Capitolo 3 DESTINAZIONE LOO

Quando il ritorno della coscienza portò con sé il dolore, Kirtn gemette penosamente. Poi il ricordo di quant’era accaduto si fece strada nel groviglio dei suoi pensieri, e di colpo fu lucido ma, mentre si sganciava la cintura di sicurezza, gli parve che in tutte le. sue articolazioni fossero conficcati aghi roventi.

«Rheba …?»

Non ci fu risposta.

«Rheba, come ti senti?», fischiò con uno sguardo spaventato alla figura riversa sul posto di pilotaggio. «Rispondimi!»

S’inginocchiò davanti a lei e con delicatezza le sollevò la testa, sfiorando il collo in cerca delle pulsazioni delle arterie. Il cuore di lei palpitava debolmente, come un uccellino stanco di battere le ali. Era sanguinante, malconcia, e tuttavia ancora viva. Kirtn sospirò, stabilendo che era soltanto svenuta per il contraccolpo del balzo in overdrive. Un po’ di riposo nella cuccetta-utero le avrebbe risanato le ferite in breve tempo.

Per alcuni secondi il Bre’n non fece altro che toccare con la punta delle dita la vita che pulsava nelle vene della ragazza. I Sorveglianti erano stati molto vicini a distruggerli, lo sapeva com’era certo che avrebbero usato le armi senza esitare. Non s’era mai sentito così vicino alla morte, da quando il sole di Deva era sfuggito definitivamente al controllo degli Akhenets: i Danzatori del Fuoco, i Danzatori della Tempesta, i Danzatori della Terra,, i Danzatori dell’Atomo, i Danzatori della Mente … nessuno, mentre gli stessi Bre’n scivolavano nel rez, era stato in grado di deflettere il plasma infuocato che scaturiva dalla stella in esplosione.

Il lamento di Rheba che emergeva dall’inconscienza parve sottolineare i suoi ricordi angosciosi.

«Va tutto bene, Danzatrice», le mormorò. Poggiò le labbra su quelle ustionate di lei. «Sei riuscita a portarci fuori dalla bocca del drago, piccola».

«Ah, sì?», sussurrò ella. «Invece mi sento come il drago di cui parli mi avesse masticata ben bene». Aprì gli occhi del tutto. «La prossima volta sarà meglio lasciare che i Sorveglianti ci catturino».

Lui si passò la lingua sulle labbra che s’era morso a sangue, e sorrise. «Catturare una Danzatrice del Fuoco e il suo Bre’n? Nessuno può farcela contro di noi, bambina».

«Nessuno, salvo una stella che esplode», ansimò lei.

Gli occhi dorati del compagno si oscurarono un attimo. «Ce la fai a metterti seduta?»

Rheba si raddrizzò con un gemito, e la poltroncina sensibile si adattò alla nuova posizione del suo corpo. Ma quando appoggiò le mani ai braccioli le sfuggì un mugolio di dolore.

«Fammele vedere», ordinò Kirtn.

Con una smorfia lei gli porse le mani. Aveva vesciche sui polpastrelli, le palme ustionate, e le Linee di Potenza Akhenet erano un disegno livido sotto la pelle. Ma esse ora non terminavano più ai polsi: partendo dalla punta delle dita s’intrecciavano fin sugli avambracci, assottigliandosi e proseguendo in lunghe curve fino alle spalle.

Kirtn zufolò una nota di sorpresa, osservandola con improvvisa intensità. «Ma che diavolo è successo fra te e quei Sorveglianti?»

La ragazza fremette, al ricordo della disperazione che l’aveva invasa quando aveva temuto che quegli uomini uccidessero il suo Bre’n. Usò il dorso delle mani per strofinarsi leggermente le braccia.

«I raggi dei loro laser stavano per colpirti, e io … io dovevo fermarli. Ho cercato di deflettere l’energia di lato. Deflettere il fuoco … be’, non è forse questa la ragione di vita d’una Danzatrice del Fuoco?»

Lui annuì distrattamente, seguendo con un dito il tracciato delle nuove Linee di Potenza comparse sulle sue braccia.

