Ann Maxwell I danzatori del fuoco

Capitolo 1 IL GIOCO DEL CAOS

Onan era il più libero e licenzioso pianeta della Confederazione Yhelle. Non c’era attività che vi fosse proibita. E come risultato di ciò le ricchezze della Confederazione vi affluivano, quasi attirate — e saldamente trattenute — dalla sua forza gravitazionale. La tentacolare città-spazioporto di Nontondondo era un labirinto di grattacieli multicolori, di strade lastricate di speranza ma intrise di disperazione, dove il rumore della folla e del traffico poteva raggiungere livelli insopportabili.

«Kirtn!» Rheba dovette gridare, per farsi udire dal poderoso Bre’n che le camminava a fianco. «Riesci a vedere l’insegna del Buco Nero?»

Le mani di Kirtn si chiusero intorno alla vita della ragazza, e in un istante Rheba fu sollevata con la bocca all’altezza di un orecchio di lui.

«Riesci a vedere il casinò?», gli gridò ancora.

«Dista appena un paio di isolati», rispose lui.

Perfino la vibrante voce da basso di Kirtn stentò a farsi udire nel frastuono assordante prodotto dalle insegne pubblicitarie sonore e dai veicoli. Le sue labbra modularono allora la risposta nel linguaggio fischiato dei Bre’n, ed i trilli intensi e melodiosi sovrastarono come una cascata di gemme la cacofonia stradale di Nontondondo. La gente che udì si soffermò perplessa, guardandosi attorno con l’aria di non individuare affatto la sorgente di quel suono così insolito.

Tutto ciò che videro fu un umanoide di statura possente, muscoloso e ricoperto d’una cortissima peluria ramata che dava alla sua pelle l’apparenza di un fine velluto. Sulla testa la peluria si mutava in una normale capigliatura, ondulata e rossiccia. Una mascherina di setole dai metallici riflessi dorati circondava invece i suoi occhi, mettendone in risalto la calda espressività. L’abito aderente informava i passanti che era da poco sceso da un’astronave privata.

Vestita in foggia più fantasiosa, Rheba appariva snella e minuta a paragone del suo compagno, sebbene la sua statura fosse superiore alla media umana. Aveva vaporosi capelli dorati ed occhi cerulei, nei quali l’azzurro del cielo sembrava concentrarsi e risplendere. Chi la osservava di spalle poteva vedere che la chioma le proseguiva in una sottile linea di peluria, giù lungo la liscia schiena dalla pelle abbronzata. Ma a diversificarla dalle altre razze umane o umanoidi c’era anche un particolare quasi invisibile: infatti sotto l’epidermide delle sue mani spumeggiava l’intricato arabesco che la qualificava come una giovane Senyasi, una Danzatrice del Fuoco.

Dopo che Kirtn l’ebbe rimessa a terra, mentre stavano per avviarsi sull’affollatissimo marcipiede, dalla ressa sbucò un passante che urtò con forza la schiena della ragazza. Due mani sudaticce la afferrarono per le spalle, e nel volgersi ella vide una faccia larga e brutale su cui stava prendendo forma un sogghigno di laida ammirazione. Il sottilissimo tatuaggio sotto la pelle delle mani di Rheba scintillò, quando ella le sollevò d’istinto per tenerlo a distanza, e da esso nacque una lampeggiante scarica elettrica d’avvertimento. Il rude individuo fece subito un balzo all’indietro, come se ella scottasse, e vacillò quasi che le sue estremità nervose fossero state percorse da un fuoco. Boccheggiava, con espressione vacua.

«Crédo che in futuro l’amico ci penserà due volte, prima di mettere le zampe addosso a una Danzatrice del Fuoco», ghignò soddisfatto Kirtn.

Il Bre’n agguantò l’uomo, che barcollava ancora, e lo depose in uno dei vagoncini che la polizia usava per rastrellare gli ubriachi, posteggiato presso il marciapiede. Poi raggiunse la ragazza, e assieme tagliarono la folla fino all’ingresso del Buco Nero. Appena ebbero oltrepassato la porta di cristallo insonorizzante, parve loro che il vasto atrio del casinò fosse silenzioso come un cimitero al paragone della strada esterna. Kirtn approvò quella quiete scoprendo la dentatura candida e massiccia in un sorrisetto.

Rheba si stava ancora soffregando il dorso delle mani, dove le linee del disegno sottocutaneo erano sfumate nell’opacità. I suoi capelli ondeggiavano lievemente, come se l’energia che aveva richiamato in sé seguitasse a percorrerli alitandovi una vita extracorporea. Per calmarsi mormorò fra sé l’Ottava Norma di Deva, lasciando che i residui di quell’energia defluissero, da lei insieme all’irritazione che le aveva fatto perdere il controllo. Era venuta in quella città straniera di sua volontà, rifletté, e dunque avrebbe dovuto sopportarne la gente e i costumi, per quanto insultanti o bizzarri potessero sembrarle. Ma lo sguardo dello sconosciuto l’aveva spaventata.

«Avremmo dovuto acquistare un Permesso di Omicidio», borbottò di malumore.

