Appena Rheba si fu rivestita, chiese al computer l’estratto conto del suo AVO. Possedeva abbastanza crediti per cambiare le regole lei stessa una decina di volte, ma questo non sarebbe servito che a un’inutile sfida: Mercante Jal disponeva di una somma maggiore, e avrebbe potuto riportare ancora nel computer le sue regole fino a lasciarla senza denaro.
L’ammontare del suo conto cominciò a diminuire. Il navigato Professionista doveva aver archiviato con qualche stratagemma la posizione di tutti i suoi corpi astrali, secondo un codice diverso dal colore, e al contrario di Rheba era ancora in grado d’identificarli. La ragazza non era in grado di distinguere i suoi, e lì per lì non riuscì a escogitare nessuna contromisura. Gli attacchi di Jal erano diretti un po’ contro tutti i giocatori di calibro inferiore, segno chiaro che quella nuova regola mal si prestava a contrastare i Professionisti più ferrati dei livelli dal secondo in su, ma fu Rheba ad accusare le perdite.
In silenzio lesse sul terminale l’ordine di scendere al quarto livello, e si alzò per ubbidire. Era difficile ignorare il vuoto allo stomaco che le dava il sentirsi così impotente, e si lambiccò il cervello per stabilire una qualsiasi linea di condotta. Riuscì solo a vedere più chiara la sua condanna: niente colori significava agire al buio, e in un gioco di quel genere la cosa era priva d’ogni senso. Deglutì un groppo di saliva quando sul terminale lampeggiò il comando di trasferirsi al terzo livello. Le sue perdite erano molto più rapide di quanto non lo fossero state le vincite.
«Sei sempre in tempo a ritirarti», le comunicò Jal in tono trionfante. E rivolse agli altri un ampio ghigno di soddisfazione.
A metà della scaletta fra i due livelli, la ragazza si volse a fissarlo stringendo le palpebre. Si grattò distrattamente il dorso di una mano, riflettendo che aveva pur sempre la possibilità di manovrare l’energia del grande schermo. Ma con che criterio?
«Esci dal gioco!», la raggiunse dal basso l’invito di Satin. «Salva quel che ti resta del tuo AVO. Jal non è poi un cattivo padrone, e meglio questo che restare senza soldi a Nontondondo».
Rheba la udì a malapena. Stava riflettendo che gli unici a far muovere le loro galassie e i sistemi solari erano i grossi giocatori: in mancanza del colore, forse sarebbe stato il movimento a darle la soluzione.
«Non è più un gioco per te, credimi», la consigliò ancora Satin. Rheba rivolse un’occhiata intensa agli spettatori che la osservavano da oltre la ringhiera, godendosi la sua disfatta. Poi raggiunse il nuovo posto e batté sui tasti il suo codice d’identità.
«Preferisco restare, cara», disse alla ragazza negra.
Lo schermo del terminale la informò che le restava un unico sistema solare. Lo programmò perché compisse rapidi circoli, e quando alzò gli occhi al soffitto-schermo riuscì a vederlo, in un angoletto. Questo le bastava. Una sensazione di calore le scivolò nelle mani, mentre dirigeva flussi d’energia contro il programma automatico del computer … e all’istante i buchi neri e gli uragani spaziali cominciarono a spazzare le luci bianche dei corpi astrali. Non si spostavano più casualmente, come cieche forze della natura, ma davano loro la caccia in un’opera di distruzione dalla quale usciva vincente solo il banco del casinò. I giocatori sembrarono come paralizzati a quello spettacolo, e lo stesso Jal rinunciò a programmare contromisure sulla sua consolle. A Rheba non veniva accreditata alcuna somma, e tuttavia nel tempo di un paio di minuti ogni corpo astrale messo in gara dai partecipanti fu cancellato dallo schermo. Tutti salvo uno, il suo sistema solare.