«Non sono stata un mostro di abilità, temo», mormorò ancora lei. «Ho attirato parte dei raggi invece di defletterli. Non ero mai stata costretta a difendermi dall’energia libera, e l’ho proiettata indietro verso di loro come ho potuto. Alla fine ha funzionato, credo. Mi è parso di averli feriti, o almeno abbagliati».

Anch’ella percorse con gli occhi le Linee di Potenza appena formatesi. Prudevano molto. Le nuove Linee di Potenza prudevano sempre. D’istinto se le grattò ancora, e subito il dolore ai polpastrelli ustionati le strappò un ansito.

«Hai cercato di fare troppo!»

La voce di Kirtn era morbida ma severa, la voce di un Mentore Bre’n. E le sue parole erano un genere di rimprovero che Rheba aveva ricevuto cento volte quand’era bambina, prima della distruzione di Deva. Con un sospiro rifletté d’esser stata troppo presuntuosa a giurare a sé stessa di far qualcosa per i superstiti delle loro due razze, con le sue meschine capacità.

«Non ho molte possibilità, vero? … Forse nessuna», disse indicandosi le braccia.

«Lo so, piccola».

«Infine cosa contano queste nuove linee così sottili? Il corpo di Shanfara ne era coperto fittamente, da cima a fondo. La pelle di Dekan sembrava accendersi d’oro splendente, quando lui lavorava. Jaslind e Meferri erano due fiamme viventi, e i loro bambini nacquero con le Linee di Potenza già sulle guance».

Scoraggiata lasciò ricadere le braccia. Slacciò la cintura di sicurezza e si alzò, preferendo il morso del dolore fisico alle spine dei ricordi e dei rimpianti. Meglio pensare solo all’oggi, rifletté.

«Jal è vivo?»

Kirtn si volse all’altra poltroncina, è notò una striscia di goccioline di sangue al suolo: andavano da lì ai pannelli di controllo e tornavano indietro, segno che l’uomo sfera alzato prima che loro due riprendessero conoscenza.

«È già sveglio», sussurrò. «Non fidarti troppo di lui».

Rheba chiuse gli occhi un attimo. «No, ma … comunque sia, ha una Faccia Bre’n».

«Ne sei sicura?», sussultò lui, incredulo.

«La portava appesa al collo, nel casinò».

Con uno scatto Kirtn aggirò la poltroncina, si avvicinò all’uomo in due lunghi passi e gli aprì la blusa sul petto. La mascherina Bre’n già notata dalla ragazza pendeva sempre dalla spessa catena d’oro. Kirtn la esaminò attentamente, senza quasi respirare per l’emozione.

«Un volto di donna», sussurrò infine. Raccolse il monile con dita tremanti e ripeté: «Una donna Bre’n!» Eccitato tornò accanto a Rheba. «Dove può aver avuto quella Faccia?»

«Abbiamo tre settimane per farcelo dire».

Kirtn si chinò ancora sull’uomo e fece per sfilargli la catena dal collo, ma Jal si «svegliò» immediatamente, rivelando che fin’allora era stato tutt’altro che svenuto. I suoi occhi si spostarono dalla grossa mano al volto del Bre’n, e sollevò ironicamente un sopracciglio. Poi volse la testa a fissare la ragazza.

«La mia modesta persona è legata a te per tre settimane, ma non così gli oggetti di mia proprietà», puntualizzò, parlando in universale.

«Una Faccia Bre’n può appartenere solo al …», esitò cercando in quella lingua un terminale che equivalesse ad Akhenet. «Quella appartiene al figlio-allievo di una Bre’n».

Jal ebbe una smorfia d’incomprensione. La ragazza aveva parlato in universale, ma il significato di quel che aveva detto evidentemente gli sfuggiva.

«Dove hai avuto questa Faccia?», tagliò corto Kirtn. La sua voce aveva un tono di minaccia chiaro quanto la domanda stessa.

«L’ho vinta», rispose l’altro con indifferenza.

«Dove, e a chi?»

«Al Buco Nero. Il suo proprietario era stato così stupido da scomettere contro … ehi!» La voce gli si strozzò in gola, quando Kirtn gli torse la catena intorno al collo.

«Non mentire mai a un Bre’n». Kirtn rilassò subito la stretta, consentendogli di respirare. «Allora, chi te l’ha data?»

