Il pavimento era gelido e polveroso. Le catene che le avevano assicurato ai polsi, alle caviglie e al collo erano in una lega metallica che assorbiva calore da qualunque cosa toccasse. Gocce d’umidità stillavano dalle pareti scrostate, e sul soffitto c’erano chiazze di muffa. Ma la ragazza non era in grado di apprezzare la vista poco confortante di ciò che la circondava: giaceva al suolo ad occhi chiusi e priva di sensi, contratta in posizione fetale come se anche nell’incoscienza cercasse per istinto di conservare un po’ di calore corporeo.
Ingarbugliato fra i suoi capelli, Fssa mandò un suono a metà fra un gemito e il nome di lei: «Rheba … Rheba, svegliati!», la implorò, imitando la voce di Kirtn nel tentativo di scuoterla. «Qui è freddo. Alzati e fai un po’ di fuoco … Per favore!»
La voce del serpentello era un sussurro lontano, ai limiti della sua coscienza, una cosa del tutto priva d’importanza per la parte della mente con cui la udiva. Ma non taceva mai. Quelle frasi continuavano a infastidirla, dapprima in Senyas, poi in Bre’n e quindi in universale. Un ultimo fischio risuonò lungo e forte, sebbene per la debolezza il serpente si fosse assottigliato e accorciato moltissimo. Il suo colore scuro e la densità di quella forma erano la reazione degli Fssireeme alla mancanza di calore e di energia.
Ma solo dopo un tempo interminabile la ragazza emise un lieve mugolio. Il suo corpo si distese scosso da un tremito innaturale, si inarcò gemendo e riempendosi la faccia di polvere. Gli effetti della droga svanivano, e ciò le causava intensi attacchi di convulsioni che il freddo rendeva ancor più dolorose. Le catene strisciavano al suolo tintinnando come sonagli. Fu quel rumore a risvegliare Fssa, che era caduto vittima di un torpore simile a quello di lei. La sola differenza era che quello stato rappresentava per lo Fssireeme l’anticamera della morte per inedia.
«Danzatrice del Fuoco …»
La voce del serpente fu rauca ed esile, ma penetrò nella nebbia che avvolgeva i sensi della ragazza più dolce di una melodia. Un’altra convulsione la scosse, poi sollevò le ginocchia unite e le circondò con le braccia stringendosele al petto con forza. Non era mai stata così intorpidita dal freddo, e ogni movimento le costava tanta sofferenza che non le sarebbe importato nulla di morire.
«Danzatrice del Fuoco …» Il fischio le giunse ancora da qualche luogo, fuori dal bozzolo di agonia in cui era chiusa.
«Kirtn … sei tu? Dove sei? Sei ferito?», ansimò.
Sentendola parlare, il serpentello si permise finalmente di estrarre un po’ di calore dal corpo di lei, fidando che appena in piedi ella avrebbe potuto accedere un fuoco e scaldare l’ambiente. L’energia che le prese servì a farlo uscire dallo stato d’inerzia, e il suo fischiare riacquistò una nota chiara.
«Non sono Kirtn. Sono Fssa».
Rheba non lo udì neppure. Aveva aperto gli occhi, e con spavento aveva visto innanzi a lei solo un muro di tenebra. «Sono diventata cieca! …», singhiozzò. «Oh, stelle del cielo, Jal mi ha accecata!»
Fssa ci mise qualche secondo per capire cosa stava dicendo. Cercò d’informarla che quel luogo era buio solo perché non vi entrava neppure un filo di luce dall’esterno, ma ella gemeva il nome di Kirtn incessantemente, come una bambina smarrita e resa folle dalla paura, e non udiva nulla se non i suoi stessi singhiozzi. Il serpente decise di rubarle un altro po’ di calore corporeo, giusto quel che bastava per consentirgli di fischiare forte. La nota che emise fu così acuta da stordire la ragazza, che smise di gridare e continuò a piangere in silenzio.
«Rheba, sono Fssa. Puoi sentirmi?»
Nei tremiti che la scuotevano ci fu una pausa. «F-Fssa?»
«Sono io, sì».
«C-cosa è successo? D-dov’è Kirtn? Perché ci t-troviamo qui? Kirtn sta bene?» Il balbettio le scaturiva dalla bocca come scintille crepitanti da un fuoco, ma un fischio del serpente la invitò alla calma e si azzitti.
«Ricordi che Signore Jal era venuto nella nostra stanza?», chiese Fssa, con voce tesa per agganciare bene le parole all’attenzione di lei.
«Io …» Un lungo brivido la scosse. Ora avvertiva in pieno la realtà di quel freddo polare. «S-sì ricordo».