Molti giocatori avevano speso freneticamente quel che potevano pur di rientrare in gara, facendo apparire qua un pianeta, là una nuova galassia, col solo risultato che un uragano o un buco nero si lanciavano a distruggerli, finché era apparso chiaro che il loro era un inutile spreco di soldi. Ad un tratto quell’immobilità generale venne interpretata dal computer come un ritiro in massa, e una luce arancione invase tutti i terminali: il ciclo era finito. Ed era finito con una sola giocatrice ancora in gara. Sul terminale di Rheba apparve l’autorizzazione a salire al livello più alto, al trono. La reazione della gente era passata da un silenzio sbalordito a una marea di commenti, misti a grida e imprecazioni peraltro comprensibili.
La ragazza non aveva però alcuna intenzione di recitare la parte dello squalo più vorace in un nuovo ciclo di gioco. S’era alzata dalla poltroncina, e cercando Jal con lo sguardo vide con stupore che l’uomo le stava sorridendo acidamente.
Gli fece cenno di scendere. «Avete perso, Mercante Jal. Ora dovete seguirmi alla mia astronave», disse.
Gli spettatori e i giocatori tacquero a quella scena, e pian piano nel salone tornò un certo silenzio. Quando l’uomo si alzò dal trono e fronteggiò la folla si sarebbe sentito cadere uno spillo. Rheba vide centinaia di facce d’ogni colore volgersi una ad una su di lei, e le loro espressioni tese non le piacquero affatto.
«Imbrogliona!», gridò un giocatore del secondo livello. E un altro aggiunse: «La ragazza ha barato!»
Quello sfoggio d’emozioni trovò eco su tutti i gradini della piramide, salvo che all’ultimo. Jal discese lentamente, esibendo un sorrisetto d’ironica condiscendenza, e Rheba cominciò a chiedersi chi la gente considerasse vincitore o perdente. Gli insulti e le imprecazioni diretti a lei fioccavano in tutte le lingue, e fu in quel diluvio d’esclamazioni che Jal venne a fermarlesi davanti. Placò la folla con un gesto.
«Il prezzo che io devo pagare per il tuo imbroglio sono tre settimane di servitù. E sia pure», disse a voce alta. «Ma chi risarcirà tutta questa gente, che per causa tua ha perso un bel po’ di denaro?»
Intorno alla ragazza i commenti ringhiosi salirono come un’onda di marea. Deliberatamente ella li ignorò, fissando l’uomo negli occhi.
«Prima voi, Mercante Jal. Io vi seguo», disse, accennando verso l’uscita.
«Senza nessuno che ti guardi le spalle? Pessima tattica, ragazza».
«Avere alle spalle voi sarebbe peggio. Muovetevi».
Jal scosse la testa con un sorrisetto e si avviò nella ressa, aprendo un sentiero nel quale Rheba s’insinuò a fatica. I frequentatori del casinò si stringevano attorno a loro opponendo una sorta di resistenza passiva, vicinissima a sfociare in aperta ostilità. A una decina di metri dall’uscita, una donna di pelle grigia con una gran massa di riccioli verdi si parò davanti a loro, e urlò qualcosa in una lingua tutta consonanti. Divertito, Jal tradusse a vantaggio di Rheba una caterva di oscenità, e a denti stretti lei gli fece cenno di proseguire. Ma proprio allora la sconosciuta estrasse di tasca un’arma e gliela puntò addosso, continuando a insultarla con furore.
Rheba fece un balzo di lato, e sollevando un piede sferrò un Calcio che colpì con precisione il polso dell’assalitrice. La pistola volò via e rimbalzò sul pavimento. Come se un invisibile interruttore fosse scattato, la folla dei giocatori imbestialiti si gettò avanti, simile a una bestia con mille teste e bocche urlanti, ed ella vide armi che si agitavano in alto e braccia che si protendevano per agguantarla.