«È successo su Loo», ansimò lui. Poi vide l’incomprensione sul volto degli altri due. «Parlo del pianeta Loo. Si direbbe che non lo conosciate. Possibile?»

Kirtn scosse il capo con impazienza.

Serio in viso Jal si rivolse a Rheba. «Loo fa parte della Confederazione Yhelle. Saprete almeno cos’è la Confederazione, spero».

«Consideraci due stranieri ignoranti», disse Rheba. In realtà lei e Kirtn non disponevano di troppe informazioni sulla zona di spazio in cui erano venuti a finire. L’indizio riguardo il manufatto Bre’n in possesso di Jal era giunto alle loro orecchie casualmente, in uno scalo spaziale, e su Onan non avevano avuto il tempo d’acquistare neppure un videonastro di quello che i turisti trovavano all’astroporto.

Mercante Jal li osservò con una luce strana nello sguardo, poi girò una rapida occhiata sul complesso della cabina di pilotaggio e annuì fra sé. Fece per alzarsi, ma una mano di Kirtn lo fermò. Allora sorrise.

«Calma, amico. Di che hai paura?», disse in tono pacifico. «Se anche non fossi legato da servitù alla tua Liscia, qui dentro sono inoffensivo. Non saprei neanche dove mettere le mani». Indicò i pannelli e i monitor. «Io me ne intendo di strumentazione. Ho comprato, venduto e anche … be’, diciamo preso a prestito ogni specie e modello di astronave costruita entro i confini della Confederazione, eppure non ne ho mai vista una come questa. Parlo correttamente le sei lingue principali, e mi faccio capire in molte altre, ma non mi è mai capitata sotto gli occhi una scrittura come quella sui vostri strumenti».

Gli altri due non fecero commenti. Jal fissò la ragazza come se la vedesse allora per la prima volta. «L’astronave è diversa da tutte quelle che conosco, però in voi non c’è nulla che sembri anormale. Tu appartieni senza dubbio al Quarto dei Cinque Popoli: umanoide fino all’ultima cellula».

«Uno dei Cinque Popoli? Cosa te lo fa supporre?», chiese lei, impaziente.

«Be’ … non sei un Fantasma. Questo me lo hai provato quanto ti sei spogliata, al casinò. Ma ho la bizzarra impressione che tu non sappia molto dei Cinque Popoli».

Rheba sbuffò, esasperata.

Mercante Jal accentuò il suo sorrisetto. «Non avertene a male per la mia curiosità. Se la tua razza non appartenesse a uno dei Cinque Popoli, dovrei supporre che provieni magari da un’altra galassia. Ma infine …» e indicò la plancia intorno a sé, «è evidente che questa attrezzatura non è stata costruita da nessuna delle razze che fanno parte della Confederazione».

«Complimenti per il tuo spirito d’osservazione», sbottò lei, in un tono che voleva scoraggiare altre domande. «Adesso parlaci del pianeta Loo. Conosci le coordinate?»

«Le informazioni sono una merce di scambio».

«Tu sei una merce», ritorse lei. «Non dimenticare la nostra scommessa, Mercante Jal: la posta in palio eri tu».

«Oh, sì. E non ti ho ancora fatto le mie congratulazioni per aver vinto. Devi aver usato una tecnica d’imbroglio assai originale. Di cosa si è trattato, puoi dirmelo?»

«Ho usato lo specchietto del portacipria».

Jal apprezzò il sarcasmo di quella risposta con un ampio sogghigno divertito, ma il Bre’n che gli stava accanto lo scosse rudemente.

«Le coordinate, mercante!»

«Il tuo amico Peloso è un bestione impaziente e poco garbato, ragazza», osservò l’altro.

Rheba annuì. «Il fatto è che nella faccenda è coinvolta una donna Bre’n. E Kirtn è un Bre’n».

«Bre’n …», ruminò il mercante. Esibì un’espressione d’innocente perplessità. «Mai sentiti nominare animali di questo genere».

«E i Senyasi?», provò Rheba, delusa nell’intuire che Jal non stava mentendo. «Hai sentito parlare di una razza chiamata Senyas?»

«Mai», affermò l’uomo. Una mano di Kirtn era pronta a stringergli il collo, comunque il suo tono suonò sincero.