«Non abbiamo neppure abbastanza soldi per comprare un semicerchio d’argento, ovvero metà del cerchio intero che qui indica la possibilità di pagarsi un omicidio legalmente. Accontentati della tua licenza da Innocua».

«Un’Innocua, già. Comunque non dicevo sul serio». Con una smorfia Rheba osservò il frammento di cerchio d’argento che aveva cucito su una spallina, uno spezzone corrispondente a 30 gradi d’arco. «Avanti, scoviamo l’uomo che siamo venuti a cercare, e poi andiamocene da questo dannato pianeta puzzolente».

Si stavano dirigendo alla porta interna, quando un impiegato del casinò vestito interamente di nero li avvicinò. La sola decorazione della sua uniforme era un cerchio d’argento fissato su una spalla. Kirtn e Rheba valutarono il simbolo per quel che significava, e quando l’uomo aprì la bocca, la loro attenzione era sul chi vive.

«Ehi, voi! Niente Pelosi qui dentro», si sentirono ordinare.

Rheba sbatté le palpebre. «Pelosi?»

«Proprio così». L’impiegato piazzò un dito sul petto di Kirtn. «Questo tipo qui è un Peloso. Tu invece sei una Liscia. E al Buco Nero sono ammessi soli i Lisci. Se non vi va l’idea di separarvi, andate alla Nebulosa d’Oro, in fondo alla strada. Loro accettano coppie miste e ogni altro genere di pervertiti».

I lunghi capelli di Rheba ondeggiarono, sebbene nell’anticamera del casinò non vi fosse un alito di vento, ma Kirtn s’affrettò a mormorarle alcune rapide frasi di Senyas, la lingua madre dei Senyasi e dei Bre’n:

«Calmati. Se lo ferisci o lo ammazzi, le nostre possibilità di parlare con questo Mercante Jal ce le giochiamo in un colpo solo».

«E chi vuole ucciderlo?», rispose Rheba nella stessa lingua. Elargì un sorrisetto all’impiegato dal cerchio d’argento, che li fissava senza capire una parola. «Stavo solo pensando di bruciacchiare un po’ la sua faccia di bronzo. Solo un pochino».

«Neanche a pensarci. Vuol dire che ti aspetterò in strada», replicò Kirtn, teso.

Rheba fece per obiettare, poi ci rinunciò. L’ultima volta che avevano cozzato contro i pregiudizi locali, era stata lei qualla che aveva dovuto aspettare fuori. E non ricordava più neppure se a far scattare la discriminazione fosse stato il sesso, il colore dei capelli, il numero delle dita o cos’altro.

Poggiò una mano su un braccio del compagno. «E va bene. Farò più presto che posso».

Per qualche istante restò immobile, accarezzando la pelle vellutata di Kirtn con un piacere che era sensuale e infantile al tempo stesso. Come altre Danzatrici del Fuoco, ella era stata educata e allevata dal suo Mentore Bre’n, ed il contatto con le sue braccia foltissime velate di peluria era una sensazione che faceva parte dei suoi più lontani e più cari ricordi di vita.

«Potrei capire un pregiudizio contro i … Lisci», mormorò. «Ma verso una peluria come la tua mi pare una cosa contronatura».

Kirtn le sfiorò la punta del naso con un dito. «Attenta a non prendere fuoco troppo facilmente, bambina, o ti caccerai nei guai. D’accordo?»

Lei annuì con un sorriso, e tornò a volgersi all’impiegato. Stavolta parlò in Universale, la lingua usata comunemente su quasi tutti i pianeti della Confederazione. «In questa fogna di posto, avete un gioco chiamato Caos?»

«È il più importante del casinò», borbottò l’uomo, poi accennò con un moto sprezzante al permesso cucito sulla spallina di lei. «Ma non è un gioco adatto ai gonzi … o un’Innocua».

Di nuovo le chiome di Rheba ondeggiarono «Lo dice la Legge, o è soltanto la vostra opinione?»

L’impiegato si limitò a una spallucciata.

«Allora, dov’è questo gioco?», chiese lei seccamente.

«Sul fondo del salone da gioco, al centro, dove c’è la grande piramide di cristallo. Ma i dilettanti non possono oltrepassare la balaustra».

Mentre Rheba lo aggirava, diretta alla porta interna, la voce dell’altro la raggiunse con un altro commento astioso: «Mi auguro che tu abbia lasciato in strada anche la tua ignoranza, oltre al tuo amico Peloso. Qui dentro c’è gente che di omicidi può permettersene dozzine».

Scacciando la tentazione di voltarsi per replicare a tono, la ragazza proseguì a passi decisi. L’ingresso del salone centrale del casinò era protetto da un campo di forza simile a un tendaggio, che nell’attraversarlo le diede una sensazione carezzevole, e subito fu assalita da una cacofonia di voci e di rumori elettronici. Il soffitto era un unico immenso schermo da videogame, dove pareva svolgersi una battaglia di galassie. A livello del suolo i giocatori invocavano o bestemmiavano i loro dèi in tutte le lingue della Confederazione Yhelle, ma i rituali a cui si dedicavano non avevano bisogno di traduzione per esser capiti.

