Come potrei descrivere i dieci anni trascorsi su quella che un tempo era la costa orientale degli Stati Uniti d’America? Cosa mi rendesse così sicura di essere sul continente americano fu per me a lungo fonte di notevole stupore. Dopo la morte di Makel vagai per diversi giorni in stato confusionale. Credo che mi ci sia voluto quasi un, mese prima di avere il coraggio di pormi le domande che mi avrebbero poi tormentato per dieci anni. Possono essere riassunte dalla frase: cos’era successo?
Un momento stavo cadendo attraverso l’atmosfera di Giove e un momento dopo ero fra le onde dell’Atlantico. E sapevo che era l’Atlantico.
Ma non era esatto. Un evento non aveva fatto seguito all’altro, si erano piuttosto fusi insieme. Ricordo con certezza che ero seduta fra le piante, tremante, prima di essere nell’acqua. Ricordo anche di essere uscita dall’acqua prima di ricordare di esserci entrata.
Tutta l’esperienza aveva un carattere così soggettivo che dubitai fin da principio di riuscire a trovare delle spiegazioni soddisfacenti. Ciò però non mi impedì di pensare. Le conclusioni a cui giunsi furono così vaghe da risultare probabilmente prive di valore. Tuttavia mi soddisfacevano, allo stesso modo che non avevo dubbi su dove fossi.
Ero caduta dentro un Invasore, o dentro un Gioviano. Per motivi suoi, l’Invasore mi aveva spostato da un’altra parte. Forse nei confusi secondi, minuti, ore o secoli durante i quali era avvenuta la transizione, mi era stato detto qualcosa. O forse un livello della mia mente era riuscito a vedere come e dove venivo trasportata.
Perché? Perché un Invasore si era interessato a me tanto da fare quello che aveva fatto? Era stato un caso? Non lo sapevo, ma avevo la tenace sensazione di essere stata spostata nel tempo e nello spazio per qualche motivo che in seguito mi sarebbe stato chiaro. Nel frattempo dovevo affrontare il duro compito di sopravvivere.
Ebbi centinaia di avventure? In un certo senso ogni giorno era un’avventura. Ma scoprii che è molto più piacevole leggere le avventure che viverle. Al mattino non sapevo mai se sarei riuscita a vedere il tramonto.
Eppure, con tutte le difficoltà, con tutti i rischi, la mia è soprattutto una storia di peregrinazioni, di faticose avanzate fra i boschi, le paludi e le spiagge dell’Atlantico.
Mi dirigevo sempre a sud. Non conoscevo la geografia bene quanto avrei potuto, ma sapevo che sarebbe stato più caldo quanto più a sud fossi andata. Dopo il primo inverno ebbi l’impellente desiderio di stare al caldo. Il mio metodo consisteva nello scegliere un luogo dove le foglie cominciavano a cambiare colore. Poi o costruivo una capanna di fango e rami — Tweed, il tuo addestramento è stato utile! — oppure trovavo un gruppo di indigeni e restavo con loro fino allo sciogliersi delle nevi.
Imparai a fare molte cose: come costruire una canoa per attraversare i fiumi, come costruire e usare arco e frecce, come disporre trappole e trovare prede. Nei giorni buoni riuscivo a percorrere tre chilometri.
Le mie dimensioni mi aiutavano molto in tutto ciò che facevo. La gente che incontravo provava uno stupore religioso nel vedermi. Non ho mai trovato nessuno che mi arrivasse anche solo alle spalle.
Agli inizi fu complicato imparare ad andare d’accordo con loro, scoprire un modo per entrare nei loro accampamenti presentandomi come una specie di dea itinerante. Ma sebbene parlassero mille dialetti, erano tutti basati sull’inglese. Riuscivamo a comunicare, quindi. Racconti su Diana, la grande cacciatrice argentea con le gambe di cavallo, si snodarono davanti a me. I villaggi mi venivano incontro per augurarmi il benvenuto e per vedermi mutare per qualche secondo in un’apparizione, allorché mettevo in funzione il campo nullo. Eccitati e spaventati, toccavano il fiore metallico che avevo sopra il petto. Diventai la principessa guerriera delle leggende, la Sposa di Frankenstein dal corpo di metallo, la Diana Cacciatrice.
Ai loro occhi ero inferiore solo a una cosa. Al Delfino. Tutti i luoghi sacri di tutti i villaggi avevano una statua in legno di un grande pesce con le pinne della coda orizzontali e lo sfiatatoio.
