5

Considerate l’andamento della mia vita.

Avevo vissuto per cinquantasette anni in modo abbastanza normale. Ogni tanto, come tutti, mi facevo registrare i ricordi. Poi mi arrestarono.

La registrazione che possedevo venne sequestrata e trattenuta in attesa della sentenza del processo. Quando fui condannata, fu distrutta insieme ai campioni di tessuto con i quali si sarebbe potuto costruire un corpo clonato se fossi morta.

Mari doveva avere effettuato un’altra mia registrazione quando l’esecuzione venne rinviata. Probabilmente ero stata drogata; non sarebbe stato difficile.

Avevo incontrato il clone che Tweed aveva fatto crescere e che era poi andato nel Foro al posto mio. (Al posto di chi? In fondo lei era me quanto lo ero io. Era una situazione intricata.)

Quella persona — il me originale; anche se è difficile da accettare, visto che ora vivo in un corpo clonato — era riuscita a sopravvivere solo poche settimane dopo la registrazione successiva, eseguita nel bosco della residenza di Tweed. Ritorno al punto di partenza, al primo stadio di un processo ripetitivo in modo deprimente. Venne risvegliato un nuovo me, al quale mancavano le settimane dalla registrazione alla morte del me originale. Questo secondo clone iniziò a fare ciò che doveva fare l’originale. Per due o tre mesi stette attento a come si comportava, tentò di fuggire, venne preso e ucciso. Il numero quattro — io, io maledizione — si sveglia nel bosco e vede Mari chinata su di lei, sorridente. Ma questa volta anche Mari è un clone. Il numero tre l’aveva uccisa durante il tentativo di fuga.

Considerate la situazione in quattro dimensioni. Pensate al lungo verme con braccia e gambe di cui ci si serve a scuola per spiegare il concetto. Immaginate che un’estremità del verme sia un neonato che esce dalla vagina materna o da un placentario, a seconda di quello che preferisce la madre. All’altra estremità c’è la morte. Fate un segno sul verme ogni volta che vengono registrati i ricordi della persona. Ogni segno rappresenta una possibile ramificazione.

Otto o nove mesi fa, al momento del rinvio dell’esecuzione, la mia sezione in quattro dimensioni si era divisa in quattro rami. (O forse cinque, o sei? Mentre ero in prigione Tweed aveva sviluppato diversi miei cloni, poiché ogni volta che morivo, il giorno dopo riusciva a farmi rivivere in un corpo nuovo. Doveva avere anche dei cloni di Mari, altrimenti non avrebbe potuto essere lì il giorno dopo essere stata uccisa dal numero tre.) Ciascun clone era partito con gli stessi ricordi, ed essi finivano il giorno in cui Mari mi aveva registrato. Tre di quei rami non c’erano più, erano morti. Stavo percorrendo, secondo per secondo, il quarto ramo.

Cinque anni prima, allorché avevo effettuato una mia registrazione nella capsula in orbita intorno a Saturno, avevo reso possibile un’altra ramificazione. Non avevo modo di sapere se fosse stata prodotta un’altra Lilo, ma poteva darsi di sì. Speravo di non incontrarla mai. Mi ero incontrata una volta e avevo scoperto una mia caratteristica che avrei preferito non conoscere.

Ma poiché la conoscevo, poiché avevo visto cos’ero disposta a fare per rimanere in vita, intendevo vivere.

Intendevo vivere per sempre.


A Lilo ci vollero tre mesi per completare il corso di sopravvivenza. Capì che il suo corso era più breve del normale.

Non si lamentò mai, ma le sembrò che fosse tutto una grande sciocchezza, e per giunta molto scomoda. A meno che Tweed non intendesse veramente stabilire una testa di ponte sulla Vecchia Terra, le sembrava inutile.

Andò ugualmente fino in fondo, dall’Amazzonia all’Egitto. Trascorse una settimana in ognuna delle disneyland principali. Il Partito per una Terra Libera spendeva un mucchio di soldi per poter andare nelle zone selvagge dei parchi ambientali. In cambio avevano il piacere di disidratarsi sotto i soli del deserto e di gelare in Siberia.