Rheba parlava soltanto tre lingue: il Senyas, il Bre’n e l’Universale, e Kirtn era l’unico essere vivente con cui avrebbe potuto comunicare nelle prime due. La babilonia di linguaggi incomprensibili che le raggiungeva le orecchie la lasciò un attimo frastornata, dandole l’impressione d’essere più isolata e sola che mai. Era un Senyasi, e Kirtn era un Bre’n. Soltanto loro due, a quanto per il momento ne sapeva, erano scampati al terribile olocausto quando il sole Deva aveva investito con le sue fiamme esplosive i cinque pianeti più interni del sistema.

Una Senyasi, un Bre’n. E un’intera galassia colma di gente che per loro era straniera.

Con uno sforzo allontanò da sé i ricordi della tragedia, che minacciavano di sommergerle la mente. Lei e Kirtn erano pur sopravvissuti, si disse, e dunque doveva esser rimasto in vita anche qualcun altro. Pochi forse, e chissà dove. Ma era suo unico desiderio e scopo cercarli, e li avrebbe ritrovati, anche se questo le avrebbe preso i secoli che sarebbe durata la sua vita.

Si fece strada nei passaggi lasciati liberi dalla folla dei giocatori, talora accalcati a decine intorno a un tavolo, talaltra intenti a un gioco singolo che accentrava ipnoticamente le loro facoltà mentali. Lo spazio per muoversi era scarsissimo, ma dove una parola cortese o una spintarella non bastavano, ella usava una scossetta d’energia, provocando lievi sussulti in chi le stava ostruendo il cammino. In breve riuscì a raggiungere la grande piramide alta una dozzina di metri intorno alla quale si svolgeva il gioco chiamato Caos.

Subito comprese che il soffitto a schermo del salone costituiva lo sviluppo visibile di quel grande videogame, e che le immagini venivano create dai giocatori stessi tramite i rispettivi computer di gara. Sui gradini della piramide erano scaglionati posti a sedere, che parevano riservati ai giocatori più abili, mentre quello sulla cima era un vero e proprio piccolo trono, ma anche quelli ai tavoli che ne attorniavano la base erano forniti di un terminale di computer. Chi riusciva ad arricchire, acquistando potenza, era autorizzato a scalzare dal suo posto un giocatore a un livello superiore della piramide. E i giocatori che riuscivano a mettere in gioco più denaro avevano anche più potere su quanto avveniva sul grande schermo.

Per tener fede al nome del gioco, le regole erano soggette a cambiare di continuo, e tali mutamenti potevano essere prestabiliti sia dalla maggioranza dei giocatori, sia dal singolo che era riuscito a portarsi sulla più alta posizione di controllo. L’unica norma fissa era questa: se qualcuno restava senza denaro sufficiente a proseguire il gioco, veniva immediatamente fatto sloggiare dai robusti impiegati del casinò. Su Onan, la penuria di soldi èra considerata un ottimo motivo per penalizzare o disprezzare qualcuno.

Barare ed escogitare imbrogli d’ogni genere non era affatto proibito. Al contrario vi si doveva far ricorso quasi obbligatoriamente, se non si voleva essere rovinati o rimandati a un posto più basso da altri concorrenti più astuti. E saper tutto sull’elettronica e sull’arte dell’imbroglio era la qualità di chi voleva vincere a Caos. Chi restava vittima di un baro non aveva che da biasimare se stesso. E chi voleva vendicarsi poteva farlo atrocemente, qualora avesse un permesso d’omicidio, … e sempreché la vittima non disponesse di amici o parenti altrettanto pronti a vendicarlo. Come le aveva detto l’uomo all’ingresso, Caos non era precisamente un gioco adatto a chi aveva appena una licenza di Innocua. E tuttavia la licenza d’innocua di Rheba consisteva soltanto nella sua mancanza di denaro.

Si mosse verso la stazione di uscita dei giocatori, cercando di accostarsi a un umanoide bianco di pelle e di capelli, sul cui polso le era parso di scorgere una cicatrice a zig zag. Non era il solo della sua razza, e mentre Rheba scivolava lungo la balaustra esterna del Caos notò che non era neppure il solo ad avere cicatrici. Si fermò indecisa.

«Giocate con me?», chiese una voce di soprano dietro di lei.

Volgendosi vide che a parlarle era stata una donna di pelle nera, bellissima e flessuosa, il cui costume era un vero e proprio oltraggio al pudore. Gestiva un gioco a un tavolo elettronico, e fra i seni le pendeva un anello d’argento che dava un tocco perverso alla sua sensualità.

«Sono in’Innocua, Signora», sorrise Rheba, «ma non una stupida. No, Cerchio d’Argento, grazie».

La ragazza le restituì il sorriso e riprese ad accumulare pile di gemme scintillanti, in attesa che qualche altro avventore si lasciasse incantare gli occhi da quell’arcobaleno di gioielli.

