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“A costituire la nostra forza è il nostro desiderio di viaggiare. La nostra curiosità. Il nostro spirito che esplora, che ricerca, che si libra in volo…”


— Ci siamo? — chiese Veronica all’altoparlante.

— Ci siamo — rispose Mary nel microfono spillato alla camicetta. Era seduta in poltrona in uno stanzino scuro. Prima che le luci si spegnessero, aveva visto che le pareti erano rivestite di piramidi di gommapiuma, probabilmente per garantire l’isolamento acustico.

— Bene — rispose Veronica. — Non proverai dolore. In ogni caso, in qualunque momento tu voglia interrompere l’operazione, basta che lo dica.

Mary indossava un casco da motociclista riadattato, con solenoidi disposti all’altezza delle tempie. Un intrico di cavi collegava il casco a una sorta di rastrelliera.

— Okay. Via! — disse Veronica.

Mary si aspettava di sentire un ronzio o cose del genere. Invece, solo buio e silenzio. E…

Oddio!

Nello stanzino c’era qualcuno! Dietro di lei. Non poteva vederlo, ma percepiva l’intensità del suo sguardo.

“Ridicolo” pensò. Si stava lasciando suggestionare dalle spiegazioni di Veronica. Certo che si stanziavano fondi per ricerche totalmente assurde. Non era altro che…

E, all’improvviso, Mary capì chi era.

Una donna.

Con il suo stesso nome.

Maria.

La Vergine. La Madre di Dio.

Non poteva vederla direttamente. Solo una luce abbagliante che le si muoveva di fronte, senza ferire lo sguardo. Ma la sua identità era rivelata dalla sua purezza… L’Immacolata… “Causa della nostra letizia… Sede della Sapienza”…

Mary chiuse gli occhi, e la luce era ancora lì.

Maria…

Poi la scienziata che c’era in lei prese il sopravvento. Ovvio, si faceva condizionare dal proprio nome. Se si fosse chiamata Teresa, avrebbe visto Madre Teresa.

Ma… no.

No, non era quello.

Che il cervello pensasse ciò che gli pareva. L’anima le diceva che in quella luce c’era qualcosa di più.

Quella era davvero Maria, madre di Gesù.

“Perché no?” pensò Mary. II solo fatto che lei si trovasse in un laboratorio non era un impedimento.

Un miracolo poteva avvenire ovunque. Se la Madonna era apparsa a Lourdes e Fatima e Guadalupe e La Vang, in Vietnam, perché non a Sudbury?

E perché non avrebbe dovuto parlare proprio a lei?

Però, un attimo. Di fronte alla Madonna occorreva anzitutto umiltà. Tanta umiltà.

Eppure…

Eppure, era poi così impensabile che la Madonna apparisse a Mary Vaughan? In fondo, la scienziata era in partenza per un mondo senza Dio. La madre del Salvatore aveva tutto l’interesse a incontrarla.

Quella pura presenza, ora, si stava spostando verso sinistra, fluttuava. Non toccava il suolo.

Ma quale suolo? Era il pavimento di un laboratorio.

La stavano sottoponendo a stimolazione magnetica.

Mary chiuse di nuovo gli occhi. Continuò a percepire quella presenza.

Una presenza dolcissima.

Mary aprì la bocca per parlare alla Vergine, e…

E di colpo era svanita.

Ormai però Mary provava un sentimento estatico che non aveva più provato dal giorno della prima Comunione. Lo Spirito di Cristo in lei.

— Come va? — chiese una voce femminile.

Mary ignorò quella goffa intrusione. Voleva assaporare quel momento fino in fondo, come un sogno da memorizzare prima che si dilegui.

— Mèr — disse una voce più baritonale — stai bene?

C’era stato un periodo in cui lei avrebbe fatto di tutto pur di risentire quella voce. Adesso però desiderava solo il silenzio.

Troppo tardi. La porta si aprì, la stanza fu invasa dalla fredda luce dei neon esterni. Entrò Veronica Shannon, seguita da Ponter. La ragazza rimosse il casco dalla testa di Mary.

Ponter le passò un pollice sulla guancia. Il dito si bagnò. — Stai bene? — chiese di nuovo.

Mary non si era accorta di avere pianto. — Sì — rispose. Poi, accorgendosi che non era sufficiente a esprimere ciò che provava, aggiunse: — Sto meravigliosamente bene.

— Quelle lacrime… — disse Ponter. — Hai avuto qualche esperienza particolare?

Mary annuì.

— Che cos’era? — chiese lui.

Mary inspirò a lungo, osservando Veronica. Non le andava di condividere quell’esperienza con un’illusionista atea.

— Ho…— cominciò a dire Mary. Poi deglutì e ricominciò da capo: — Hai costruito un’apparecchiatura davvero notevole, Veronica.

La ragazza sorrise da un orecchio all’altro. — Vero? — Quindi si rivolse a Ponter: — Sei pronto?