Lilo era in una classe di venti persone. Tutti gli altri erano iniziati al culto del partito, tranne Vaffa, che accompagnava Lilo e faceva sembrare tutto facile. Conobbe i Terrestri Liberi. Sospettò che molti non fossero fanatici quanto Tweed a proposito dell’effettiva liberazione della Terra. Una buona parte erano lì per fare esperienze interessanti.

Arrivò ad avere un grande rispetto per l’immagine che Tweed si era fatto di lei. Ogni volta che le permetteva di entrare in contatto con qualcuno non appartenente al ristretto circolo direttivo dei Terrestri Liberi, si esponeva a un grosso rischio. Tweed non poteva essere sicuro che tutti i suoi compagni di classe fossero sufficientemente votati alla causa da non denunciarla al governo. Se qualcuno l’avesse fatto, se lo Stato avesse scoperto che Tweed l’aveva tirata fuori dall’Istituto, lui poteva già considerarsi dentro il riciclatore.

Il trucco stava nel fatto che Lilo si sarebbe condannata a morte insieme a lui. Sapeva che non l’avrebbe fatto.

In realtà, anche se non l’avrebbe mai ammesso, vivere in quegli ambienti selvaggi cominciò a piacerle. Avanzare a fatica in mezzo a una tempesta di neve non era divertente, ma ammucchiarsi dentro un igloo insieme a cinque altre persone sotto la pelle di un orso polare, sì. C’erano molti momenti piacevoli.

C’era anche la solitudine. Era molto più difficile da sopportare dei disagi fisici. Durante l’anno trascorso all’Istituto aveva imparato a vivere da sola. Adesso aveva di nuovo bisogno di amici, di trovare un amante. Ma nella classe di sopravvivenza non poteva diventare amica di nessuno. Era impensabile amare qualcuno senza potere aprirsi, dire tutto, e lei non poteva farlo. C’erano segreti che doveva conservare. Nella residenza di Tweed la gente era anche peggio. Conoscevano tutti i suoi segreti, ma sapevano che non era una di loro. Veniva trattata civilmente, ma non si sarebbero mai fidati di lei. Cominciava a sentirsi vicina solo a Mari. Lilo sapeva che Mari le voleva bene, ma quello era l’affetto generale e acritico che faceva parte della sua personalità. Mari pensava che fosse sbagliato fare esperimenti sul DNA umano, e Lilo pensava che il sogno dei Terrestri Liberi fosse folle. Non c’erano molte cose di cui potessero parlare.

Quindi era sola. Sotto certi punti di vista, era peggio della reclusione in carcere. Cominciò a isolarsi le notti trascorse vicino al fuoco, mentre tutti si riunivano per cantare, raccontare storie e cop. Si disse che era perché il sesso nella natura non le piaceva. «Cop sulla spiaggia,» aveva detto a Mari, «e passerai il giorno dopo a ripulirti dalla sabbia.» Cercava un partner solo quando il desiderio diventava insopportabile, ma i suoi amanti più fidati erano diventati sempre di più le dita della mano destra.

Si sentiva sola, la sua vita sessuale era pessima e cominciava ad aver paura di essere ricatturata. Sarebbe stato terribile dover affrontare l’esecuzione, dopo tutto quello che aveva passato e dopo tutte le cose vergognose che aveva fatto. Se fosse morta adesso, in un certo senso tutte le morti precedenti sarebbero state inutili.


Era dal giorno del risveglio che Lilo non vedeva Tweed. Immaginava che allora fosse stato presente perché le sue reazioni fossero quelle della volta precedente. Voleva che la lezione che le stava insegnando fosse collegata alla sua persona. Era una buona tecnica psicologica, e funzionò. Si accorse di temerlo.

Da quel giorno sembrò non avere più alcun interesse nei suoi confronti. Cercò di parlargli, ma venne mandata via dai suoi aiutanti. Il capo era sempre troppo indaffarato.

Il fatto di sentirsi così importante agli occhi di Tweed, le era stranamente stato di conforto. Ma a poco a poco dovette cambiare idea. Allorché si rese conto che stava seguendo la routine di tutti gli agenti clandestini — il che implicava che come lei ce n’erano altri, centinaia d’altri — si demoralizzò. Forse Tweed non la considerava più importante di Mari, che offriva servigi facilmente acquistabili a qualsiasi mercato del lavoro della Luna.