Spaventata corse indietro, e mentre cercava di difendersi alla meglio usò le sue facoltà per risucchiare energia dell’impianto elettrico. Tese le mani alla cieca, sprigionando dalle dita lunghe scintille guizzanti e brucianti. Chi le stava più vicino gridò di dolore, ma quelli che premevano per assalirla erano troppi. Gli uomini che cadevano a terra storditi dalle sue scariche vennero calpestati spietatamente, e gli altri seguitarono ad avanzare camminando sui loro corpi. Qualcuno sparò con un’arma a raggi, e la ragazza vacillò contro il muro sentendosi bruciare una guancia dalla vampata.
Scalciò e si divincolò, colpendo ancora chi le arrivava addosso. Poi uno spintone le fece perdere l’equilibrio e rotolò sul corpo di un uomo disteso sul pavimento. Terrorizzata e gemente cercò di ripararsi la testa con le braccia, chiamando più volte Kirtn con tutto il fiato che aveva in gola. Dalle sue mani scaturivano ancora fiotti d’energia crepitante, che le facevano dolere le dita allo spasimo e bruciavano il caos di gambe e braccia ammucchiato intorno a. lei.
Ad un tratto un richiamo fischiato in linguaggio Bre’n sovrastò il clamore. La ragazza cercò di rispondere, riuscì ad alzarsi e barcollò fra i giocatori che ora si pestavano anche fra loro, anelando a riunirsi col compagno. Un pugno sferrato con forza bestiale la raggiunse alla nuca, mandandola a cadere in ginocchio semistordita, e attraverso il velo scesoie sugli occhi vide apparire Kirtn sulla soglia del locale. Il poderoso Bre’n si lanciò avanti come una furia, togliendo di mezzo i corpi umani che gli sbarravano il passo e scaraventandoli via come fuscelli, e come un ciclone fornito di gambe e braccia si aprì la strada fino a lei. Ma quando vide i lividi e le bruciature sul volto e sulle mani della ragazza, la sua faccia si deformò in una maschera di rabbia spaventosa.
«Brucialo!», urlò. «Brucia questa fogna d’inferno!».
Come se la voce del Bre’n avesse aizzato le più remote e crude emozioni di Rheba, sovrastando perfino la volontà di lei, l’energia crepitò dalle sue mani in fasci violentissimi che investirono il soffitto e le arcate del casinò. L’aria si arroventò all’istante.
L’edificio a tre piani che ospitava il Buco Nero era garantito a prova d’incendio, sino all’ultimo tendaggio e bancone da gioco, ma non era stato costruito per resistere alla furia fiammeggiante che poteva essere scatenata da una Danzatrice del Fuoco. In pochi secondi il grande soffitto-schermo divenne un cielo di vampe ardenti, e i corti circuiti divorarono gli apparati elettronici. La folla si frammentò nuovamente in singoli individui, che urlando nella nuvola di fumo acre si precipitarono alle uscite di sicurezza.
Nessuno fece caso all’alta figura del Bre’n che corse in strada con centinaia di altri, reggendo la ragazza sulle braccia. Il sole stava tramontando e molti veicoli avevano le luci accese. Alcuni poliziotti correvano freneticamente nel traffico dove si stava già creando un vasto ingorgo, fischiando per tenere i passanti a distanza di sicurezza. Tremante, con la testa poggiata su una spalla del compagno, Rheba osservò il fumo che scaturiva da tutte le aperture dell’edificio, ormai evacuato. Se c’erano degù impianti anticendio, non ebbero modo di funzionare e bruciarono anch’essi e, una volta preso fuoco, il casinò continuò ad ardere inarrestabilmente da cima a fondo.
Vedendo alcuni impiegati che scendevano da una scala di sicurezza, Rheba tese le mani nel tentativo di assorbire energia dalle fiamme stesse per farle calare. Ma ormai l’incendio trovava troppo materiale di che nutrirsi, e il gesto di lei ebbe il solo risultato di attirare una sottile lingua di fuoco che per poco non le ustionò le dita. Se le portò alla bocca con un gemito.
«Smettila, è inutile!», gridò Kirtn indietreggiando. «Sciocca! Sei troppo giovane per questo genere di scherzetti. L’energia in gioco è superiore alle tue possibilità».