«E allora, come hai avuto la Faccia?», insisté lei.

«Loo importa gruppi di quelli che potremmo definire lavoratori immigrati. La mascherina apparteneva certo a uno di costoro». Scrollò le spalle. «Forse quel lavoratore aveva bisogno di soldi, e così l’ha venduta a un gioielliere».

«Impossibile», stabilì Rheba con un gesto secco. «Un Senyasi non si separerebbe mai dalla sua Faccia spontaneamente. Per levargliela bisognerebbe ucciderlo, e probabilmente è successo proprio questo. Ma forse la donna Bre’n che l’ha fatta per lui è ancora viva». La sua voce s’indurì. «Loo, Mercante Jal: le coordinate».

«Mettiamoci d’accordo onestamente. Tu hai qualcosa che io voglio, come io ho qualcosa che interessa te. Facciamo uno scambio».

«E perché?», disse Kirtn. «Potrei pestare la tua carcassa bluastra fino a fartele cantare in tutte le lingue, quelle coordinate».

«Oh, senza dubbio», ammise l’altro. «Ma Loo è un pianeta assai grande, e le sue usanze sono particolari. Sì, molto particolari. Io lo conosco, e vi assicuro che da soli non riuscireste mai a trovare quel ragazzino. Avrete bisogno di me».

«Un ragazzino?», scattò Rheba. «Tu hai visto un Senyasi?»

«Diciamo che ho buone orecchie. È lui che cerchi, vero?»

Lei scambiò un’occhiata con Kirtn. «Forse».

Jal ebbe un’espressione astuta. «Non crederai di darmi a bere che eri disposta a girare per la galassia in cerca di una Pelosa qualsiasi. Non sono un idiota, bella mia. No, tu stai cercando quel ragazzino che ha le mani come le tue».

Rheba abbassò lo sguardo sulle sue mani, dove l’arabesco delle Linee di Potenza s’era opacizzato fin quasi a svanire. Mani come le sue, rifletté … un ragazzino con mani come le sue. Un giovane, forse un bambino, ma che sarebbe diventato un uomo. E un possibile compagno. Se fosse riuscito a trovarlo, il popolo una volta chiamato Senyas non avrebbe potuto ancora dirsi estinto.

Distolse gli occhi dalle dita ustionate e tremanti. Se il ragazzino era molto giovane, ciò spiegava come avesse potuto lasciarsi privare della Faccia: gliel’avevano semplicemente tolta. Su Deva quel genere di furto era stato una cosa impensabile. Ma la Confederazione, dovette riconoscere, non era Deva.

«Questo ragazzino», disse, sforzandosi di apparire indifferente.

«Dove l’hai visto l’ultima volta? Era fisicamente sano? C’era la donna Bre’n con lui?»

«Facciamo l’affare», propose Jal. «Ciò che so sul ragazzo, in cambio del luogo in cui è stata costruita questa astronave».

Lei passò alla lingua Senyas, volgendosi a Kirtn: «Che ne pensi, Mentore Bre’n? Dobbiamo fidarci di costui?»

«No, Akhenet. Dobbiamo usarlo … se possibile». Fissò su Jal i suoi occhi dorati. «Perché ci hai raggiunti all’astroporto? Potevi risparmiarti di pagare la scommessa, e nessuno all’infuori di noi se ne sarebbe lamentato».

Il mercante sorrise appena. «Senza contare che avrei potuto spararvi, e ricevere un encomio dai Sorveglianti».

«E che motivo avevi per non farlo?»

«Sapevo che avreste cercato di raggiungere lo scalo e filarvela. Era logico. In quanto a me, troppi mi hanno sentito accettare quella scommessa, e io sono un giocatore conosciuto in tutti i casinò. Se qualcuno mi vedesse su Onan nelle tre settimane successive alla vostra fuga, si penserebbe che ho mancato alla mia parola di Professionista, il che nel nostro ambiente è un delitto. Inoltre esiste una legge che obbliga il servo a rifondere i danni causati a terzi dal suo padrone … e pur essendo ricco non me la sento di far ricostruire il Buco Nero a mie spese. A parte ciò, sono curioso. Ho il presentimento che da voi potrò trarre qualcosa di utile».