«Dopo che ti ha stordita ci ha parlato, rivelando fra l’altro che razza di infido spione fosse il caposchiavo».
«C-caposchiavo?»
«Dapsl». Il serpente conferì al nome una nota di disprezzo. «Quando Signore Jal ha dato a quell’escremento purpureo la sferza neuronica, io l’ho capito subito che era un caposchiavo dei Signori».
«Ah, s-sì. Un caposchiavo, dici?», balbettò lei.
«È il rango più elevato fra gli schiavi favoriti dei Signori, superiore anche a quello di caposala nei locali di tortura. Una bestia, un tirapiedi del padrone». Fssa parlava con voce sconsolata. Da quando erano stati sbattuti lì aveva avuto tutto il tempo di riflettere sull’accaduto. «Siamo stati raggirati. Quel vigliacco parla J/taal. Lo parla in modo ignobile, però lo capisce piuttosto bene».
«Credi che Jal abbia saputo della rivolta?»
Il mugolio del serpente era già tutta una risposta, ma aggiunse: «È stato informato della parte che riguardava noi. Però la rivolta andrà avanti anche in nostra assenza. Quel che preme a Signore Jal è che noi restiamo vivi, almeno per ora, e che l’Azione venga rappresentata. Cosicché lui e Dapsl non hanno detto niente al Loo-chim e agli altri aristocratici. Gli altri schiavi giocheranno le loro carte».
«M-ma l’Azione? Io dovrò recitare. Loro n-non possono andare in scena alla Concatenazione s-senza di me».
«Jal ha pensato a tutto. Una illusionista Yhelle farà la tua parte. È del Decimo Grado, capace di duplicarti alla perfezione. Per quanto riguarda la canzone Bre’n, credo che sarà un a solo invece di un duetto».
«Ma le fiamme, e le luci?»
«Ci saranno, anche se illusorie. I Chim non noteranno niente».
«P-però, se l’Azione riesce bene, resteremo uniti. E ciò vuol dire che in futuro potremo forse tentare qualcosa», osservò lei, cercando di schiarirsi le idee.
Il fischio di Fssa suonò scoraggiante. «Intanto Signore Jal ha detto che se gli altri tenteranno di ribellarsi tu morirai. Sei il suo ostaggio».
«S-se Jal non mi fa uscire da questo frigorifero, sarò un ostaggio morto prima di sera», ansimò lei battendo i denti. «I Loo devono essere molto più adattabili di me alle basse temperature. Normalmente f-farei un fuoco, ma ora non riesco n-neppure a muovermi».
«Prova ad accendere un fuoco!», supplicò lui.
La risata di Rheba suonò come un lamento. «E con cosa, serpente?»
Dopo una lunga pausa lo Fssireme propose, incerto: «Non puoi usare la pietra per produrre calore?»
«Non senza un catalizzatore adatto. Energia libera, capisci? Se potessi raggiungere con la mente una sorgente di energia, farei bruciare anche la pietra. Ma non sento nessuna energia, neppure oltre i muri».
I brividi della sue membra erano adesso diminuiti, ma ciò non significava che si stesse scaldando, anzi il contrario. Il freddo le scivolava nelle ossa sempre più, sebbene contraesse i muscoli per far circolare il sangue.
«Fssa …», mormorò debolmente. «Sono cieca?»
«No, Danzatrice del Fuoco. Il luogo in cui ci hanno rinchiusi è un antichissimo carcere sotterraneo, e non c’è luce».
«Il buio e il freddo mi spaventano. Io sono abituata ad estrarre energia dalla luce, e dal calore dell’aria», disse lei sottovoce.
Avrebbe potuto illuminare quella prigione. Sarebbe stata la cosa più facile del mondo, se fosse riuscita ad usare l’energia del suo stesso corpo. Ma sentiva di averne a malapena per restare in vita. Comunque non era particolarmente desiderosa di osservare le caratteristiche di quella tomba, rifletté per consolarsi. Le catene tintinnarono quando cambiò posizione nel tentativo di scoprire, se riusciva a muovere qualche muscolo. Ma subito un forte tremito la scosse lungamente, innaturale e convulsivo. Pian piano tornò all’immobilità assoluta e al silenzio. Tese le orecchie e non udì altro che il proprio respiro.
Dieci minuti più tardi chiamò: «Fssa?»
Non ci fu risposta.
«Fssa … Hai freddo anche tu?»
