarmati. In una radura erbosa, una donna umanoide dalla pelle coperta di peluria liscia giaceva accanto a due bambini della stessa razza. Appariva ferita gravemente e incapace di muoversi. I piccoli, un maschio e una femmina, le si stringevano addosso in cerca di calore e di conforto.
Nel vedere Rheba che si avvicinava la donna ansimò qualcosa in lingua universale, e ordinò ai bambini di scappare a nascondersi. I figli si alzarono tremando, indecisi se ubbidire o starle accanto, infine corsero fra i cespugli non troppo distante da lì e si acquattarono spaventati, tenendo gli occhi fissi sulla madre.
«Non aver paura», disse Kirtn, rassicurante. «Non vogliamo far del male né a te né ai bambini, credimi».
Lei non rispose. Da una brutta ferita al fianco sinistro le colava un rivolo di sangue, e appariva ormai allo stremo. Guardò Rheba con occhi dove non c’era paura, ma solo una rassegnazione animalesca a qualunque cosa stessa per accaderle. Tremava per il freddo e per la sfinitezza.
Rifiutando di pensare a un’altra trappola la giovane Senyasi le si accostò con decisione, mentre Kirtn la seguiva cauto a distanza di sicurezza pronto a intervenire in caso di pericolo. Si chinò sulla donna ad esaminare le sue condizioni e il Bre’n rimase di guardia. Era un’umanoide ancor giovane, notevolmente ben fatta e robusta, ma le sue possibilità di sopravvivere erano defluite da lei col sangue che inzuppava il terreno.
Non c’era nulla che Rheba potesse fare per una ferita di quel genere. Non aveva acqua né medicinali, e neppure una veste da fare a pezzi per ricavarne un bendaggio. La donna aveva le labbra screpolate per la sete e respirava con difficoltà, ed i suoi occhi cercavano i bambini come se non riuscisse a pensare che a loro.
«Mi spiace per te», mormorò Rheba. «Come possiamo aiutarti?»
L’altra scosse il capo. «I miei bambini hanno freddo. Se ve ne andate, torneranno da me a scaldarsi».
«Un fuoco! Vuoi un fuoco?», chiese subito lei.
«Sì … Aiutate i miei bambini», gemette lei, comprimendosi il fianco. «Per me è finita, lo sento».
Rheba si volse a fissare un cespuglio isolato. Pochi secondi dopo le fronde si mossero come animate di vita e ne nacquero fiammelle. Kirtn andò a raccogliere una ventina di rami spezzati e li sistemò sul focherello, costruendo un piccolo falò a regola d’arte. Poi con un gesto invitò i due bambini a scaldarsi, e si rimise di guardia. Non rimproverò la Danzatrice del Fuoco d’aver speso altre preziose energie, né le rivelò quel che lui aveva ormai capito di quel gioco mortale: nel Recinto la durata del periodo di Addomesticamento era proporzionale al numero di concorrenti che si riusciva ad uccidere, e non già a salvare. Chi non era spietato, fortunato e vittorioso, era soltanto una vittima destinata a finire fra gli scarti. Tutto faceva pensare che la compassione umana fosse una dote di nessun valore, nella lotta per la sopravvivenza sul pianeta Loo. Anzi poteva essere un lusso pericoloso.
Il Bre’n tenne quelle riflessioni per sé, sapendo che la sua giovane Danzatrice si sarebbe soltanto irritata nel sentirsi esporre una constatazione così cinica. La stessa essenza psichica degli Akhenet, a livello genetico, era tutta una spinta a sacrificarsi per gli altri. E proprio quell’istinto insopprimibile aveva reso peggiore il loro olocausto su Deva.
«Credi che io possa tentare di cauterizzare la ferita?», chiese Rheba.
«Troppo tardi. Per lei è finita».
«E i bambini?»
«Sì. Ma dopo che sarà andata».
A capo chino la ragazza sedette sul terreno scabro. Grigi refoli di nebbia vagavano fra una vegetazione a lei sconosciuta, smossi dall’aria calda che emanava dal fuoco. La donna scivolò pian piano nell’incoscienza, ansimando a tratti,e i due bambini corsero a stringersi a lei. Kirtn era tentato di metter fine rapidamente e senza dolore a quell’agonia, ma gliene mancò la forza. Nell’osservarla aveva l’impressione che tentasse fino all’ultimo di restare aggrappata alla vita, per amore dei suoi piccoli o forse sperando ancora in un miracolo. Non si chiedeva più quale legge avesse dato il diritto a qualcun altro di. condannarla. Tutto ciò che aveva potuto fare era stato di difendere i suoi bambini e poi di morire. Il Bre’n strinse i denti, fissando il fuoco senza vederlo.
«Prima o poi», sussurrò Rheba, «incontrerò ancora il Loo-chim. Quei due dovranno assaggiare l’inferno per mano mia».
Kirtn la guardò inespressivo. «Lascia uno di loro anche per me, Danzatrice del Fuoco».
Lei gli sfiorò una mano velata di peluria. «Te lo prometto», disse sottovoce.