«Come il sapere in che modo ho barato a Caos?»

Jal si passò sulle labbra una lingua azzurrina come la sua pelle. «Fra le altre cose, certo». Osservò ancora la strumentazione di bordo con un interesse che sfumava nell’avidità. «Di tutti i Ventisette Cicli conosciuti, solo pochi hanno lasciato dietro di sé macchinali così perfezionati. Il Ciclo Mordynr, e un poco quelli Flenta e Spareen». Li fissò come sperando di leggere sulle loro facce una reazione, poi continuò: «Ma soprattutto il Ciclo Zaarain … Ah! Questo nome vi è noto, vedo. Non è così? Ho indovinato?»

«Mitologia», borbottò Rheba.

«Il Ciclo Zaarain esistette realmente», la corresse subito il mercante. «Fu l’Undicesimo Ciclo, il più elevato che il Quarto Popolo abbia mai conosciuto. La Confederazione Yhelle con i suoi trentun pianeti è solo un frammento dell’ultimo e minore di tutti i Cicli, un niente a paragone di quella che fu la grandezza del Ciclo Zaarain».

Nel sentirlo divagare a quel modo, Rheba non era più capace di nascondere la sua noia. «Ah, sì?», borbottò.

«Certo, piccola Liscia ignorante. L’ultimo Ciclo è durato circa duemila anni, e ha interessato quasi settecento pianeti, prima di crollare nella Diciassettesima Grande Tenebra. La Confederazione Yhelle può rappresentare l’inizio di un Diciottesimo Ciclo, o forse no. Ma questo poco importa, perché saremo morti da un pezzo tutti quanti, prima che qualche storico lo decida».

«Anche a noi importa poco di sentire i tuoi discorsi, se intendi farci una lezione di storia», disse Kirtn.

«Io sono un mercante, amico Peloso, e la storia mi è utile per valutare i manufatti delle epoche passate. Molti fra gli articoli che tratto sono d’antiquariato, e li rivendo alle università o ai collezionisti privati. Ma alcuni in particolare …», e indicò i pannèlli di pilotaggio, «… alcuni preferisco tenerli per me. La tecnologia pre-Confederazione può essere assai utile a un commerciante, in certe circostanze».

«Tu non potresti mai essere in grado di manovrare questa astronave», lo informò Rheba. «Così non illuderti che potresti riuscire a rubarcela».

«Mi accontento delle coordinate del pianeta da cui proviene».

Una visione peggiore dell’inferno stesso lampeggiò per un attimo nella mente di lei: il sole in preda alle fiamme esplosive, la sua massa stellare che si dilatava e dilatava fino a coprire Deva in un abbraccio distruttivo, la fine di un intero mondo e di una civiltà. Uno sguardo a Kirtn gli bastò per vedere nei suoi occhi la stessa desolazione e gli stessi pensieri.

Si volse al compagno ancora in lingua Senyas: «Possiamo dirglielo?»

Il Bre’n gli stringeva sempre la catena attorno al collo. «Questo è il tipo che se gli dai una mano ti mangia il braccio», sbuffò disgustato. «Senza dubbio potremmo trovare Loo anche da soli. Però rintracciare il ragazzino non sarebbe cosa dappoco, e nulla ci garantisce che sopravviverebbe tanto. Questo Loo non ha l’aria d’essere precisamente un paradiso».

«Allora gli daremo le coordinate di Deva, così si brucerà le dita a frugare nelle sue ceneri». Rheba si massaggiò le mani pensosamente. «Se c’è ancora una possibilità che il ragazzino sia vivo, dobbiamo muoverci subito. E Jal, sia maledetta la sua linguaccia blu, è la nostra sola speranza».

«Non voltargli le spalle un solo momento, bambina».

Lei sorrise amaramente. «Gliele volterei solo se cercassi qualcuno disposto a piantarmi un coltello nella schiena».

Kirtn le restituì il sogghigno, ma non allentò la stretta della catena al collo di Jal, che ora cominciava a manifestare sintomi d’insofferenza per quel trattamento.

