9

Dopo aver finito di lavorare nel laboratorio ed essere stata un po’ nella fattoria, Lilo spesso andava in esplorazione con Cathay, Cass e Jasmine, o talvolta con uno solo di loro. Dopo circa un mese, però, Jasmine cominciò a perdere interesse per quei viaggi. Con i suoi centocinquant’anni era la più vecchia del gruppo. Aveva avuto il figlio più di un secolo prima, aveva scoperto che in fondo i bambini non le interessavano, e su Poseidone non ne aveva più avuti.

La situazione fra i tre era diventata imbarazzante. Lilo si era trasferita da loro e per un po’ era andato tutto bene. Ma era diventato via via più chiaro che Jasmine era più attratta da Lilo che da Cathay. A Cathay dispiaceva ed era un po’ risentito nei confronti di Lilo. Jasmine parlava di sottoporsi a un cambiamento di sesso, il che disturbava ancora di più Cathay che era un maschio convinto, senza nessun interesse per gli altri uomini. A Lilo, invece, piacevano tutti e due. Lei aveva una personalità stabilmente femminile, anche se non quanto l’aveva stabilmente maschile Cathay, ed era stata maschio solo per tre dei suoi cinquantasette anni. Jasmine apparteneva alla maggioranza senza preferenze.

Passavano i mesi. Jasmine si fece cambiare di sesso da Mari. Per un po’ sembrò che potesse funzionare con tutti e tre insieme, ma alla fine Jasmine si allontanò dalle loro vite. Lilo e Cathay andavano d’accordo, tranne che in un campo.

«Sei pazza. Di qui ce ne andremo solo quando lo vorrà Tweed.»

«Non accadrà mai.» Non voleva discutere, ma non riusciva a non sentirsi irritata per come lui accettava la prigionia. Lo guardò e vide se stessa dieci anni dopo.

«Hai ragione,» annuì lui. «Non accadrà mai. A meno che tu non creda che sia possibile trovare un modo per sconfiggere gli Invasori…»

«E non lo credo, non per…»

«… nel qual caso verremmo considerati degli eroi in tutto il sistema solare. Altrimenti uno di questi giorni finirà il denaro e si stancherà del progetto.»

«E noi saremo eliminati.»

«Esatto. Non crederai certo che questa prospettiva mi piaccia. Ma che diavolo possiamo farci?»

«Possiamo dedicare tutte le nostre energie a cercar di fare qualcosa!»

«Bene, bene. Sono d’accordo. Cos’hai in mente?»

Lilo inghiottì la rabbia e si sforzò di ragionare con calma. Si arrivava sempre a questo: fammi una proposta concreta, dimmi il tuo piano. E tutte le volte che ne suggeriva uno, ancora approssimativo e molto ipotetico, qualcuno ci trovava un milione di difetti.

«Non ho niente di preciso,» ammise, di nuovo.

«Ah. Perché non ci pensi di più?»

«Ma non troverò mai un piano se qualcuno non mi aiuta! Non capisci che arrendersi è il modo più sicuro per restare per sempre qui? So che tutti i miei piani di fuga erano cattivi. Finora! Ma mi trovo sempre davanti a questo atteggiamento fatalistico. Anche con te! Questo continua a sorprendermi.» Si fermò, calmandosi. Non aveva avuto intenzione di urlare e adesso lui sembrava offeso. Lo abbracciò. Per un po’ non rispose, ma a poco a poco si ammorbidì.

Era bello stare con Cathay. Era un amante delicato, un uomo buono. Una persona di cui poteva fidarsi.

«Alcuni si stanno dando da fare per trovare il modo di fuggire,» disse lui. «Ma l’ultima che ho sentito, è che anche loro sono arrivati a un punto morto. Forse ti piacerebbe parlargli. C’era un piano per spostare questa maledetta luna. Ma è folle.»

«Chi sono? È tutto quello che desidero: parlare con qualcuno che vuole andarsene.»