Soltanto silenzio. Le catene le strisciarono sul volto, quando alzò le mani per toccarsi la testa in cerca dello Fssireeme. Non lo trovò. D’improvviso comprese che col solo sforzo di parlarle il serpentello aveva oltrepassato il limite delle proprie possibilità fisiologiche. L’esigua massa corporea non gli consentiva di trattenere il calore come un essere umano. Pur senza essere un’esperta in fisica, Rheba fu certa che il piccolo alieno non poteva regolare la sua temperatura interna come gli animali a sangue caldo: condizioni climatiche di quel genere avrebbero finito per ucciderlo.
«Fssa, rispondi. Dove sei?»
Il suo grido risuonò fra le gelide pareti di pietra. Nonostante la terribile spossatezza creò allora una debole sfera di luce fredda. Era qualcosa che perfino un Danzatore del Fuoco di pochi anni avrebbe saputo fare facilmente, eppure lo sforzo bastò per farla accasciare.
La cella che poté vedere a quel modo non era certo vasta: appena quattro passi di lato. Ciò malgrado le occorsero due minuti buoni prima di individuare il serpente. Era a un metro dietro la sua nuca, arrotolato a spirale, immobile e più scuro e sottile di quanto lo avesse mai visto. Sembrava un pezzo di spago nero abbandonato nella polvere.
«Fssa, che cos’hai?»
Vedendo che non dava cenni di vita lo chiamò ancora, disperata, finché la sua voce si ruppe in un singhiozzo che trasse una fredda eco dalle pareti corrose. Allora mandò lo sferoide di luce ad aleggiare sopra di lui. Appena lo ebbe posto a contatto del corpiciattolo mutò l’energia luminosa in calore. Per riuscirci dovette usare ogni sua forza, ma non poteva sopportare l’idea che quella creatura stesse morendo davanti a lei. Si rifiutò di pensare che fosse già troppo tardi, e dimenticò ogni altra cosa per riscaldarlo.
Il piccolo globo emanava una radiazione infrarossa, che ella percepiva come una semplice presenza collegata alle sue linee di Akhenet. La concentrò sul serpentello, attenta a non lasciarla disperdere inutilmente nell’aria. Per un attimo temette il rischio di bruciargli l’epidermide, poi rammentò quant’era stata innocua per lui la scarica che aveva strinato la peluria sull’avambraccio di Kirtn.
Occorse più di un’ora prima che nel serpente apparisse un segno di ripresa. Il suo colore mutò dal nero al bruno, poi le scagliette presero a divenire rossicce qua e là, e infine il suo dorso rifletté di nuovo toni dorati e argentei.
«Stai meglio, Fssa?»
La testa affusolata si sollevò dalle spire, e gli occhi di rubino si aprirono a guardarla. La sua circonferenza s’era allargata quasi del doppio. Di colpo emise un collarino di spie gialle, eccitato. «Hai trovato il modo di dare fuoco alla pietra?»
«No, purtroppo», sospirò lei.
«Allora da dove viene questo calore?»
«Da me».
«Tu stai … sacrificando la tua energia per riscaldarmi?», strillò Fssa inorridito. Subito strisciò via per allontanarsi dal globo di luce infrarossa, ma questo lo seguì in ogni suo spostamento. «Nooo! Non devi! Non devi!»
La voce stridula del serpente le graffiò i nervi. «Vuoi smetterla, sciocco rettile? Più ti muovi, e più fatico a darti calore».
Fssa si arrestò e per un poco rimase zitto, con la testa ripiegata sotto le sue spire come se volesse nascondersi a lei ed a se stesso. Poi mandò un fischio dolente: «Non sprecare la tua forza per me, Danzatrice del Fuoco. Io non me lo merito».
Troppo stanca per parlare, Rheba lasciò che lo sferoide rispondesse per lei continuando a emanare calore.
«Tu non capisci, non sai», gemette Fssa. «Io non sono quello che credi».
«Io credo che tu sia bello».
Il serpente mandò un involontario fischio di compiacimento in linguaggio Bre’n, ma lo sfumò subito in una nota d’amarezza. «No, Danzatrice del Fuoco. Io non sono una cosa bella. Io sono … un parassita!»
La ragazza dovette rimuginare stancamente su quella frase, prima di cominciare a capirla. «Ma che dici? Tu non bevi il sangue né mangi la carne di creature viventi. Prendi solo ciò che gli altri ti danno spontaneamente. Il freddo ti fa sragionare, mio povero Fssa».
«Né sangue né carne, certo … ma l’energia corporea sì».
Soltanto la lingua Bre’n poteva esprimere con tanta emotività la vergogna e il disgusto che lo Fssireeme rivelava d’avere per sé stesso. E solo nello stesso linguaggio era possibile rispondergli.