Rheba tornò alla lingua universale. «Ti propongo questo, mercante: tu ci farai da guida su Loo, finché non avremo ritrovato il ragazzo e la donna Bre’n. Quando ce ne andremo di là, ti darò le coordinate del pianeta che t’interessa tanto. Ma non potremo accompagnarti, non è nei nostri programmi tornarci».

«Fuorilegge, eh?», disse Jal. «L’avevo immaginato».

Rheba si limitò a guardarlo, in attesa.

«E va bene, ragazza. Accetto». Jal diede un colpetto sul polso massiccio di Kirtn. «Rimetti il guinzaglio al tuo Peloso, e ti darò le coordinate. Ma quest’oggettino rimane a me».

«La Faccia non è tua, mercante. Non può esserlo».

«È il mio portafortuna, però. E ci tengo».

«Mi spiace. Non è cosa di cui si possa fare mercato. Dagliela, oppure Kirtn dovrà diventare molto antipatico con te».

Jal sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Ma già fra le mani di Kirtn la catena d’oro aveva mandato il suono secco delle maglie che si spezzavano. Con delicatezza il Bre’n staccò la mascherina dal suo fermaglio, e ne sfiorò i contorni come se fosse un oggetto sacro. La fece ruotare fra le dita, e il piccolo volto scolpito diede quasi l’impressione di rispondere al contatto con uno strano e misterioso sorriso.

Rheba distolse lo sguardo, come se non volesse intromettersi nei pensieri più intimi del compagno. Il Bre’n aveva in mano qualcosa di troppo strettamente legato alla sua razza, alla tragedia che l’aveva colpita, e alle sue speranze di ridarle vita. D’un tratto la vista le si offuscò, la cabina parve ondeggiare intorno a lei, e si sentì mancare. Le braccia di Kirtn l’afferrarono un attimo prima che piombasse al suolo, e la sollevarono con premura.

«Devi riposarti nell’utero», le disse in Senyas. «Penserò io al prossimo balzo in overdrive».

La ragazza mormorò una debole protesta, ma senza insistere. Aveva le mani troppo malconce e la mente troppo confusa, per occuparsi del computer dell’astronave. Kirtn sentì che il suo corpo sfinito si rilassava, e con un tocco spalancò lo sportello di una delle tre cuccette incassate in una parete. Depose la giovane donna nel suo interno e richiuse. Jal osservò con interesse il Bre’n operare su un pannello laterale, ma non fu in grado di capire quale fosse la tecnologia di cui si serviva.

«È una specie di dottore automatico?», chiese.

«Dottore? No. Noi lo chiamiamo utero», borbottò l’altro. «È una cuccetta dove il corpo risposa e viene aiutato a guarire in fretta. Niente di miracoloso». E nel vedere l’espressione di Jal aggiunse: «Se tu ci mettessi dentro un cadavere, non lo vedresti certo rivivere».

Il mercante si umettò le labra con la lingua. «Notevole. Posso sapere dove ve lo siete procurato?»

«Fa parte dell’astronave. E adesso vuoi sputare queste coordinate?»

Kirtn andò a sedersi al posto di pilotaggio voltandogli le spalle con indifferenza per mostrargli che intedeva fidarsi di lui, ma in realtà lo stava tenendo d’occhio. Intuendo la sua tensione, Jal gli si avvicinò con l’aria più tranquilla del mondo.

«Quadrante 31, Settore 6, 21 gradi ESW dal primo meridiano di GA-316», rispose.

L’uomo si appoggiò con negligenza a un pannello verticale, tenendo gli occhi fissi sulle mani di Kirtn che correvano sui tasti della consolle. Ma sul volto gli apparve una smorfia di contrarietà quando si rese conto che non riusciva a seguire la manovra. Ne ricavò soltanto l’impressione di luci e suoni armoniosi che si succedevano troppo velocemente per capirci qualcosa.

«Bene», borbottò, deluso. «Loo è a due balzi in overdrive da qui. Le coordinate per il primo sono queste …»

La voce gli si stroncò in un ansito rauco, quando la velocità aumentò con un’accelerazione che lo fece quasi cadere. Appena ripreso l’equilibrio, pallido in faccia, esplose: «Stammi a sentire, Peloso delle mie scarpe: non ho la minima voglia di finire in bocca a Keringa, solo perché non ti degni di ascoltare le mie istruzioni. Ti ha dato di volta il cervello?»