Rheba percorse con lo sguardo i tavoli da gioco intorno alla base della grande piramide, dove sedevano un centinaio di individui dei due sessi e di svariate razze umanoidi, e in quel momento li sentì mandare esclamazioni eccitate. Alzando lo sguardo vide il motivo della loro agitazione: un giocatore dalla pelle azzurrina, con capelli d’un blu intenso, si era impossessato proprio allora del piccolo trono posto sul gradino più alto. Quando fu seduto e poggiò le mani sulla consolle dei comandi, la ragazza poté vedere la cicatrice che gli scorreva dal polso fin sulle nocche delle dita. Ma più che la cicatrice fu la collana che gli cingeva il collo a farle capire che l’uomo era quello, perché il pendente era una mascherina d’avorio splendidamente intagliato d’inconfondibile fatture Bre’n.

«Mercante Jal!», lo chiamò Rheba agitando le braccia.

L’uomo abbassò lo sguardo. L’espressione seccata e altera poteva significare che il richiamo l’aveva irritato, oppure era semplicemente il sintomo d’un temperamento sdegnoso.

«Io detesto le bionde, e specialmente quelle con una stupida licenza di Innocua», disse, facendole un cenno di congedo. S’appoggiò allo schienale, aggiustandosi la blusa in modo che il cerchio d’argento su di essa risaltasse in evidenza. Il suo gesto riuscì ad essere nello stesso tempo vanitoso e larvatamente minaccioso.

«Eppure ci sono due cose che abbiamo in comune», disse Rheba a voce alta per farsi udire.

«Una sarebbe già troppa!», sbottò Jal con un’occhiataccia, sorpreso che un’Innocua ignorasse il suo velato ammonimento.

«La prima è che anch’io detesto voi. E la seconda è l’interesse per i manufatti di artigianato Bre’n».

Un lato della bocca dell’uomo si contrasse, rivelando stupore o forse un impulso di rabbia. «Manufatti Bre’n? …», chiese tuttavia.

Rheba spostò indietro i capelli dorati rivelando un largo orecchino. Anch’esso era una mascherina raffigurante il volto di un Bre’n, sebbene solo Kirtn sapesse quale in particolare. La ragazza ricordava di avergli chiesto soltanto una volta a chi appartenesse quella faccia, e lui non le aveva risposto.

«Riconoscete la fattura?» domandò, girando la testa per mostrargli meglio il pendente.

Gli occhi dell’uomo ebbero un lampo, poi si passò le mani sulle ginocchia in un gesto che rivelava tensione. Distrarsi dal gioco proprio in quel momento non gli riusciva gradito.

«Dove lo hai avuto?», chiese comunque.

Rheba sorrise appena. «Allora sono tre le cose che abbiamo in comune, perché questa è la stessa domanda che volevo rivolgere a voi. Le informazioni sono una merce di scambio che posso pagare. Vogliamo trattare?»

Mentre parlava la sua mano destra era scivolata in una tasca del vestito chiudendosi attorno a un pacchettino di gemme. Quelle poche pietre preziose erano l’intera ricchezza sua e di Kirtn, e le avrebbe cedute tutte senza esitare pur di avere l’indizio che le premeva: Mercante Jal aveva avuto contatto con altri superstiti Senyasì o Bre’n?

Ma l’uomo non la degnava più della sua attenzione, perché un giocatore che si trovava al quinto livello della piramide gli parlò in una lingua che ella non aveva mai sentito. Jal ribatté qualcosa in tonò sferzante, poi le sue dita danzarono con rabbia sulla tastiera del suo computer di gara. Sul soffitto-schermo della sala le nebulose strisce degli uragani spaziali e i vortici dei buchi neri mutarono colore e direzione, e dai circa duecento partecipanti si levarono sia imprecazioni che esclamazioni di sollievo. Un nuovo ciclo di gioco con nuove regole ebbe inizio.

Rheba cercò invano di attrarre ancora l’attenzione di Jal, che aveva ripreso a occuparsi del gioco e non s’interessava d’altro. La ragazza strinse i denti, intuendo che lo sgradevole individuo non l’avrebbe neppure guardata, almeno finché i suoi interessi pecuniari erano in ballo. Si volse allora a uno spettatore che s’era fermato alla ringhiera, e che esibiva un distintivo da Giocatore Dilettante appeso al lobo di un orecchio.

«Quanto può durare in media un ciclo di gioco?», gli chiese.

L’uomo consultò rapidamente un minicomputer da polso, e osservò la risposta. «Calcolando che Mercante Jal è uno dei Professionisti più abili della città, direi che prima di diciassette ore nessuno riuscirà a toglierlo dal gioco. E se resta al primo livello per tutto questo tempo, potrà ammassare una bella sommetta».

Rheba emise un mugolio scoraggiato. Per ogni minuto d’orologio che la loro astronave trascorreva in sosta allo scalo portuale, dal loro deposito in AVO (Acconto in Valuta di Onan) venivano prelevati 23 crediti. Lei e Kirtn non potevano permettersi d’aspettare che Jal rimanesse in bolletta o decidesse di ritirarsi dopo aver vinto il massimo possibile. Dunque sarebbe toccato a lei cercare di abbreviare la durata di quel ciclo di gioco.