Rheba inspirò lentamente aria, e ripeté: «Non hai mai preso nulla che non ti fosse dato». Il suo fischio fu ricco di toni consolatori.
«Tu non mi conosci bene. Io … ti ho derubata», si accusò lamentosamente l’altro.
«Ma via, Fssa …»
«No, ascoltami. Dopo quel che ti dirò, la smetterai di consumarti per un parassita inutile come me. Sul pianeta natale degli Fssireeme, prima che venissero gli uomini a mutare la nostra razza, dividevamo il tempo in due stagioni di vita. C’erano i mesi della Luce, e c’erano i mesi del Buio. Durante la Luce d’energia era abbastanza perché tutti potessero nutrirsene a sazietà. Ma poi veniva il Buio, e questo era assai più lungo e interminabile, mesi e mesi senza energia da assorbire. E per vivere noi Fssireeme abbiamo bisogno di energia. Così il nostro corpo … può assorbirla … da altri animali».
Dopo una breve pausa continuò: «È facile. Costretti a cacciare durante il Buio, i miei progenitori proiettavano un’illusione sonora per attirare la preda. Appena si accostava abbastanza le saltavano addosso e risucchiavano la sua energia … e continuavano a nutrirsene finché moriva. Poi cercavano un’altra preda, e un’altra, finché non tornava la Luce, volando nei mari d’aria di Ssimmi. Questo accadeva un’eternità di tempo fa, ma la nostra natura e i nostri bisogni sono gli stessi. Come credi che mi sia nutrito fin’ora? Io sono un parassita … e i tuoi capelli sono pieni di energia libera!»
Rheba cercò qualcosa da rispondergli ma non seppe trovare le parole. Compativa l’incapacità del serpente di mantenere il calore del suo corpo come i mammiferi, e immaginava che una creatura intelligente provasse vergogna a fondare la propria esistenza sul parassitismo. Ma non le pareva che Fssa si sarebbe lasciato consolare facilmente. Provò a muoversi per raggiungerlo e subito dovette rinunciarvi, impedita dalle catene. Sentiva che era importante rassicurarlo sui suoi sentimenti. I pensieri le si confondevano nella testa fino a diventare un groviglio. Tutto si sfumava nel freddo e nel torpore.
«Sei bello, Fssa», sussurrò.
Il serpente mandò una specie di vagito. «Risparmia la tua forza. Lasciami morire».
«Non dirlo neppure per scherzo».
Nella mezz’ora seguente Rheba si limitò a stare distesa al buio, concentrandosi sulla volontà di rimanere viva. Si girò su un fianco e tese ancora le catene per raggiungere Fssa, ma non ci riuscì. Il serpente la osservò un poco, quindi prese a trascinarsi lontano da lei come per sfuggire al globo d’energia che invece lo seguiva imperterrito.
«Non è troppo gravoso per me scaldarti», disse la ragazza. «E non mi importa di quello che hai raccontato. Terrò accesa la sfera di energia su di te. Perciò farai meglio a smetterla di scappare qua e là, ed a venire da me».
Fssa si allontanò fino all’angolo. Per la frustrazione e lo scoramento Rheba avrebbe voluto gridare. Odiava il buio, e il debole lucore che aveva creato le dava l’impressione d’essere isolata in un mondo di tenebra.
«Mi sento sola, Fssa. Vieni fra i miei capelli e parliamo un po’. Potremmo anche cantare il duetto della canzone Bre’n. Per favore, bel serpentello … ho bisogno di te».
«Sono ancora bello?»
«Molto bello, certo».
«Questa è la quarta volta, oggi. Dovevi dirlo due volte soltanto. Ricordi?»
Rheba rise debolmente, con una guancia poggiata a terra. Il globo calorifico che sovrastava Fssa palpitò, si indebolì e si spense del tutto. Ma non importava molto ormai, perché il serpentello era scivolato nuovamente fra le sue chiome e lì si arrotolò. Lasciò, penzolare la testa sopra un orecchio della ragazza e cominciò a mormorare una canzone. Ella tentò di unire le labbra per fischiare il ritornello, ma le aveva così rigide e gelate che dovette rinunciarvi. Allora gli disse con parole confuse cosa significava per lei la sua compagnia in quella situazione. Più tardi, mentre giaceva sfinita, si accorse che Fssa aveva trovato il modo di eseguire il duetto da solo, usando due voci nello stesso tempo.
Lo rimproverò debolmente di quello spreco d’energia, ma per un poco le tornarono le forze e volle cantare con lui la stessa canzone in lingua Senyasi. Le loro voci risuonarono fra le massicce pareti della cella, e giù lungo i corridoi oscuri e silenziosi della prigione sotterranea.