«Risparmia il fiato», disse Kirtn. «Io mi limito a dire al Devalon dove voglio andare, poi è l’astronave a decidere come arrivarci».

L’indignazione dell’altro si mutò in stupore. «Ma non può essere così semplice. Solo sette dei Cicli conosciuti disponevano di computer che …» Tacque, poi gli puntò un dito addosso con un sogghigno soddisfatto. «Zaarain! Dì la verità, questa è un’astronave Zaarain, vero? E ciò significa che sul tuo pianeta è sopravvissuta la civiltà tecnologica dell’Undicesimo Ciclo, corpo di una cometa!»

Kirtn rise. «Nella galassia c’è ben altro che la tua Confederazione Yhelle. Questa nave è stata disegnata e costruita da Scienziati-Danzatori di Deva, ovvero …», emise un fischio modulato, incapace di tradurre il termine con esattezza. «Insomma, da Akhenets. E questo vuol dire che la tecnologia è soltanto nostra: Bre’n e Danzatori Senyasi».

«Danzatori? Strano modo di definire dei tecnici».

«L’universale è una lingua povera. Ho adoperato i termini che più si avvicinano al significato».

Jal sedette sull’altra poltroncina, continuando a studiare i comandi. «Ha un gran valore, non c’è dubbio», borbottò. «Peccato che siate così ignoranti».

Kirtn si volse a mezzo. «Ma che vai dicendo?»

«Siete due ignoranti, due inesperti. E su Loo questo potrebbe costare la vita a voi, ed a me la possibilità di mettere le mani su una tecnologia molto evoluta. A meno che tu non sia così compiacente da darmi fin da ora le coordinate del tuo pianeta».

«Io non sono un tipo compiacente», brontolò Kirtn.

«Allora ascoltami, Peloso: Loo è un pianeta difficile. Tutte le forme di vita della Confederazione Yhelle vi sono rappresentate. Su Loo la gente colleziona … diciamo … cose uniche, originali. Questo ne fa un mondo a sé stante. E molto, molto pericoloso».

Kirtn stava ancora concentrandosi sulla manovra. La poltroncina sensibile aveva assunto la forma del suo corpo, e ora traduceva in impulsi diretti al computer i suoi segnali mentali. Alcune luci lampeggiarono in risposta, suoni melodiosi le accompagnarono, e il Bre’n sorrise soddisfatto.

«Mi stai ascoltando, Peloso?»

«Certo». Kirtn si volse ad annuire. «Stavi dicendo che questo pianeta è un rischio. Ma quale non lo è, quando ospita vita intelligente?» Scrollò le spalle.

«Sono gli animali, e non la gente, ad essere pericolosi. Hai mai sentito parlare del Divoratore Mangariano?»

Il Bre’n si passò le dita sulla mascherina di setole dorate che gli circondava gli occhi, poi s’appoggiò allo schienale con un sospiro stanco. «No. Ma tu farai attenzione che non ci venga fra i piedi, vero?», sbadigliò rumorosamente e si sfregò la mandibola, con un mugolio. «Siediti e allaccia la cintura, che fra un po’ saltiamo in overdrive».

Intanto che l’astronave accelerava preparandosi al balzo, Mercante Jal si dilungò a descrivere al Bre’n alcune delle più ripugnanti e feroci forme di vita della Confederazione. Ad onta della noia che aveva ostentato inizialmente, Kirtn si ritrovò ad ascoltare con un certo interesse i discorsi dell’altro, e più Jal andava avanti più la sua attenzione ne veniva catturata. Mezz’ora dopo Rheba emerse dalla cuccetta-utero, sparì per qualche minuto in una cabina interna dove si occupò della sua toeletta personale, e nel raggiungerli mostrò al Bre’n le mani perfettamente guarite. Il compagno gliele accarezzò sorridendo, poi le fece cenno di sedersi ad ascoltare anch’ella. La ragazza non tardò a scoprire che Mercante Jal era un parlatore ben capace di farsi seguire dal suo pubblico.