«Lo stai facendo. Vogliamo andarcene tutti. Ma i soli che, per quanto ne so, stiano facendo qualcosa, sono Vejay e Niobe.»


Vejay si librava vicino al soffitto della propria stanza, appeso per un piede, e rovistava in una scatola piena di fogli. La stanza era zeppa, con tutte e sei le pareti coperte di mobili e scatole piene di carte.

«In realtà il principio è semplice,» spiegò. «È addirittura stato messo in pratica un paio di volte, nella cintura degli asteroidi. Ma non è economico.» Aveva trovato quello che cercava — un vecchio foglio di carta azzurra, ripiegato molte volte — e cominciò ad aprirlo in aria. Lilo gli si portò accanto. Appena gli fu vicina arricciò il naso. Vejay non era molto popolare; su un pianeta civile avrebbe avuto continui problemi con la legge perché si dimenticava di fare il bagno.

Spesso Vejay si dimenticava anche di mangiare, e non faceva mai esercizi. Non prendeva le pillole energetiche, tanto che era tutto pelle e ossa, con una muscolatura appena sufficiente per permettergli di muoversi in uno stato di assenza di peso. Mari aveva detto a Lilo che era abbastanza sano, purché non fosse mai sottoposto alla gravità. Vejay credeva nel lavoro in condizioni ottimali, e su Poseidone ciò voleva dire pesare trenta chili ed essere madidi di sudore.

Non avrebbe potuto esserci un contrasto maggiore fra Vejay e il terzo occupante della stanza. Niobe la Danzatrice era un esemplare fisico privo di difetti. Tutti i muscoli del suo corpo erano perfettamente disegnati e risaltavano in un alternarsi aggraziato di cavità e sporgenze sulle braccia, le gambe, la pancia e la schiena.

«È un buon propulsore spaziale,» stava dicendo Vejay. «Ma funziona soltanto con qualcosa di molto grande. Il solo buco peserebbe più di qualsiasi astronave io conosca. Il buco è dall’altra parte, esattamente all’opposto di dove siamo ora. Sei mai stata a vederlo?»

«No. Ne avevo l’intenzione, ma non credevo che fosse davvero importante. Però penso che adesso ci andrò.»

«Dovresti farlo. È piuttosto notevole, per essere sulla superficie di Poseidone. Se ne venisse messo uno sulla Luna e se qualcosa andasse storto, sprofonderebbe sotto la superficie e in breve comincerebbe a orbitare sottoterra. E dopo poco, niente più Luna.»

Lilo rabbrividì. A nessuno piacevano i buchi neri.

Sarebbe stato facile ignorarli, considerandoli una delle tante astrazioni scientifiche, se si fossero tenuti convenientemente lontani dalle faccende umane. Quando erano stati postulati per la prima volta, si era pensato che potessero essere formati solo da grandi stelle estinte. Una volta che i fuochi nucleari nel nucleo di una stella non fossero stati più in grado di sostenerne la massa, la gravità avrebbe preso il sopravvento; la stella avrebbe cominciato a ridursi. Alla fine avrebbe raggiunto dimensioni e velocità tali che la sua velocità di fuga sarebbe stata superiore a quella della luce.

Invece era stato scoperto che al momento della creazione dell’universo, durante il Grande Bang, c’erano state forze sufficientemente potenti da formare minuscoli buchi neri, alcuni più piccoli di un nucleo atomico. Di lì a poco quella teoria venne modificata. Se anche i buchi si fossero formati, sarebbero rapidamente svaniti e non avrebbero potuto mettere in difficoltà gli scienziati umani.

Questa teoria era stata ritenuta valida fino a poco dopo l’Invasione, quando nella zona delle comete, oltre l’orbita di Plutone erano stati scoperti minuscoli buchi neri quantistici. Questi misteriosi oggetti erano piccolissimi; il diametro del più grande misurava solo una frazione di millimetro. Ma la loro forza di gravità era enorme. Se si avvicinavano molto a una massa fisica, essa veniva distrutta e veniva liberata energia che poteva essere intercettata e trasmessa dalle stazioni orbitanti ai ricevitori a terra.