La ragazza ansimava, sulle sue braccia muscolose. Lo fissò con tristezza. «E come potrò più imparare altro, ormai? Non ci sono Danzatrici del Fuoco che possano istruirmi ancora. L’hai dimenticato?» La sua voce assunse un tono pentito. «Mi spiace, Kirtn … tu hai perduto assai più di quel che ho perso io, quando Deva è bruciato».
Il Bre’n le appoggiò una guancia sui capelli, che residui d’energia elettrostatica facevano ancora fremere lievemente.
«Hai già imparato molto, bambina. Più di quel che sa di solito una Danzatrice del Fuoco così giovane. Alla tua età dovresti essere appena capace di accendere le candele o di cuocere il cibo, invece di …»
«Di cuocere una sala da gioco in una città straniera?», sorrise lei. «Mi sembra di ricordare la voce di un Bre’n che urlava di volerlo bruciato ben bene, poco fa».
«Io ho detto questo?», si stupì Kirtn.
«Lo aveva detto la tua bocca».
L’altro sbuffò. «Se è così, dovrò imparare a controllarmi meglio».
«Sembravi davvero fuori di te», mormorò la ragazza, accigliata.
«Non ti avevo mai visto così …vicino a scatenare il rez».
Lui preferì non replicare. Come entrambi sapevano, i membri della razza Bre’n potevano esser soggetti ad esplosioni di energia devastante chiamata rez. E in stato di rez erano capaci di distruggere non solo ciò che li circondava ma perfino sé stessi e le loro Senyasi. Nessuno parlava volentieri del rez, e non perché ci fosse un tabù al riguardo, ma semplicemente perché non era un argomento piacevole.
Rheba fu scossa da un brivido. Nella colluttazione aveva perso un pezzo del vestito, e l’aria di quella sera autunnale era fredda. Desiderava solo tornare all’astronave per rimettersi in sesto.
«Posso camminare da sola, ora», disse. «E faremmo meglio ad avviarci allo spazioporto».
Kirtn percorse la folla con un’occhiata cauta, e vide che nessuno si stava interessando a loro. Dopo che ebbe rimesso a terra la ragazza, si tolse la blusa e gliela drappeggiò sulle spalle. Rheba mormorò appena un ringraziamento per la premura del compagno, sapendo che la peluria di lui era più che sufficiente a difenderlo dal freddo.
Le doleva un fianco, aveva l’impressione d’essersi storta una caviglia, e per un poco stentò a camminare a passo normale, ma si sforzò d’ignorare la sofferenza per attirare l’attenzione il meno possibile. Nulla le sarebbe apparso più sgradevole che avere a che fare con la polizia locale, o peggio ancora coi Sorveglianti della Confederazione Yhelle, che erano delle autentiche carogne. Non aveva richiesto nessuna Licenza da Incendiario — era possibile acquistare anche quella — e l’omissione avrebbe potuto costarle qualche anno di prigione se i Sorveglianti l’avessero identificata.
«Non mi hai ancora chiesto di Mercante Jal», disse a Kirtn.
L’altro stava ancora esaminando il marciapiede affollato in cerca di eventuali poliziotti. Si volse con un borbottio. «Me n’ero scordato». La fissò con un sorrisetto. «E allora, piccola Danzatrice, che cosa è successo là dentro?».
«Ho giocato a Caos con quell’uomo. Non c’era proprio altro modo di avvicinarlo. E ho anche barato. Ma poi non ho potuto portar via la posta che avevamo messo in palio».
«Male. Un po’ di crediti potevano farci comodo».
«Non mi riferivo ai crediti. Quelli sono sul nostro conto AVO, a meno che la polizia non lo blocchi. È Mercante Jal, la posta che ho vinto. Quell’uomo è mio per tre settimane».
Kirtn rallentò il passo, scurendosi in faccia. Dopo un po’ disse: «Sei abbastanza adulta per cercarti un compagno di letto, se è questo che vuoi. Speravo di poter dire la mia opinione sulla tua scelta … ma già, suppongo che anche questa usanza sia morta con Deva e tutto il resto». La sua voce si fece dura. «Se è Jal l’uomo che desideri, vuol dire che tornerò subito indietro a cercartelo».