Quanto più esaminava la situazione, tanto più diventava chiaro che faceva parte di un meccanismo esistente già molto prima che si presentasse la necessità di farla fuggire. Il controllo che i Terrestri Liberi esercitavano sull’Istituto era tale che Mari aveva potuto far crescere un clone completamente sviluppato — un lavoro di sei mesi — all’interno dell’edificio senza la paura che fossero scoperti. In considerazione di questo, Lilo cominciò a chiedersi se la sua corsa nel vuoto fosse stata davvero necessaria. Era forse stata una specie di prova? Evidentemente ai Terrestri Liberi gli esami piacevano: il suo addestramento, se aveva un qualche scopo, era consistito in una serie infinita di esami, nel confrontarli con ambienti che non avrebbe mai visto, poiché erano tutti ambienti terrestri.

Di certo Tweed manifestava un interesse specifico non per Lilo, ma per le persone come lei. Se si giudicava obiettivamente, trovava solo tre cose che la distinguevano da tutti gli altri. Era una scienziata, ma Tweed poteva ovviamente assumere tutti gli scienziati di cui avesse bisogno. Era una criminale condannata, ma non riusciva neppure a immaginare come ciò potesse rappresentare una qualità. Quindi doveva trattarsi della natura delle sue ricerche, del lavoro che aveva causato il suo arresto.

Nessuno avrebbe potuto stupirsi più di Lilo quando si era accorta di avvicinarsi, lentamente ma decisamente, a campi di ricerca proibiti. Mentre era in prigione aveva avuto il tempo di rifletterci sopra, e adesso, durante l’addestramento, aveva avuto di nuovo l’occasione di ripercorrere i passi che l’avevano resa Nemica dell’Umanità. Era ancora stupita.

Lilo aveva voluto diventare medico. A quanto ricordava, era stata sempre abile con le mani, e da ragazza il suo giocattolo preferito era stato il piccolo chirurgo. Eseguiva operazioni su se stessa e sugli amici, tenendosi sempre aggiornata sulle ultime novità.

Ma sua madre e i suoi insegnanti sapevano che era in grado di fare cose migliori e la indirizzarono a una professione più qualificata. Non si oppose; le piaceva leggere — era piaciuto a tutti i suoi antenati, fin dal tempo precedente l’Invasione — e divorava tutti i libri su cui riusciva a mettere le mani. Gli insegnanti conoscevano il loro mestiere; alla fine le sembrò di avere sempre voluto diventare un ingegnere genetico.

Era brava a fare quello che faceva. Tutte le grandi compagnie richiedevano le sue prestazioni, e aveva lavorato per diverse di loro prima di mettersi in proprio. La sua specialità era il cibo, un campo che era stato a lungo trascurato e che ora riscuoteva un rinnovato interesse.

Mentre la maggior parte dei suoi colleghi si concentravano su cibi idroponici alla moda — miscugli esotici di sapori che ottenevano un grande successo per qualche mese ma venivano rapidamente dimenticati — Lilo considerò i prodotti fondamentali da un nuovo punto di vista. Migliorava, piuttosto che inventare, e ciò si rivelò vantaggioso. Le grandi imprese sapevano che con un adeguato investimento pubblicitario potevano creare una domanda transitoria quasi per qualsiasi cosa. A lungo andare, comunque, era dai brevetti genetici su migliori alberi di bue e su migliori piante da uova che guadagnavano.

Lilo si concentrò sugli alberi di maiale. Riuscì a migliorare il rendimento e la dolcezza della carne bianca interna, facendo contemporaneamente abbassare il rapporto fra carne grassa e carne magra nella pancetta. Questo le fruttò abbastanza denaro per migliorare il proprio laboratorio: le si aprirono nuovi orizzonti.

Il lavoro sugli alberi di maiale le aveva permesso di rendersi conto che molti organismi fondamentali erano stati a lungo trascurati per la loro incapacità di competere con le colture artificiali ormai considerate basilari. C’era stato un tempo in cui gli alimenti principali della razza umana erano il grano, la soia, le patate, il granturco, il riso. Adesso non c’era nessuno che avesse visto quelle cose.