Duecento anni prima uno era uscito da un’orbita intorno a Plutone. Aveva scavato un foro largo dieci metri attraverso tutto il pianeta. La zona di distruzione era stata molto più ampia, per gli sconvolgimenti delle maree e dei terremoti provocati dalle rocce spinte dalla pressione a scorrere come burro fuso per riempire la galleria scavata dal buco nero.

«Come mai non succede lo stesso?» chiese Lilo.

«Potrebbe succedere,» rispose Vejay. «Ma non è un buco grosso, e Poseidone è una roccia piccola. Penetrerebbe lentamente, e con tutte le irregolarità saremmo in grado di catturarlo dall’altra parte. Guarda come funziona.»

Lilo studiò il diagramma mentre Vejay glielo spiegava. Le era sembrato uno spreco utilizzare il buco nero come generatore, e la sua opinione fu confermata dalle cifre. Il buco era in grado di produrre energia bastante ad alimentare una città; Poseidone poteva utilizzarne appena una piccola frazione, anche dopo che buona parte ne veniva liberata nel vuoto per permettere al buco di vincere la forza di gravità.

«Adesso è lì,» disse Vejay. «Sotto di sé ha un campo nullo a forma di tazza, come quello.» Indicò un emisfero sospeso sopra la superficie di Poseidone, con la parte cava rivolta verso l’alto. «Il campo protegge le apparecchiature sottostanti dal surriscaldamento e la roccia dalla fusione. Consente anche di avvicinarsi sotto per la manutenzione dei sostegni.» Indicò tre grandi cupole sul terreno.

«Il buco ha una carica elettrica ed è sorretto da quegli elettromagneti, grandi, superraffreddati.»

«E questo come ci servirebbe per fuggire?»

Vejay piegò la testa e studiò il disegno come se lo vedesse per la prima volta. Alzò gli occhi, sorpreso.

«La forma dell’emisfero del campo nullo non ti fa venire in mente niente? Non è la più efficiente — potremmo dargli quella che vorremmo una volta acquistato il controllo della situazione — ma potrebbe funzionare anche così.»

Lilo guardò di nuovo. Naturalmente, perché non l’aveva visto?

«L’effusore di un razzo.»

«Ci sei. Il buco nero è dentro quella tazza puntata verso l’alto rispetto alla superficie di Poseidone. Se ci gettiamo qualcosa, qualsiasi cosa, ma non troppo grande, la gravità del buco la comprime. E la comprime così violentemente da provocare tutte le reazioni nucleari che ti vengano in mente. Molta materia viene distrutta, e ciò vuol dire energia a cui attingere per le nostre necessità.

«Anche al tasso col quale immettiamo la materia adesso si ha una piccola spinta, poiché la tazza è aperta verso l’alto. È così piccola che è quasi impossibile misurarla, considerando che sia la massa di Poseidone sia quella del buco fanno resistenza all’accelerazione. Perciò quello che dobbiamo fare è gettare sassi nel buco, proprio come stiamo facendo. Solo che anziché servirci di granelli di polvere e misurarli con il contagocce, avremo bisogno di un nastro trasportatore. Ci vorrà una fornitura costante di combustibile.»

«Così abbiamo risolto il secondo problema. Adesso basta risolvere il primo.»

Lilo aggrottò le sopracciglia. «Forse sono un po’ lenta.»

Niobe rise. «Non ti preoccupare. Anch’io mi sentivo già in viaggio dopo aver visto questo. Vejay, tu corri troppo. È appena arrivata.»

«Scusa,» disse. «Allora, il secondo problema è dove andare una volta eliminate le Vaffa. Ognuno degli Otto Mondi ci giustizierebbe come cloni illegali. Con questo possiamo andare dovunque. Io propongo di andare molto lontano.»