La bocca di Rheba si aprì e richiuse parecchie volte, prima che riuscisse a farne venir fuori la voce.
«Compagno di letto?», strillò, indignata. «Ma se mi darebbe il vomito perfino usarlo per lustrarmi le scarpe! Per la Luce della Galassia, dico … ti ha preso un attacco di rez?»
L’espressione di Kirtn rimase una maschera imperscrutabile. Poi dal petto gli salì un borbottio: «L’impiegato alla porta del casinò mi ha magnificato le grandi doti personali di questo Jal. Ci eravamo messi a parlare, e ho scoperto che lo conosceva … Anzi, pare che in città lo conoscano tutti. Specialmente le donne. E gode fama d’essere un affascinante seduttore».
La ragazza gli premette le mani sul petto, irritatissima, e lo costrinse dapprima a fermarsi e poi a camminare all’indietro. «Tu, bestione peloso! … Quell’idiota con cui ha parlato, si rivolgeva a un Bre’n adulto oppure a un bambino senza un grammo di sale in zucca?»
«Forse a un bambino Peloso», rispose lui, sfuggendole. «Prendimi se sei capace, bambina Liscia!»
E con quell’esclamazione dal tono che imitava una sfida infantile, il Bre’n svoltò di corsa la cantonata di una stradicciola secondaria e scomparve alla vista. Rheba imprecò e lo inseguì subito, prendendo la corsa su un marciapiede poco pulito, e quando slittò con un piede su alcuni frutti marci spiaccicati al suolo rischiò di fare un ruzzolone. Kirtn non era visibile da nessuna parte, e con un brontolio di disgusto ella si fermò a massaggiarsi il fianco indolenzito. Giunta al termine della strada si pulì le suole delle scarpe contro un grosso contenitore per la spazzatura, e cercò di capire dove si fosse cacciato il compagno. La luce di un solo lampione dava un aspetto desolato al vicolo che imboccò sbuffando. Le tenebre erano scese rapidamente sull’enorme città. All’improvviso dal buio di un portone sbucò una mano che la attrasse, ed ella mandò un gridolino di spavento. Poi il familiare contatto con le braccia pelose del suo Bre’n le strappò una lieve risata gutturale.
«Ti perdo di vista un minuto, ed ecco che ti vai a smarrire in questi vicoli puzzolenti», le alitò Kirtn fra i capelli. «E poi vorresti farmi credere d’essere abbastanza adulta da cercarti un amichetto? … Bah!»
La ragazza rinunciò a ribattere alle sue spiritosaggini. Gli passò una mano sul collo e con le unghie raggiunse una zona assai sensibile dietro un orecchio di lui, grattandola lievemente. Aveva imparato l’astuzia di quel gesto quand’era ancora una bambinetta di quattro anni e desiderava ottenere qualcosa di particolare dal poderoso Bre’n.
«Mmmh, smettila», borbottò lui. «Rheba, piantala, altrimenti …» in fondo alla stradicciola erano comparsi alcuni individui. E quello che li guidava era un impiegato del casinò.
«È lei!», gridò l’uomo. «La ragazza bionda col Peloso, la riconosco. È stata lei ad appiccare il fuoco!».
Un’occhiata bastò a Kirtn per riconoscere le loro divise rosse e argento: erano Sorveglianti Yhelle. Avrebbe preferito la polizia locale, che pure agiva con la massima decisione. I Sorveglianti erano invece famigerati perché prima sparavano e poi facevano le domande. E stavano già puntando le armi.
I muscoli d’acciaio del Bre’n si contrassero, mentre spostava la ragazza dietro di sé. Nello stesso tempo Rheba allungò una mano sotto un’ascella del compagno in cerca del fodero della pistola, ma lo trovò vuoto e imprecò fra i denti. Un metro alla loro sinistra il raggio di un laser saettò azzurro contro un bidone della spazzatura, fondendone la plastica con uno sfrigolio.