Erano alcune settimane che si dirigeva verso nord. Già altre volte, nel suo lungo cammino, era andata a nord, ma era sempre stato per risalire un fiume alla ricerca di un guado. Una volta attraversato il fiume, ricominciava a scendere verso sud.
Apparentemente questa volta sarebbe stato diverso. A ovest non era riuscita a vedere nessuna terra e il colore dell’oceano sembrava diverso, più verde che blu. Il terreno era paludoso e lei compiva la maggior parte del viaggio su una canoa, spingendosi con un lungo bastone. Grossi rettili oziavano nel fango o le nuotavano pigramente accanto, però non aveva paura di loro.
Erano due anni che non vedeva la neve. Gli inverni erano miti, se addirittura si poteva dire che lì ci fosse un inverno. Aveva continuato ad avanzare per forza di abitudine e perché non sapeva decidere cosa fare della propria vita. Gli Invasori non l’avevano chiamata, non c’era stato nessun segno che le avesse rivelato perché era lì. Ma fermarsi avrebbe significato diventare parte di una tribù. Anche come dea, non credeva che sarebbe riuscita a sopportarlo.
Aveva fatto tutto il possibile, insegnando alle persone che aveva incontrato le nozioni che potevano essere loro utili. Ignorava se avessero continuato a prestar fede a ciò che lei aveva detto anche dopo che se ne era andata. E poi, non era nemmeno sicura che ne avrebbero tratto un vantaggio. Forse le soluzioni che avevano escogitato per venire a patti col proprio ambiente, per loro erano le migliori. Ma per lei, no. Le loro vite erano brevi, piene di dolori e di sofferenze. La sola cosa buona che possedessero era il senso della comunità, la sicurezza di essere circondati da amici, e sapeva che questo non l’avrebbe mai potuto condividere. Era diversa, e non poteva venire accettata in una tribù se non come una donna separata dagli altri.
Lilo non era più la donna che era stata un tempo. La sua pelle era marrone e indurita, i capelli erano stati scoloriti dal sole e dall’acqua salata. Non aveva specchi, ma sapeva di avere delle rughe fuori moda sulla fronte, intorno agli occhi e alla bocca. Dieci anni l’avevano fatta invecchiare da un clone dall’età di decantazione standard di diciannove anni apparenti a una donna di quaranta. Aveva una cicatrice bianca e raggrinzita che le andava dalla tempia destra alla mascella e un’altra sulla coscia sinistra. Le palme delle mani e le piante dei piedi erano indurite dai calli e i peli sui polpacci non erano più lisci e rigogliosi come un tempo.
Alla fine della quarta settimana di cammino verso nord, Lilo giunse alla conclusione di essere ormai alla fine della lunga penisola sudorientale del continente. I nativi la chiamavano Florda.
Decise di porre termine al proprio viaggio. Non c’era motivo di continuare lungo la costa del golfo, intorno alla curva del Messico, verso il Sudamerica. Ma non aveva il coraggio di fermarsi. Girò la barca e si spinse su per i calmi canali, tornando verso l’Atlantico.
Quando l’acqua tornò di nuovo azzurra, scelse un luogo vicino alle vecchie rovine di Miami e si costruì una capanna. Per la prima volta cominciò a coltivare un pezzo di terra (i semi glieli avevano dati gli indigeni), a fare esperimenti di ceramica e ad allevare polli e conigli.
Le tribù locali rispettavano il suo isolamento, a parte alcuni giorni sacri, allorché andavano a chiederle di celebrare riti religiosi che le erano oscuri ma che le sembravano soprattutto destinati a favorire la caccia. Accettava di pregare per loro, purché la lasciassero in pace per il resto dell’anno.
C’erano molte cose che la tenevano impegnata. Quando aveva bisogno di rilassarsi, usciva con la canoa e pescava. Le piaceva: poteva stare seduta a guardare l’acqua senza pensare a niente. Non provava più amarezza per ciò che le era successo. Se pensava a qualcosa, pensava a Makel.
Lilo si era tenuta lontana da tutti dal giorno in cui era morto. Nella sua vita, niente l’aveva colpita quanto la morte del ragazzo. Era stato un modo così sciocco, così inutile di morire. Da allora aveva visto la morte di molte persone, e sempre con la, stessa sensazione. Non siamo stati fatti per questo. La razza umana merita di meglio.