«Stai parlando di un viaggio interstellare?»

«E di cosa, sennò? Questo propulsore ci farebbe raggiungere una velocità prossima a quella della luce. Probabilmente non potremmo spingerlo a più di un ventesimo di gi, ma ci arriveremmo. Per Alpha Centauri ci vorrebbero forse venti anni.»

«Ma la massa… ah, credo di capire!»

«Ci basterebbe. Useremmo la massa di Poseidone, naturalmente, come facciamo adesso.»

Lilo ci pensò su. Era maledettamente frustrante. Bisognava costruire e utilizzare le attrezzature pesanti utilizzate per scavare le gallerie. Una miriade di particolari. Un viaggio spaziale non si poteva progettare e metter su in una notte.

«Quanto pensi che ci vorrebbe per essere pronti?»

Scrollò le spalle. «Lavorando sodo, senza complicazioni impreviste, potrei farcela in due settimane.»

E le Vaffa ispezionavano il posto tutti i giorni. Si tornava sempre alle Vaffa.


Cominciai a dormire male. L’incontro con Vejay e Niobe aveva rafforzato le mie speranze, rinvigorito il mio desiderio di fare qualcosa per evadere. Ero lontana dalla juga come prima, ma non mi sembrava di. esserlo. Avevamo risolto la parte più facile dell’equazione per raggiungere la libertà. Avevamo sempre davanti tutti i problemi. Sei, forse dieci, e si chiamavano tutti Vaffa.

Una Vaffa poteva essere uccisa. Era difficile, però; in tutti quegli anni era successo due volte, ad opera di disperati. Avevo sentito raccontare le due storie almeno cento volte. Si poteva tendere loro un agguato e sopraffarle all’interno. Fuori erano invulnerabili come le loro tute. Si poteva seppellirle sotto una tonnellata di rocce; ma i campi delle tute le avrebbero protette e sarebbero sopravvissute finché fosse durata l’aria, un tempo più che sufficiente per i soccorsi.

Seppellirle tutte insieme? Si poteva far saltare tutto, ma con cosa sarebbero rimasti?


«Cosa sono?»

«Bambini di zucchero. Scherzi? Come fai a non sapere cosa sono i bambini di zucchero?»

Ma Lilo non lo sapeva. Erano in un grande vaso di vetro dal collo stretto. L’avevano scoperto nel nascondiglio di Cass. Apparentemente lui se ne era stancato, ma a quanto pareva se l’erano cavata bene.

Il fondo del vaso era coperto di terra nera, con cinque olmi nani, tre abeti Douglas e molto muschio. C’era una grotta formata da sassolini ammucchiati uno sull’altro, e all’entrata della grotta tre figure bipedi, alte un millimetro. Avevano il corpo bianco e la parte superiore delle loro piccole teste era nera. Sembravano minuscoli esseri umani.

«Sembra che abbiano una faccia,» osservò lei, chinandosi a guardare più da vicino.

«Non scherzare. Non le hai davvero mai viste?»

«Mai.» Eppure mentre lo diceva, aveva la strana sensazione che non fosse vero. Scosse la testa, ma la sensazione restò.

«Be’, hanno una faccia. Ma guarda meglio.»

In un lato del vaso era incassata una lente d’ingrandimento. Lilo vi guardò attraverso e l’illusione svanì. Quelli che erano sembrati capelli erano semplicemente la colorazione dell’esoscheletro che nascondeva occhi sfaccettati. Le facce erano tre punti e una linea. Le cose erano divise in segmenti alle giunture e alla vita, come marionette, o come…

«Formiche. Sono formiche.»

«All’inizio lo erano,» confermò Cass. «Poi le hanno cambiate. Guarda la quinta e la sesta zampa, alla vita. Sono davvero piccole.»

Lilo si sentiva male, ma non riusciva a distogliere lo sguardo da quelle creature. Dalla piccola grotta ne uscirono altre. Camminavano freneticamente sulle zampe posteriori, agitando le braccia snodate.