«Dov’è la tua arma, Kirtn?», ansimò lei.
«Sull’astronave. Non ho chiesto la licenza per girare armato», rispose il compagno. Poi la prese in braccio e cominciò a correre.
Mentre il Bre’n fuggiva con la giovane donna sulle braccia, altri due raggi color lavanda vaporizzarono una pozzanghera e bruciacchiarono la vernice sull’angolo di un edificio. Kirtn svoltò a destra e a sinistra finché ritrovò il lunghissimo viale che portava in periferia, in fondo al quale erano visibili le strutture dell’astroporto e la grande cancellata perimetrale. Al di là di essa c’era una zona franca dove, almeno teoricamente, non avrebbero potuto essere arrestati con facilità. Ma era lontana.
Kirtn continuò a correre con tutta la velocità delle sue robustissime gambe, ma i due Sorveglianti che stavano tenendo loro dietro erano appesantiti solo dalle loro armi, e guadagnavano terreno. Rheba misurò a occhio la distanza che li separava dalla salvezza, e intuì che non ce l’avrebbero fatta.
«C’è una traversa buia, là fra quei due edifici», disse. «Lasciami giù e mi nasconderò. Tu puoi farcela fino allo scalo. Salta sulla prima astronave per Zeta Gata e aspettami là. Io ti raggiungerò».
Lui non rispose né rallentò la corsa. La traversa era ormai vicina, un canalone scuro chiuso fra due alti edifici.
«Kirtn, lasciami! Non puoi farcela, se continui a portarmi!»
La ragazza si divincolò per sfuggire alle sue braccia, ma il Bre’n si limitò a stringere la presa sul suo corpo sottile ringhiandole di star ferma. Lottare con lui era peggio che inutile, e Rheba rinunciò per non rischiare di fargli perdere l’equilibrio.
Altri due raggi azzurrini tagliarono la semioscurità del viale, sotto la pallida luce dei lampioni, e Kirtn fece uno scarto per evitare di esserne sfiorato. Col capo volto all’indietro, Rheba vide che i loro seguitori non si fermavano a prendere la mira più accuratamente per timore d’essere distanziati. Tuttavia sparavano fin troppo bene per i suoi gusti. Avrebbe voluto avere un’arma a raggi, e non tanto per colpirli quanto per farli rallentare.
Le lame di luce mortale zigzagarono sul muro dell’isolato lungo il quale Kirtn stava correndo. Disperata Rheba protese le dita immateriali della sua mente verso quelle scariche, assorbì quanta energia poté e la riflesse indietro verso gli inseguitori.
Una vampa rossa esplose silenziosamente davanti ai due uomini, che per riflesso spararono ancora, e di nuovo la ragazza deviò verso di loro il fuoco dei laser.
Il risultato fu superiore alle sue aspettative, e il lampo che investì i due Sorveglianti li gettò al suolo tramortiti. Ma Rheba non vide nulla di tutto ciò, perché l’esplosione di luce l’aveva abbagliata costringendola a girare il viso contro la spalla del compagno. Per un poco i due proseguirono la fuga senza rendersi conto che gli inseguitori erano stati resi inoffensivi. Il Bre’n ansimava come un mantice, e la ragazza si abbandonava sfinita sulle sue braccia.
A una cinquantina di metri dalla cancellata metallica dall’astroporto, una figura vestita di scuro uscì dall’ombra di un palazzo e attraversò di corsa la strada verso di loro. Kirtn balzò in un’aiuola e aggirò una siepe per evitare l’assalto dell’individuo, ma con le braccia occupate capì che non avrebbe potuto affrontarlo né sfuggirgli.
«Rheba!», rantolò. «Fai qualcosa … ce n’è un altro!»