Il corpo della donna ebbe un lieve sussulto, come un ultimo tentativo di sollevarsi, poi la vita si spense nei suoi occhi miti ed ella ricadde inerte. Kirtn e Rheba si alzarono e s’avvicinarono al maschietto e alla femminuccia, che inconsapevoli della morte della madre si stringevano ancora al suo corpo. Un ramoscello che si spezzò sotto un piede della ragazza li fece sussultare.
Per un attimo ancora i due piccoli si addossarono al cadavere, sbarrando gli occhi su di loro in preda al panico. Poi, prima che Kirtn riuscisse a fermarli, balzarono in piedi e fuggirono disperatamente.
«No, tornate indietro!», gridò Rheba. «Per favore, vogliamo solo aiutarvi!»
Ma gli altri due non la ascoltarono neppure. Avevano già capito troppo bene quali leggi brutali imperassero nel Recinto, e non potevano più fidarsi di nessuno. Ignorando i richiami accorati della ragazza scapparono lungo il sentiero.
«No!», urlò Rheba, nel rendersi conto che si precipitavano dritti fra gli alberi viventi del Secondo Popolo. «Noo!»
Il Bre’n e la giovane Senyasi li inseguirono di corsa, e pochi secondi dopo videro di nuovo il boschetto: disturbati dal passaggio dei bambini gli esseri vegetali stavano agitando i rami.
«Tornate indietro!», gridò ancora lei.
Il maschio fu quello che raggiunse per primo la riva dello stagno circolare, ma una volta lì si arrestò di colpo, spaventato dall’odore di acido che permeava la zona. Poi si volse e spinse lontano la sorellina, che rotolò al suolo. Proprio in quel momento una grossa radice si sollevò e lo colpì con forza, mandandolo a cadere nel liquido mortale. Il bambino mandò un grido acuto, annaspò qualche attimo e scomparve sotto la superficie argentea dell’acido, che s’increspò di bolle ed emanò una nuvoletta di vapore. La femminuccia si rialzò e vacillò fra le radici, gemendo. La peluria del suo corpo rifletteva i bagliori metallici dello stagno. Continuava a guardarsi attorno in cerca del fratello, senza rendersi conto che era scomparso e che lo stomaco liquido degli esseri del Secondo Popolo l’aveva già ingoiato. Poi corse indietro, ma le radici scattarono intorno a lei come un groviglio di tentacoli e la afferrarono, sollevandola da terra.
Rheba, che stava sopraggiungendo di corsa, a quello spettacolo non poté reprimere un grido d’orrore. I rami semoventi stringevano il corpicino della sventurata e la squassavano da una parte e dall’altra nel tentativo di trascinare anche lei nella polla. Rheba urlò ancora, come in un incubo, e continuò a urlare anche mentre Kirtn la tirava indietro a viva forza.
Solo in quel momento la ragazza si rese conto d’essersi gettata anch’essa fra la vegetazione, nel cieco tentativo di raggiungere la piccola. I rami sferzavano l’aria colpendoli da tutte le direzioni. Con un guizzo si divincolò dalle braccia del Bre’n, e all’istante un bagliore di energia fuori controllo la avvolse con un crepitio, costringendo sia il compagno che i viticci vegetali a scostarsi da lei. Poi corse avanti, senza udire le grida del suo Mentore che cercavano di far presa sui suoi riflessi condizionati. Kirtn la raggiunse e la afferrò per le spalle.
Di colpo tornò a rendersi conto della presenza di lui, udì quel che le stava urlando nelle orecchie e si fermò. Le radici e i viticci a lei più vicini vennero carbonizzati dalla vampa che diresse contro un albero, e la grossa pianta arse in un istante fino alla cima. Gli altri vegetali reagirono scostando le fronde, spaventati dal loro più terribile nemico, il fuoco. Ma l’energia proiettata da Rheba dardeggiava ovunque, e i rami si contorsero e si spezzarono fiottando linfa rossa come il sangue. Un gemito ultraterreno che sembrava provenire dal sottosuolo vibrò nell’aria, quando le piante senzienti dimenticarono ogni altra cosa nel dolore agonizzante dell’incendio che le divorava. Il corpo della bambina venne lasciato cadere a terra.
Rheba corse a chinarsi sulla figuretta inerte, e la prese fra le braccia per sollevarla. Poi vide il sangue che le usciva dal naso e dalle orecchie, e sentì le sue ossa spezzate. Kirtn la fece rialzare quasi brutalmente.
«È morta. Vieni via!», le ordinò. «Qui si soffoca».
La ragazza si divincolò. Altre saette di luce ardente crepitarono diramandosi fra le piante, e appiccarono il fuoco a tutto ciò che non carbonizzavano all’istante. Il grido di morte del Secondo Popolo fu surclassato dal ruggito delle fiamme. Per un poco gli alberi continuarono a torcersi come impazziti, e alcuni tentarono di svellere le radici dal suolo come per allontanarsi, finendo però per abbattersi. Non poteva esserci scampo da una Danzatrice del Fuoco ormai desiderosa soltanto di vendetta: nel giro di pochi minuti anche i tronchi più grossi furono consumati, e del bosco vivente non rimasero che monconi anneriti su cui vagavano turbini di cenere.
Rheba vacillava nel fumo acre che li avvolgeva. Poi tossì e cadde in ginocchio accanto al compagno, stordita e semisoffocata.