La ragazza si presentò alla stazione d’entrata del Caos, acquistò per dieci crediti un orecchino che la qualificava come Giocatrice Dilettante, e s’infilò in un orecchio l’auricolare collegato al computer centrale del casinò. Poi batté la sua richiesta sul terminale, e ascoltò con attenzione mentre una sibilante voce elettronica le snocciolava le regole del ciclo appena iniziato. Intanto che compiva quell’operazione un’altra norma venne modificata, cambiando l’aspetto generale del gioco come il rannuvolarsi del cielo ne altera la luminosità. Con una smorfia si fece ripetere daccapo l’intero regolamento aggiornato.

In sintesi, il Caos consisteva nella lotta di pianeti e di intere galassie contro le forze cieche dei buchi neri e degli uragani. Questi ultimi erano in movimento sul soffitto-schermo secondo rotte che il computer programmava a caso, mentre i giocatori a loro volta programmavano i loro corpi celesti su orbite difensive. La lotta per non venire assorbiti da un buco nero o distrutti da un uragano era complicata, ma rappresentava solo una parte delle difficoltà, perché chi possedeva una o più galassie ne usava la forza di spinta per mandare alla distruzione corpi celesti più piccoli.

A livello del suolo, ovvero ai tavoli intorno al primo livello della piramide, tenere in gioco un pianeta costava relativamente poco. Ma sui gradini della piramide di cristallo si perdevano o vincevano somme sempre più elevate, a seconda del livello su quale si operava. Chi poteva mettere in orbita un sistema solare occupava il primo gradino, mentre sul secondo e sul terzo vi erano soltanto proprietari di galassie, e così via fino al sesto. Ogni corpo celeste aveva un suo colore, o una combinazione di colori, che ne indicava il proprietario, e potevano essere tutti vinti o perduti con relativo accredito di denaro sul terminale di chi aveva avuto la meglio. Ovviamente il computer del casinò accettava in gioco solo chi gli forniva la sigla del suo deposito bancario in AVO, su cui effettuava automaticamente depositi o prelievi.

Tuttavia in quel momento non c’erano posti liberi a nessuno dei primi e più economici livelli di gioco. Rheba avrebbe avuto la possibilità di accedere al quarto gradino, ma dovette rinunciarvi perché non era in grado di pagare neanche quella che veniva chiamata la scommessa minima. Sul suo piccolo trono Jal aveva invece diritto d’incamerare una quota delle somme giocate al terzo livello, ed era chiaro che nulla al mondo l’avrebbe persuaso ad abbandonare spontaneamente una posizione tanto lucrativa. La ragazza decise d’introdursi in qualche modo al livello inferiore, ed una volta entrata avrebbe tentato di scalzare via Jal dal suo posto.

Un giretto intorno alla ringhiera che circondava i tavoli le diede l’opportunità d’individuare la sua prima preda: un individuo dall’aria di un drogato, il cui terminale mostrava un deposito AVO ridotto ad appena 50 crediti. Gli si accostò scivolando fra la gente che si assiepava lungo la balaustra, e quando gli fu accanto mosse le mani con fare noncurante. I suoi capelli vaporosi ondeggiarono appena. Da lì a pochi secondi l’individuo preso di mira cominciò a passarsi le mani sul collo, come se boccheggiasse in cerca d’aria, e la sua fronte s’imperlò di sudore. Infine balzò in piedi, col volto congestionato, e fendendo la calca si precipitò all’uscita del casinò, avido di respirare l’aria più fresca della strada.

Rheba approfittò di quegli istanti di confusione per sedersi con tutta calma al posto rimasto libero. Il terminale era automaticamente scattato a zero. Osservò il grande soffitto-schermo, dove i particolari di quella titanica lotta mutavano a seconda degli impulsi inviati continuamente dai giocatori, poi batté il suo codice personale, e si vide fornire l’ammontare del suo AVO. Subito dalla cifra venne detratta la scommessa minima per il livello di base, 10 crediti che le diedero diritto a un minuscolo pianeta rosso e giallo posto su un’orbita pericolosa. Era nel gioco e avrebbe dovuto restarvi rischiando il meno possibile.

Dapprima spese solo i crediti bastanti a spostare il suo pianetino lontano da un uragano spaziale, e fu soddisfatta nel vedersi restituire la somma quand’ebbe superato il periodo minimo di sopravvivenza. Apparentemente le regole in vigore in quel momento facilitavano le cose ai piccoli giocatori. La sua attenzione era però concentrata sul tipo di energia con cui il gigantesco videogame agiva. Si trattava d’impulsi elettronici così rapidi che comprendere il meccanismo delle loro pulsazioni era quasi impossibile, anche per lei che era abituata a maneggiare energie forti e brucianti.