La giovane donna si soffregò gli occhi ancora abbagliati, stentando a capire dove fossero ì loro inseguitori. Ne vide uno soltanto, che barcollava sul marciapiede duecento metri più indietro. Poi s’accorse di quello che stava sopraggiungendo e cercò di proiettare energia nella sua direzione, ma non riuscì che a produrre un leggero crepitio elettrostatico. Avrebbe dovuto attendere che Kirtn s’avvicinasse di più all’impianto d’illuminazione dell’astroporto, per assorbire energia da qualche cavo.
L’uomo stava correndo sul piazzale buio, e quando si fermò un momento ad agitare le mani ella vide che aveva la pelle azzurrina ed i capelli blu. Per la sorpresa le si mozzò il fiato.
«Jal!», esclamò. «Ma … che diavolo fate qui, voi?»
L’altro si limitò a mostrare le mani per far vedere che non aveva armi, senza rispondere, e poi li seguì a passo svelto. Con un sospiro di sollievo la ragazza lasciò che la scarsa energia di lei assorbita in precedenza si disperdesse nella notte.
Nel terminal dell’astroporto Kirtn imboccò una rampa mobile in salita, attraversò l’angolo di una vasta sala d’attesa con Mercante Jal alle calcagna, e prese lungo un corridoio dalle pareti in plastica verde che conduceva alle piste d’atterraggio secondarie. Cinquecento metri più avanti, di fronte a una porta metallica ermeticamente chiusa, depose finalmente a terra Rheba e appoggiò il palmo di una mano sulla placca luminosa della serratura. La porta si aprì con un lieve sibilo.
Al di là di essa si allungava un corridoio estensibile, la cui estremità opposta era fissata al portello esterno di una piccola astronave, anch’esso chiuso. Appena i tre l’ebbero raggiunto fu Rheba che, fischiando un segnale in linguaggio Bre’n, mise in funzione gli impianti semiautomatici della nave.
«Entrate», mormorò stancamente la ragazza a Jal.
«Kirtn richiuse subito il portello esterno alle loro spalle, e fuori dalla stretta camera di decompressione spinse Rheba fino al posto di pilotaggio, incitandola a darsi da fare. Un indicatore luminoso sopra i pannelli di controllo stava lampeggiando in modo allarmante.
«Abbiamo un raggio addosso!», ringhiò il Bre’n. «Qualcuno ci sta inquadrando con lo scandaglio di un sistema di puntamento d’arma. I Sorveglianti hanno chiamato rinforzi».
«Sdraiatevi», ordinò Rheba, accendendo i motori. «Sarà un decollo violento».
Jal fece appena in tempo a raggiungere una poltroncina, abbassandola all’indietro, che il ronzio dell’apparato propulsivo fece vibrare lo scafo. L’uomo si distese nell’incavo dell’imbottitura sagomata e strinse la cintura di sicurezza, mentre all’altro lato della piccola plancia Kirtn faceva lo stesso. Poi ci fu la forte scossa in cui il Devalon si staccò dal suolo e dal corridoio estensibile fissato al suo esterno. L’accelerazione fu subito così violenta che Jal rantolò, e l’aria gli uscì dai polmoni compressi con forza. Per qualche secondo l’uomo lottò contro il senso di soffocazione e la nausea, poi perse i sensi.
Kirtn non era altrettanto sensibile agli effetti dell’accelerazione, ma stentava a respirare. Ciò malgrado era ben felice di quella sofferenza, perché un’occhiata all’altimetro gli confermò che Rheba ci stava dando dentro senza risparmiare carburante. La spia luminosa s’era per il momento spenta.
La ragazza sedeva al posto di pilotaggio con tutta calma, ancora completamente a suo agio sotto lo sforzo che schiacciava invece gli altri due. Il fatto che le Senyasi potessero sopportare accelerazioni di quel genere meglio di qualunque altro umano o umanoide, era un vantaggio che ella aveva sfruttato raramente, e solo quand’era stato necessario compiere atterraggi bruschi per risparmiare carburante. Il Bre’n cercò di calcolare quanti minuti mancavano prima di poter passare in overdrive, e farla finita con quel tormento, ma gliene mancava la lucidità.