«È disgustoso,» disse Lilo. Stava per vomitare.

Cass fece una smorfia. «Sì, capisco cosa vuoi dire. Me le hanno date quando ero più piccolo e ora non so che farmene. Non posso semplicemente ucciderle; non mi sembrerebbe giusto.»

«Tweed vi lascia…»

«Ogni tanto possiamo ordinare qualcosa.»

«Queste arrivarono qualche anno fa dalla Luna. Le avevano tutti i ragazzi. Vorrei aver chiesto uova di gatto, invece.»

Adesso Lilo si sentiva confusa. Provava un senso di disorientamento, una crescente impressione di déjà vu. Si sforzò di ricordare, ma inutilmente. Però dentro di lei si era messo in moto qualcosa che non si sarebbe arrestato.

«Non possono vivere fuori dal vaso,» stava dicendo Cass. «Terra speciale, o qualcosa del genere; se li liberano possono diventare un flagello. Non credo che vivrebbero a lungo… ehi, stai bene?»

«Stai un momento zitto, per favore. Non dire nulla.» Continuò a fissare i minuscoli prigionieri. Era solo perché erano imprigionati? Non credeva che l’avrebbero turbata fino a quel punto. Non le era mai piaciuto vedere esseri in gabbia; proprio per questo aveva sempre evitato di lavorare con cavie vive. Ma anche così una reazione del genere non si giustificava.

Andò indietro nel tempo, di molti anni. Sapeva di aver già guardato una bottiglia come quella, di aver visto una colonia di bambini di zucchero. Una volta… no, due. Era sicura che le era successo tre volte. Di stare così, a guardare…

La testa cominciò a riempirlesi di numeri. Li vedeva come se fossero stati oggetti solidi, con dimensioni e massa. Cominciò a ricordare.

«Ho aiutato a farle,» disse piano.

«Cosa?»

«Facevo parte dell’equipe di ricerca che mise a punto questa razza di formiche. È successo venticinque anni fa. Lavoravo per i Laboratori Biologici di Copernico. C’ero io, Theresa, Zaire e… e Yaokaha. Sul brevetto c’è anche il mio nome. Per un anno furono un grosso successo, si vendevano molto bene, e…» Si interruppe come se di colpo le fosse mancato il fiato. Cass aspettava in silenzio lì accanto, con aria preoccupata.

«Era un grosso problema,» riprese lei come se stesse leggendo su un libro. «La base degli Anelli sarebbe finita male se avessi potuto dire a qualcuno dov’era, in caso d’interrogatorio. E tuttavia non potevo semplicemente abbandonarla lì. Dovevo poterla ritrovare se, non fossi stata arrestata. Dovevo sapere e non sapere.»

«Di che cosa stai parlando?» chiese Cass. «Lilo, stai…»

«Suggestione ipnotica profonda,» disse, come se non l’avesse sentito. «Non sapevo cosa mi avrebbero fatto in prigione. Dovevo seppellirlo così profondamente da morire senza ricordarlo, senza addirittura sapere che lo sapevo. Non potevo fidarmi di. nessuno per attivare il meccanismo di richiamo, e tuttavia dovevo essere in grado di ricordare se non fossi stata arrestata. Così collegai lo stimolo di richiamo a qualcosa in cui mi sarei imbattuta più o meno a caso. Ma non troppo spesso. Non poteva succedermi tutti i giorni, e neppure ogni settimana. È capitato tre volte in cinque anni. E ogni volta ho sepolto di nuovo il ricordo.»

«I bambini di zucchero ti hanno ricordato qualcosa?»

Guardò quelle creature. La scelta era stata giusta. Pietose cosine. Avevano cercato di uscire dalla bottiglia? Non poteva sapere che sarebbe sopravvissuta alla propria esecuzione, ed era stata pura fortuna incontrare i bambini di zucchero su Poseidone. Ma adesso sapeva.

«Lo so. So dov’è.»

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