L’intero gioco ruotava intorno ai movimenti casuali dei buchi neri e degli uragani spaziali, che il computer centrale costruiva con impulsi di energia subatomica. Ciò rendeva difficilissimo, o addirittura impossibile, usare la telecinesi per barare. Il computer poteva certo essere influenzato con sistemi più macchinosi, ed anzi questa doveva essere la più comune forma d’imbroglio dei Professionisti più capaci, ma Rheba non disponeva del tempo né del denaro che sarebbero occorsi per un sotterfugio di quel genere. Parecchi giocatori a vari livelli sembravano agire in accordo fra loro, in barba alle norme di quel ciclo, e provocavano risonanze gravitazionali che si concludevano con l’assorbimento dei corpi celesti appartenenti a singoli partecipanti più deboli. Almeno una delle galassie presenti sullo schermo era un’illusione ottica, ed ella non fu capace di stabilire chi fra i partecipanti la stesse inviando mentalmente ed a quale scopo. Ma poco dopo vide arrivare due impiegati, che afferrarono un giocatore per le braccia e lo trascinarono via senza complimenti. Dai discorsi degli altri seppe che si trattava di uno PSI, e il suo allontanamento segnò la fine dell’illusione ottica.

Da lì a cinque minuti, uno dei gruppi che s’erano accordati per agire di concerto venne sconfitto e rovinato da un gruppo rivale, e i corpi celesti assorbiti da quelli vincenti cambiarono colore. La ragazza cominciò a percepire con più facilità le correnti energetiche da cui erano composti gli uragani e i buchi neri. Pian piano, e con discrezione, prese a manovrare gli impulsi che il computer centrale inviava allo schermo per costruirne gli spostamenti.

Non era facile barare con quel sistema. L’intensa concentrazione faceva prudere e dolere il complesso intreccio di linee disegnate sotto l’epidermide delle mani. Ma pian piano il suo pianetino rosso e giallo si vide inaspettatamente tallonare da un immenso uragano spaziale, che senza affatto distruggerlo lo seguì aumentandone la forza d’urto in modo enorme. Tre galassie appartenenti a un Professionista del quinto livello ne furono investite, e il loro colore mutò da verde in rosso e giallo: il computer ne aveva attribuito la distruzione al pianetino isolato, e il giocatore perse all’istante i 1000 crediti che gli erano costate. L’uomo bestemmiò sulla sua malasorte, e ritirò velocemente le galassie rimastegli, lasciando a Rheba una preda discreta.

A parte la vittima stessa, nessuno fece caso alla fortuna sfacciata della proprietaria del pianeta, e le sue nuove proprietà seguitarono ad essere immuni dalla pericolosa vicinanza dell’uragano. Sul terminale di Rheba il deposito AVO aumentò di 1000 crediti, e vi apparvero i contrassegni indicanti che possedeva tre galassie. Le programmò su un’orbita a basso rischio che costò 50 crediti, e mise all’opera la sua mente inviando impulsi a un paio di grossi buchi neri.

Ora che aveva compreso il meccanismo, la manovra seguente le riuscì più semplicemente. In pochi secondi un gruppo di grossi sistemi solari si vide costretto a deviare nella piccola zona controllata da lei, sotto la minaccia di due buchi neri che avanzavano insieme, e finirono conglobati dalle sue galassie. La vittima di quell’azione era stata una donna seduta al terzo livello, che si guardò attorno con occhi scintillanti di rabbia. Era una Professionista, e doveva aver capito che il computer centrale si stava comportando in modo decisamente insolito.

Rheba vide la cifra sul suo conto accrescersi di altri 300 crediti. Il soffitto-schermo mostrava ora che presso i suoi corpi astrali rossi e gialli ve n’erano altri di colore azzurro, più numerosi, dai quali rischiava di subire delle perdite. Usando la striscia nebulosa di un uragano li tagliò allora in due, e quindi fu lei ad attaccarli con due azioni successive, mentre l’uragano da lei mosso si spostava a proteggerla dall’assalto di un avversario ancora più forte. Per quanto sbalorditiva, la sua apparente fortuna continuò ad essere attribuita a un capriccio del computer, ma il giocatore del colore azzurro ne fu rovinato. Non avendo abbastanza crediti per continuare il gioco su quel livello, il suo terminale lo informò che doveva scendere al primo.

In silenzio e a denti stretti l’uomo cambiò il suo posto con Rheba, che avendogli portato l’attacco aveva il diritto ed i mezzi per sostituirlo. La ragazza possedeva ora 4200 crediti, più che bastanti per consentirle il gioco contro avversari più poveri, ma del tutto insufficienti a proteggerla se uno dei gruppi organizzati l’avesse presa di mira direttamente.

La sua repentina ascesa al terzo livello non attrasse troppa attenzione. Ai primi tre c’erano in totale sessanta giocatori, e l’alternarsi di essi era abbastanza rapido. Ma la ragazza scoprì ben presto un metodo ancor più rapido per arricchire: le era stato assegnato il colore azzurro, e con impulsi mentali d’energia riuscì a far diventare azzurre moltissime galassie appartenenti ad altri, pur senza attaccarle affatto. Quando poté sostituirsi a un Professionista del quarto livello, dopo averlo ridotto in bolletta, su di lei si appuntarono tuttavia molti sguardi freddamente interessati. Sul suo stesso gradino della piramide quadrangolare c’erano altri undici giocatori, distribuiti tre per lato e ciascuno seduto su una comoda poltroncina, dunque era arrivata già piuttosto in alto sulle teste della folla sottostante.