Però esistevano nella Banca della Vita, dove c’erano praticamente tutti gli animali e le piante della Vecchia Terra. I cibi che aveva mangiato per tutta la vita, constatò, erano tutte piante create artificialmente, almeno quattrocento anni prima. Le sembrava che nella genetica vegetale l’era delle scoperte fosse ormai remota e che non fosse stata inventata nessuna coltura fondamentale nuova da quando la civiltà umana si era stabilita negli Otto Mondi. Non stette a chiedersi a cosa fosse dovuto; si mise a inventare una coltura nuova.

Il risultato fu l’albero bananacarne, un successo immediato e duraturo. Come indicava il suo nome, derivava dal frutto tropicale, ma il suo sapore si distingueva da ogni altro. Era qualcosa di diverso, e i tentativi di dire che sapeva di pollo o di selvaggina erano sempre inadeguati.

Lilo non lo diceva, ma la carne che aveva il sapore più simile al bananacarne era quella umana. La sua prima azione criticabile, compiuta innocentemente e per spirito di ricerca, era stata di includere una coltura di tessuti presi dal suo corpo nei campioni che stava analizzando; la sua prima azione illegale era stata di introdurre dei mutamenti nella coltura e trapiantare parti di DNA nei geni della banana.

Il bananacarne la rese ricca. Non in modo fantastico, ma tanto da darle il tempo e i mezzi perché fosse tentata di tornare al suo primo amore: il corpo umano.

Ricordava i giorni felici trascorsi gingillandosi con la struttura esterna del proprio corpo e di quello di altri. Sebbene continuasse a considerarla una fase della propria crescita — e ormai disprezzava la maggior parte delle variazioni cosmetiche del corpo — continuava a esserne affascinata.

Pensava agli eventi genetici incredibilmente casuali che avevano plasmato e plasmavano la vita sua e di tutti gli esseri umani. Le piaceva leggere; a molti altri non piaceva. La spiegazione sociale prevalente dell’analfabetismo era che alcune persone, per carattere, non erano adatte a leggere (e in realtà, in un mondo computerizzato e saturato dagli schermi, c’erano poche professioni per le quali fosse necessario saperlo fare). Lilo accettava il fatto, ma aveva sempre avuto la sensazione che la maggior parte della gente non imparasse a leggere semplicemente perché non era abbastanza intelligente.

Ciò non la faceva sentire superiore. Anzi, era un caso, e quindi la disturbava. La sua intelligenza non era opera sua, ma era stata predeterminata allorché due gameti erano finiti l’uno addosso all’altro in un placentario.

Irritata per dover subire le restrizioni delle leggi genetiche, si dedicò a studiarne le origini; rimase esterrefatta nello scoprire che la messa al bando per cinquecento anni degli esperimenti sugli esseri umani doveva essere solo una moratoria. Per allora era stata una decisione ragionevole, con la razza umana in una situazione fluttuale, davanti a un futuro incerto. Ma quando era il momento di smettere? La situazione attuale dell’umanità esauriva tutte le permutazioni che potevano essere effettuate sul limitato patrimonio genetico dei sopravvissuti all’Invasione. Le malattie e i difetti genetici erano già stati tutti eliminati, prima della messa al bando della ricerca. La razza umana era sufficientemente sana. Ma stava progredendo?

La sua sorpresa aumentò quando venne a conoscenza degli aspetti riproduttivi della genetica. Lilo non era una genetista o un’allevatrice, nello stesso senso in cui chi costruisce una macchina può sapere poco della metallurgia che ne ha fabbricato le parti. Lilo si rendeva solo vagamente conto dell’esistenza delle leggi dell’ereditarietà. Il suo lavoro era quello di prendere qualcosa che esisteva già e di piegarlo al proprio volere manipolandolo direttamente con le tecniche apprese tramite la Linea Calda Ophiucus. Adesso era immersa nel mondo dei caratteri recessivi e degli incroci. Cominciò a domandarsi se fosse possibile che gli esseri umani si stessero trasformando in idioti, in mancanza di un punto di riferimento che indicasse il cambiamento.