Lilo non era abituata a sentimenti ed emozioni così forti. Aveva combattuto contro se stessa per anni, ripetendosi che un essere umano era un animale come gli altri e poteva morire come tutti. Però non era soddisfatta. La logica non bastava. Non poteva tener conto di tutti gli aspetti. Cominciò a sentire che la terra su cui camminava sarebbe dovuta appartenere alla razza umana. Un tempo le era appartenuta. Forse coloro che erano vissuti prima dell’Invasione non avevano fatto un buon lavoro con lei, ma anche allora si erano sforzati. Ora tutti gli esseri umani sulla Terra erano nuovamente ridotti allo stato selvaggio. Le faceva male vedere una cosa del genere.
Andare sulla Terra aveva fatto diventare Lilo una Terrestre Libera.
Un giorno una grande forma scura apparve da sotto l’acqua, a meno di tre metri dalla sua barca. Ci fu un tremendo getto d’aria e una colonna di spruzzi si disperse tutt’intorno a lei.
Si alzò in piedi e la fissò. Era lunga almeno venti metri, tozza sul davanti.
Il Capodoglio.
Lilo gli lanciò contro il cesto dei pesci, che rimbalzò in acqua. La pelle luccicò, intatta. Lanciò il remo, una ciotola di creta in cui teneva l’esca, e poi tutto quello che riuscì a trovare sul fondo della barca.
Lentamente, il leviatano si girò. Apparvero due enormi pinne caudali che ondeggiarono per un attimo in aria prima di penetrare silenziosamente nell’acqua.
Lilo continuò a tremare per un’ora.
Il giorno dopo, forme gialle silenziose apparvero all’orizzonte. Lilo si alzò in piedi sulla spiaggia per guardarle, anche se le facevano male gli occhi. Erano ai limiti della visibilità, ma il problema non era questo. Erano forme. Erano tutte le forme contemporaneamente. E non si fermavano mai.
Le aveva già viste, sotto di sé, mentre precipitava nell’atmosfera gioviana, poco prima che i suoi sensi si dividessero e si trovasse sulla spiaggia — che scoprisse che era già sulla spiaggia, anche mentre cadeva verso Giove. Aveva rimosso quell’esperienza, ma adesso la ricordava: l’incredibile dissolvenza che aveva vissuto e che l’aveva lasciata sulla Terra.
Di nuovo non riuscì a controllare il tremito, ma questa volta era più per rabbia che per paura.
Abbatté un albero adatto e passò i giorni seduta sulla sabbia a guardare l’acqua e a lavorare il legno. Lo ridusse alla lunghezza di tre metri e in cima vi mise dell’acciaio che aveva faticosamente modellato da alcuni rottami. Quindi attese.
I getti comparvero un mattino presto. Lilo li osservò, tirando profondi respiri d’aria di mare finché le punte delle dita non cominciarono a pizzicarle. Tutti i nervi del corpo le vibravano, mentre si toglieva il corpetto di pelle e il perizoma e correva sulla sabbia verso la barca. Non aveva più paura di morire. Era il giorno giusto, e le balene aspettavano di assaggiare il suo arpione.
Si rendevano conto che lei era lì, decisa a ucciderle? Non lo sapeva né le interessava. Remò vigorosamente verso la massa dei corpi neri ondeggianti.
Sopra di lei sfrecciavano gli Invasori. Non acceleravano né rallentavano: semplicemente si muovevano. Entravano e uscivano dall’acqua senza rumore e senza spruzzi. Lilo si alzò e agitò l’arpione contro di loro, poi si controllò. Anche nella sua rabbia maniacale, nelle rosse profondità della sua furia nei loro confronti e nei confronti di quello che avevano fatto alla sua gente, sapeva che alcune cose erano al di là della sua portata. Si sarebbe vendicata sulla carne e sul sangue, poi sarebbe morta perché non restava niente da fare, perché non aveva senso continuare a camminare su spiagge nude o starsene seduti vicino a una capanna di fango.
Era lì nell’acqua accanto a lei, un largo dorso nero chiazzato appena sotto la superficie. Portò la mano al fiore metallico sulla clavicola e si trasformò in una creatura deforme di un blu brillante, calda come il sole che le si specchiava sulla faccia.
Sentì un grido. Il suo braccio si levò, si raddrizzò, ebbe un, sussulto. L’asta di legno le tremò nella mano, mentre sprofondava nella montagna di grasso.
La Cacciatrice Argentea, Diana, era in piedi sul dorso della balena e gridava. Tenne l’arpione con tutt’e due le mani mentre la coda del mostro si alzava e si abbatteva sulla barca.
La balena si immerse.