La fatica accumulata durante la fuga in quell’interminabile viale gli pesava addosso come un supplemento di accelerazione. Davanti ai suoi occhi balenavano forme di colore rosso dovute al sangue che gli affluiva alla rètina, e cercò di chiuderli. Ma perfino quel conforto gli fu negato, perché il peso delle palpebre era qualcosa di tremendo che gliele teneva spalancate a forza, mentre il Devalon schizzava via nel cielo come una meteora.
Pur senza patire troppo disagio, Rheba sentiva adesso la forte pressione del suo stesso corpo sull’imbottitura del sedile, e ogni più piccolo sfregamento della pelle su di esso le provocava dolore. Cercando di muoversi il meno possibile gettò un’occhiata a Kirtn, conscia della sua sofferenza. Avrebbe preferito che il compagno fosse svenuto come Jal, ma sapeva che a lui piaceva restare lucido. Come tutti quelli della sua razza, il Bre’n eira dotato di un notevole controllo psicofisico che gli consentiva di ignorare il dolore. Era una caratteristica indispensabile, senza la quale né loro né le giovani Senyasi. avrebbero potuto sopravvivere a quella che era l’adolescenza di una Danzatrice del Fuoco.
La striscia blu di un allarme pulsò su un monitor dell’apparato difensivo, con l’accompagnamento di una nota sonica così intensa che ella se la sentì nelle ossa. I suoi occhi corsero al reticolo del puntamento d’arma, dove i sensori automatici riportavano le immagini di tre puntini rossi: erano astronavi dei Sorveglianti uscite dall’orbita intorno ad Onan, e la loro rotta stimata puntava sul circoletto verde centrale che rappresentava il Devalon. Stavano già facendo convergere su di loro gli scandagli di puntamento dei laser da battaglia, in attesa di poter ridurre le distanze. Erano veloci, e quel che era peggio il calcolatore di bordo dava per certo che sarebbero riusciti ad averli a tiro prima che l’astronave potesse balzare in overdrive.
A quella constatazione, la ragazza provò un vuoto allo stomaco per lo sgomento. Stava già accelerando al massimo delle loro possibilità, e cominciava a risentirne l’effetto anche lei. Tenne le mani sui comandi dell’overdrive e cercò di schiarirsi la mente traendo lunghi respiri. Non poteva chiedere al Devalon più di quanto l’astronave stava già dando. E questo non era abbastanza.
Ad un tratto decise che doveva rischiare il tutto per tutto, e senza aspettare un secondo di più. Le sue mani tirarono indietro le lucide leve dell’overdrive. Era una pazzia tentare quella manovra a così breve distanza dal pianeta, il cui campo gravitazionale era ancora molto forte, e lo scafo reagì con un gemito di strutture che scricchiolavano. Un vero e proprio schiaffone scaraventò di lato la testa della ragazza, che gridò all’unisono con lo scafo torturato. Poi gli schermi parvero andare tutti fuori fase, e il Devalon fu sbalzato nello spazio non-dimensionale dell’overdrive.
Quando l’astronave si rimaterializzò nello spazio normale, a circa otto anni luce dal pianeta Onan, stava roteando furiosamente su sé stessa. Il balzo era stato brevissimo, e pur compiuto a caso li aveva portati oltre le possibilità d’avvistamento dei Sorveglianti, ma il vero miracolo stava nel fatto che il Devalon non si fosse spaccato in mille pezzi. Nel tempo di cinque minuti gli impianti automatici rimisero la nave in assetto, arrestandone la rotazione, poi si controllarono a vicenda e non trovando avarie informarono il pilota che poteva inserire i dati di una nuova rotta.
Ma nessuna mano si alzò a sfiorare la tastiera del computer di bordo. Sulla poltroncina imbottita Rheba giaceva rovesciata da un lato, con una mano incastrata fra le leve dell’overdrive e la testa ciondoloni. Dalla sua bocca un lento rivolo di sangue gocciolava sul pavimento della cabina silenziosa.