Un quarto d’ora e 46.000 crediti più tardi, Rheba salì al quinto livello e fu alla pari con gli altri otto giocatori che agivano a quell’altezza, due per ogni lato della piramide. Il suo colore divenne l’argento, e possedeva ora una gran quantità di corpi astrali distribuiti in ogni angolo dell’immenso schermo. Tre dei Professionisti più forti si coalizzarono subito contro di lei, e non riuscendo a decifrare l’invio dei loro impulsi d’energia ella comprese che stavano barando in un modo troppo complicato per lei.

Accigliata vide la cifra del suo conto AVO decrescere a scatti continui, finché disperata decise di agire con violenza. In un sol colpo riuscì a far diventare argentee una buona metà delle galassie che comparivano sullo schermo, senza che nessuno ne capisse il motivo e annientando sia il gruppo che l’assaliva sia molti innocenti giocatori di tutti i livelli. Quell’effetto, stupefacente e inaspettato, aveva tuttavia dei precedenti, visto che il computer del Caos sovente era stato programmato con regole basate sull’improbabile. Cionondimeno fra i giocatori dei livelli più alti vi furono dei mormorii, a cui fece eco un coro di commenti di quelli all’opera più in basso. I Professionisti e i Dilettanti lasciarono pian piano perdere i giochi a cui si dedicavano, per osservare con interesse quel che stava accadendo al Caos, e la folla degli spettatori si radunò alla ringhiera esterna come un’ameba che ritirasse a sé gli pseudopodi.

Rheba avvertì il mutamento d’atmosfera nel vasto salone, e decise d’aver esagerato in modo forse pericoloso. Sotto la pelle delle sue mani l’arabesco del tatuaggio energetico era adesso visibile, ed emetteva un lieve bagliore dorato che traspariva nettamente. Si massaggiò le dita, assorta in una nuova strategia di gara. Per salvare le apparenze aveva continuato a programmare sul terminale, usando in parallelo un’energia che agli altri risultava occulta. Zufolando fra i denti spese 5.000 crediti per sistemare un centinaio di galassie su orbite di sicurezza, lasciandole agire quasi da sole contro chi avrebbero investito, e non le importò quando finì col perderne una ventina.

Il computer segnalò il termine di uno dei periodi programmati per il pagamento di una tassa di partecipazione, e mentre i giocatori del livello inferiore si videro decurtati di 20 crediti, a Rheba toccò sborsarne 1.000. Subito dopo sul terminale apparve il segnale video che indicava un mutamento di regole: Mercante Jal e altri grossi giocatori dovevano essersi coalizzati in quella manovra, e la nuova norma che lampeggiò sullo schermo della ragazza era tutta rivolta ai danni del giocatore n° 7: se non si fosse immediatamente spogliato per far controllare i suoi vestiti, gli inservienti lo avrebbero espulso dal gioco.

Rheba si guardò distrattamente attorno per individuare la vittima di quella imprevista novità, finché con un sussulto si rese conto che il giocatore n° 7 era lei. Per un attimo il suo volto espresse stupore e irritazione, ma sotto gli sguardi che le si puntavano addosso decise di esibire un freddo autocontrollo. Si alzò in piedi e con calma assoluta prese a spogliarsi. Capiva che era stato il pragmatismo dei Professionisti a motivare quella richiesta, e non già il loro voyerismo mascolino: di certo molti dovevano aver sospettato che ella nascondesse sotto il vestito qualche singolare apparecchio elettronico, col quale aveva barato astutamente, e ora intendevano smascherarla.

Del tutto nuda e rivelando una totale indifferenza, lasciò al suolo gli indumenti e tornò a concentrarsi sul gioco, mentre due impiegati del casinò erano saliti a controllare la sua roba con meticolosità professionale. La loro ricerca portò alla luce solo alcune minuscole armi da difesa e il pacchettino di gemme, queste ultime abbastanza preziose ma peraltro comuni. Non fu trovato nulla che potesse esser messo in relazione con gli influssi subiti dal perfezionato computer del casinò.

«Esaminate il suo orecchino», suggerì Jal dal suo trono.

Impassibile Rheba consultò il terminale sulla regola di cui era vittima, quindi sollevò ironicamente un sopracciglio:

«Gli orecchini non vengono considerati indumenti da togliersi», gli comunicò con un sorrisetto.

Senza esitare Jal batté sui tasti della sua consolle, usufruendo del suo potere di mutare le regole a piacimento purché fosse disposto a pagarci dieci volte la tassa di partecipazione. Lo sfizio gli costò 20.000 crediti, e gli spettatori mandarono risa ed esclamazioni di meraviglia, affascinati nel vedere come si buttavano via i soldi sulla piramide del Caos. Sul terminale di Rheba apparve la norma nuovamente corretta: tutti gli ornamenti personali del giocatore n° 7 dovevano essere rimossi ed esaminati dagli esperti.