Tentò di stimolare l’interesse degli altri ingegneri genetici, ma non ci riuscì. Non c’era nessun gruppo politico disposto ad appoggiarla nel tentativo di far abrogare le leggi genetiche. Se nella società umana un tabù aveva sostituito quello del sesso, era la genetica umana. Nessuno voleva esaminare il problema semplicemente perché nessuno lo considerava tale. Lo accettavano come un dato di fatto della vita, nell’ordine naturale delle cose: il DNA umano era inviolabile.

Per un anno Lilo pensò alle alternative che aveva di fronte.

Poteva lasciar perdere tutto. Era una possibilità concreta, e anche adesso non sapeva bene perché avesse continuato. C’erano giorni in cui sentiva l’inerzia della società come una vera e propria droga dentro le vene, che la calmava e le diceva di lasciare le cose come stavano. Se andava bene a tua nonna, perché non va bene a te?

Oppure avrebbe potuto indagare, con cautela. Alla fine fece così. Ma non con sufficiente cautela.

La sua guida fu la Linea Calda Ophiucus. Del gran volume di trasmissioni in codice che giungevano lungo la Linea, almeno il novantacinque per cento rimaneva indecifrato. Ma sembrava che si fosse scoperto quale parte di esse — forse la maggiore — avesse in qualche modo a che fare con il DNA umano. Fece esaminare da un computer parte dei dati di dominio pubblico. Si trattava di un lavoro alla cieca; non aveva un’idea precisa di che cosa stesse cercando. Il campo era così inesplorato che dovette risalire a materiale precedente l’Invasione per trovare qualche opera significativa sull’argomento. Sapeva che un tale lavoro avrebbe richiesto centinaia di ricercatori, scienziati come quelli che esistevano al tempo della ricerca di base e che sospettava ormai introvabili. Era giunta alla conclusione di non possedere un’educazione da scienziata; era un ingegnere, o piuttosto un meccanico.

Le indicazioni erano buone. Non si preoccupò di chiedersi come facessero gli Ophiuciti a sapere tante cose sulla genetica umana; sembrava che conoscessero quasi tutto, ed erano secoli che la razza umana si basava su quel flusso di informazioni. Mise a punto un laboratorio su Janus e cominciò il primo esperimento di arresto sulle proprie cellule ovulari. Non aveva intenzione di produrre esseri umani vivi. Introduceva variazioni e sviluppava il risultato fino a uno stadio fatale, poi si serviva di ciò che aveva appreso per il passo successivo.

Non sapeva nemmeno perché la stesse facendo, quella ricerca. Nei momenti peggiori sospettava di stare semplicemente realizzando i desideri di una bambina a cui piaceva giocare al dottore.

Ma altre volte era confortata da una visione. Non sapeva da dove venisse, ma le sembrava che non facesse davvero parte di sé, che non fosse un prodotto della propria mente. Era una visione indefinita e irresistibile: una razza umana sparsa fra le stelle, diversa, trasformata.

La visione era accompagnata da un’immagine vivida. La vedeva tutte le notti quando si addormentava. Correva fra l’erba alta e gli alberi sotto un sole blu. Era un bel blu, che penetrava dentro la sua pelle e dentro i fiori ondeggianti a una brezza delicata. C’era qualcuno che correva insieme a lei.


Lilo abitava a Terra Natale, la disneyland tascabile di Tweed, e dormiva in una capanna di paglia che era stata costretta a costruirsi da sola.

La prima persona che veniva a trovarla tutte le mattine era Mari. Lilo non sapeva uscire da Terra Natale senza qualcuno che l’accompagnasse. Aveva tentato di farlo più volte, ma non era riuscita a trovare il ruscello d’accesso. Un trucco delle olografie rendeva il passaggio a senso unico. Così ogni mattina Mari veniva a bendarla e le faceva strada attraverso l’acqua.

Ma questa volta le due arrivarono all’argine del ruscello e Mari non prese la fascia di cotone.

«Questa settimana tocca all’Himalaya, vero?» fece Lilo.

«No,» rispose Mari. «Parti oggi.»

«Oggi?» Ma era logico. Se avesse saputo quando sarebbe partita, avrebbe fissato una scadenza per il suo piano di fuga.