A interromperlo venne un segnale sonoro indicante che mancavano pochi secondi al balzo, ed i tre si assicurarono alle poltroncine. Poi vi fu la vibrazione dell’impianto di overdrive che li scaraventava nello spazio non-dimensionale, e in un attimo gli schermi mostrarono che il Devalon s’era trasferito a cinque diametri di distanza da un grosso pianeta grigio e verde. Subito iniziò una rapida decelerazione, mentre il pilota automatico programmava un’orbita ellittica intorno ad esso.

Ma non avevano ancora terminato la prima metà dell’orbita, che una luce blu lampeggiò sulla consolle degli impianti difensivi. Il Devalon era sotto attacco.

«Cos’è quel cicalino lì?», chiese Jal, perplesso.

«Difese automatiche in orbita intorno al pianeta», ansimò Rheba correndo ai comandi.

Il mercante ebbe un sussulto. «Per la coda mozza di Keringa!», strillò. «Apri la trasmittente sulla lunghezza d’onda dell’idrogeno. Muoviti, o ci troveremo un missile in coda!»

«Aperta», rispose lei, indicandogli un microfono.

Jal cominciò a gridare una sequela di parole, formate da vocali molto liquide e consonanti secche, e qualche minuto più tardi la luce blu si spense. Con un ansito di sollievo l’uomo abbandonò la testa all’indietro. Aveva la fronte imperlata di sudore.

«Idiota che sono!», mormorò. «Perdo tempo con degli animali, e mi dimentico i robot!»

Gli altri due lo fissavano accigliati. Rheba chiese: «I robot?»

«Quei dannati affari … i satelliti. Loo dispone di satelliti da difesa risalenti all’epoca pre-Confederazione, scaglionati un po’ in tutto il sistema solare. E se le astronavi in arrivo non trasmettono un segnale d’avvertimento, la vaporizzano».

Un altro segnale luminoso apparve a rivelare che l’astronave viaggiava ora su un’orbita stazionaria, a motori spenti. Poi una linea argentea su un pannello prese a pulsare ritmicamente.

«Contatto radio», disse Rheba. «Ci stanno chiedendo una comunicazione audio».

«È l’astroporto della capitale», annuì Jal. «Lasciate che parli io. I Loo sono un po’, come dire, xenofobi. Detestano gli estranei. Ma con me sarà più facile. Mi conoscono bene».

Rheba non toccò alcun comando, ma la linea argentea divenne rossa e bianca. «Parla pure», concesse.

Subito Jal riprese ad esprimersi nella stessa lingua fluida e secca di poco prima. Ci fu una pausa dovuta alla distanza, e quindi giunse una breve risposta altrettanto incomprensibile ma pacata. L’uomo esibì un sorrisetto rassicurante.

«Ci mandano un raggio direzionale», disse. «Quindici gradi all’interno dell’emisfero diurno, all’altezza dell’equatore».

La ragazza mosse una mano verso la strumentazione, ma senza toccarla, e i suoi capelli vaporosi fremettero. «Localizzato», confermò.

«Seguilo fino a terra. Il mio scalo privato ci sta aspettando».

Il Devalon rallentò ancora, lasciò l’orbita e penetrò nell’atmosfera del pianeta. Venti minuti più tardi toccò il suolo presso il terminal di un astroporto, esattamente nel punto da cui il raggio guida era stato emesso, e dopo una rapida analisi dell’atmosfera il computer segnalò al pilota che poteva aprire il portello esterno.

«Tutto bene, apri pure», disse Jal tranquillamente.

Kirtn sfiorò un pulsante, e dalla camera stagna giunse il lieve ronzio del macchinario d’apertura. Nello stesso momento Jal estrasse da una tasca una piccola capsula a pressione, spezzandone il sigillo, e con un sibilo una nuvola di gas soporifero si sparse nella cabina di comando. L’uomo si limitò a tapparsi naso e bocca con una mano, evitando di respirare. Ma Rheba e Kirtn ne erano stati colti di sorpresa.

Pochi istanti dopo la ragazza scivolò al suolo priva di sensi. Il Bre’n invece riuscì a slacciarsi la cintura e si alzò in piedi barcollando, con una luce omicida negli occhi. Jal indietreggiò in fretta, gli puntò contro un minuscolo storditore simile a una matita e premette il pulsante per alcuni secondi, finché anche l’altro cadde svenuto.

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