— Prontissimo — rispose lui.

Veronica offrì il casco a Ponter, e lì venne fuori il guaio. Il design era adatto a un cranio di Homo sapiens, con fronte alta, estensione laterale ridotta, senza protuberanze sopraciliari. Un cranio insomma, con meno cervello all’interno.

— Temo che sarà dura infilarlo — mugugnò Veronica.

— Fammi provare — disse Ponter. Afferrò l’oggetto e lo esaminò all’interno.

— Magari, se ti sforzassi di pensare in piccolo… — suggerì Hak dall’altoparlante esterno. Ponter fulminò con lo sguardo il Companion sul polso sinistro. Mary rise.

Alla fine, Ponter fece un tentativo, conficcandosi a forza il casco in testa. Stringeva da matti, ma era foderato, e alla fine la gommapiuma si compresse abbastanza da fare posto allo “chignon occipitale”.

Veronica lo squadrò come fanno gli ottici con chi prova una montatura nuova, poi aggiustò un po’ la posizione del casco. — Ottimo — concluse. — Come ho detto a Mary: non provocherà dolore ma, in caso di necessità, dimmi di fermare tutto.

Ponter annuì, con una smorfia. Il casco gli stava stritolando i muscoli del collo.

Veronica andò alla rastrelliera, manovrando un oscilloscopio. — C’è qualche forma di interferenza — disse.

Ponter ci pensò un attimo, poi disse: — Ah, l’impianto audio all’interno della coclea.

— Lo si può spegnere?

— Sì. — Ponter aprì la mascherina del Companion e toccò dei pulsanti.

Veronica annuì. — Bersaglio centrato: l’interferenza è sparita. — Rivolse alla cavia neanderthaliana un sorriso d’incoraggiamento. — Okay, Ponter, mettiti pure comodo.

Le due donne uscirono. Veronica ebbe qualche difficoltà a chiudere la pesante porta d’acciaio. Qualcuno vi aveva appiccicato l’etichetta IL GABINETTO DELLA DOTTORESSA CALIGARI. Compiuta l’operazione, la ragazza andò al PC e si mise a cliccare e digitare.

Mary era come ipnotizzata. — Allora? — chiese. — Sta succedendo qualcosa?

Veronica sollevò le spalle gracili. — Impossibile dirlo, se non lo fa lui. — Indicò un altoparlante sul computer. — Il microfono è acceso.

Mary osservò la porta d’acciaio. Una parte di lei desiderava che Ponter avesse la sua stessa esperienza. Con ogni probabilità l’avrebbe liquidata come un’illusione, ma se non altro avrebbe capito che cosa avevano provato tanti sapiens nei millenni della loro Storia.

Magari Ponter avrebbe interpretato la presenza come quella di un alieno. Buffo: loro due avevano parlato di infiniti argomenti, ma mai se lui credesse agli extraterrestri. Forse per i neanderthal l’idea era ridicola quanto quella di Dio, data l’assenza di prove inconfutabili (almeno, sulla Terra dei gliksin).

Ma la religione era ben altro che un gioco elettrico per neuroni scemi. Era un…

— Okay — disse Veronica — stacco la corrente. — Poi riaprì la porta metallica e disse: — Puoi uscire, adesso.

Per prima cosa, Ponter posò i palmi delle mani ai lati del casco e diede un robusto strattone. Il marchingegno venne via, e lui lo porse a Veronica; quindi si mise a strofinarsi le arcate sopraciliari come per riattivare la circolazione.

— Be’? — chiese Mary in tono impaziente.

Ponter si mise a trafficare su Hak, probabilmente per riaccendere l’altoparlante cocleare.

E allora? — sbottò Mary.

Ponter scosse la testa. Per un secondo, Mary sperò che servisse solo a sgranchirsi, ma lui disse: — Niente.

Quella semplice parola ebbe un enorme effetto depressivo su di lei.

— Niente? — ripeté Veronica, ma in tono eccitato. — Ne sei proprio sicuro?

Ponter annuì.

— Niente fenomeni visivi? Nessuna sensazione che nella stanza fosse presente qualcun altro? Nessuna impressione di essere osservato?

— Nulla di nulla. Solo io con i miei pensieri.

— A che cosa pensavi? — chiese Mary. Magari aveva avuto un’idea mistica e non se n’era accorto.

— A che cosa avremmo mangiato a pranzo — rispose Ponter. — E a quanto poco tempo manchi all’arrivo dell’inverno. — Notò la delusione sulla faccia di Mary. — Oh… e a te! Pensavo anche a te, naturalmente.

Lei forzò un sorriso e distolse lo sguardo. Un singolo test su un singolo neanderthal non dimostrava nulla, ma…

Ma i fatti erano quelli: lei, Homo sapiens, aveva avuto gli effetti speciali e i colori ultravivaci. È lui, Homo neanderthalensis, aveva sperimentato…

Un beato accidente, era proprio il caso di dirlo.

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