«Sì. Prendimi la mano e stringila contro lo stomaco. Non è una cosa molto piacevole finché non ci si abitua.» Portò Lilo a un albero della riva opposta. Lilo era sicura di averlo già esaminato. Cominciarono a girare intorno all’albero…

Tutto sembrò piegarsi sotto di lei e Lilo ebbe un attacco di vertigini. Si fermò. La scena era deformata, come se la stesse guardando attraverso una bottiglia. Mari la tirò.

«Sali,» disse. «Tre gradini. Non cadrai.» Lilo deglutì e fece tre passi nell’aria. Sentiva che c’era del cemento sotto. Stava salendo, ma aveva la sensazione di scendere lungo un pendio verticale. «Gira a sinistra, poi di nuovo a sinistra. Chiudi gli occhi, sarà più facile.» Ma Lilo li tenne aperti. Aveva visto olografie ingannevoli come quelle nei luna-park, ma nessuna era così perfetta. Emersero nel corridoio pieno d’acqua.

«Mi puoi dire dove sto andando?» chiese Lilo. «Così saprò cosa mettere in valigia.»

Mari rise. «No. Sinceramente non lo so.»

Si fermarono al laboratorio di Mari. Un’ora dopo Lilo ne uscì senza il polmone sinistro. Al suo posto c’era un generatore a tuta-nulla, una cosa che non aveva mai usato prima. Con ogni probabilità doveva andare su Mercurio o su Venere, poiché quelli erano i soli posti dove le tute-nulle fossero necessarie. Toccò con curiosità il piccolo fiore metallico che aveva sotto la clavicola — era la valvola di uscita e l’unità di controllo della tuta — mentre Mari le spiegava come farla funzionare. Aveva il collo leggermente indolenzito nel punto in cui Mari aveva installato la radio biauricolare e il microfono uniti alla tuta.

Quando le venne presentato Iphis, Lilo fu sicura di star per abbandonare la Luna. Si trattava certamente di uno spaziale, poiché non aveva gambe. Era chiaramente in una licenza troppo breve per giustificare la spesa di un trapianto di gambe. Era seduto su un cesto imbottito sopra un camminatore a forma di ragno.

Vaffa, come sua abitudine, comparve accanto al gomito di Lilo.

«Dov’è Tweed?» domandò Lilo.

«Ha detto di dirti che non può venire,» rispose Mari. «Vaffa ti accompagnerà. Avevo chiesto di venire anch’io, ma il Capo ha bisogno di me perché c’è un altro prigioniero che… oh, non dovrei dirti queste cose. Ma non importa.» Baciò Lilo. «Odio gli addii,» disse, senza guardarla. «Stai attenta. Forse ci incontreremo di nuovo.»

«Lo spero anch’io.»

Lilo non vide la nave. Seguì Iphis e Vaffa lungo un tubo pieghevole fino alle cabine. Erano molto piccole. Iphis si sollevò dal camminatore sul suo sedile e Vaffa mise il dispositivo fuori dalla porta.

«Sedetevi,» disse Iphis. «Decolliamo fra due minuti.»

Lilo tentò di nuovo. «Dove andiamo?»

«Su Titano.»


Avevano preparato una manovra di avvicinamento a Giove. A Lilo non piaceva ma non disse niente. Non aveva comprato il biglietto e non poteva lamentarsi del servizio.

Ma qualche giorno prima di entrare in orbita, Vaffa le fece una sorpresa.

«Non stiamo proprio andando su Titano. Io ci andrò, alla fine, ma tu no.»

«Io dove vado?»

«In un piccolo posto chiamato Poseidone.»

«Dove diavolo è?»

Vaffa e Iphis si scambiarono un’occhiata. Lilo ebbe la sgradevole sensazione che quel nome avrebbe dovuto dirle qualcosa.

«Prova con J-VIII. J lineetta vu i i i. Numeri romani,»

«Una delle lune retrograde di Giove,» spiegò Iphis. «Una roccia di una ventina di chilometri di diametro, a venti milioni di chilometri di distanza.»

«Ma è…»

«Illegale?» Vaffa rise, e Iphis la imitò. «Dillo agli Invasori.»

«Invasori?» borbottò Lilo.

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