La ragazza si tolse con un sospiro l’orecchino di fattura Bre’n, la cui complessa chiusura lo fissava al lobo dell’orecchio in sette punti diversi. Era un gioiello e insieme anche l’assicurazione che ella non avrebbe mai dimenticato il volto rappresentato in quella mascherina. La sapienza dell’artigianato Bre’n faceva sì che quel volto rimanesse identico pur se osservato da un’angolazione molto laterale. Era una faccia dall’espressione distante, stranamente sensuale e ossessionante.

Ma prima di voltarsi a consegnare quel piccolo oggetto agli impiegati, la ragazza consultò il computer. Vista la cifra di cui era in possesso batté una richiesta per la direzione del casinò, e questa le fece pervenire tramite la consolle stessa un cerchio d’argento nuovo di zecca. Lo tolse dal cassettino e vi infilò una grossa ciocca di capelli, usandolo come fermatreccia.

L’oggetto indicava la possibilità economica — e dunque del tutto legale — di pagarsi un delitto, simboleggiando una vera e propria licenza di uccidere. Così munita osservò da pari a pari i dipendenti del casinò. L’orecchino tintinnò nella sua mano protesa.

«Esigo che non sia danneggiato. Per me ha un valore che non è calcolabile in denaro», disse in tono d’avvertimento.

L’impiegato che lo prese esibì estrema cura nel maneggiarlo. Lo passò al vaglio di un’apparecchiatura portatile, e l’analisi rivelò solo che alla sua struttura molecolare erano associate cellule di osso fossilizzato. Glielo restituì.

«Qui non c’è niente d’irregolare, Jal», riferì l’uomo infine.

«Satin?» L’interrogativo di Jal era diretto a qualcuno dietro le spalle di Rheba.

La ragazza si volse e vide con una certa sorpresa la bellissima negra che le aveva rivolto la parola poco tempo prima. Le si stava accostando, e la fissava con occhi socchiusi.

Quale che fosse l’esame a cui Satin le stava sottoponendo, esso fu brevissimo. La negra ebbe un gesto d’incertezza. «È quasi certamente una PSI, ma … nessun blocco anti-PSI è stato forzato». La fissò con franca curiosità. «Sei strana, tu. Da dove vieni, ragazza?»

«Da un pianeta chiamato Fortuna, nella costellazione della Dea Bendata».

Satin esplose in una vibrante risata, ironica e divertita nello stesso tempo. Si mosse a passi flessuosi verso Jal, e lo fissò in un silenzio che era un’attesa e una sfida insieme. L’uomo stava però guardando Rheba con occhi duri e ostili.

«Quando avevate di fronte una semplice Innocua, vi disgustava parlarle, Mercante Jal», disse lei. «Ora siete sul punto di scendere da quel trono fasullo … Ma potreste risparmiarvelo, se solo mi deste l’informazione che cerco».

«La tua lingua avrebbe bisogno d’essere spuntata, cagna!», ringhiò l’individuo.

«Questa è la quarta cosa che abbiamo in comune: anche la vostra lingua osa troppo. Vi consiglio di accettare un’offerta onesta».

«E pretendi di lasciarmi al mio posto, in cambio? Che stupida illusione. Tu non vali la metà di quel che credi, piccola imbrogliona dai capelli biondi».

«Allora che ne dite di una scommessa a parte?»

Jal parve interessato. «Sentiamo: cosa metti in palio?»

«Risposte».

«Troppo vago. Diciamo invece … tre settimane di servitù».

Rheba esitò. Se avesse vinto lei, Jal sarebbe stato costretto a servirla praticamente in qualità di schiavo per tre settimane, ma l’idea che l’uomo avrebbe disposto di lei nello stesso modo per un periodo così lungo non era accettabile. Le conveniva pensare bene a quel che stava rischiando.

«Tre giorni saranno più che sufficienti per i miei scopi», propose. All’improvviso provava verso di lui un disgusto notevole.

«Ma non abbastanza per i miei», affermò Jal con un sorrisetto spiacevole. «Tre settimane, ho detto».

Per un istante la ragazza desiderò esser fuori portata di quegli occhi blu scuro fissi nei suoi. Sentiva acutamente il bisogno della vicinanza rassicurante di Kirtn e della sua forza. Poi ricordò a sé stessa che non erano venuti su Onan per divertirsi. Il desiderio di riunirsi ad altri della sua razza era la sola cosa che la spingesse a vivere.

E Mercante Jal aveva al collo un pendente Bre’n.

«Ci sto», disse con voce atona.

Aveva appena finito di parlare, quando l’altro pagò ancora dieci volte la tassa di partecipazione e le regole del Caos vennero mutate a suo piacimento. I colori scomparvero del tutto dai corpi astrali che riempivano il grande soffitto-schermo, lasciando il posto a luci bianche identiche per tutti. E con lo svanire dei colori, Rheba comprese che le sue possibilità d’azione si riducevano drasticamente.

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