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Vivere Insieme: La Presentazione della Legge a un Bambino, di Ariadna-Clel-Joule. Tycho-Sotto Educativo, 552. Lettura di I Classe.

Le persone che infrangono la legge sono di tre tipi. Dal negativo al più negativo sono i trasgressori, i delinquenti e i criminali.

Le trasgressioni sono crimini quali lo spingere la gente, il creare disturbi, gli abusi verbali e il cattivo odore del corpo: crimini dovuti a un cattivo comportamento. Una persona accusata di trasgressione può essere difesa in tribunale. Può richiedere una giuria umana. Se riconosciuto colpevole, il trasgressore viene condannato a una multa da pagarsi o alla parte offesa o allo Stato.

I delitti sono reati come la rapina, il furto, l’aggressione, la violenza carnale e l’omicidio: reati contro la proprietà. I delitti più gravi sono quelli in cui la proprietà in questione è il corpo del cittadino. Tutti i delitti vengono puniti con multe pari al 90% degli averi del criminale. In caso di violenza contro la persona di un cittadino c’è la pena di morte obbligatoria con sospensione automatica. Il diritto alla vita del criminale resta valido, cosicché dopo l’esecuzione il criminale viene riportato in vita in un punto della sua esistenza soggettiva precedente la concezione del reato e viene sottoposto a una riabilitazione preventiva.

I reati peggiori sono i crimini. Sono reati quali l’incendio doloso, il sabotaggio, il possesso di materiali fissili, l’uso di raggi vettori, l’effettuazione di esperimenti di annientamento e l’alterazione del DNA umano. I crimini implicano una minaccia per tutto il genere umano, o per gran parte di esso, e sono conosciuti come Crimini Contro l’Umanità. La condanna per chi sia stato riconosciuto colpevole di un crimine è la revocazione del diritto alla vita. Lo Stato ricercherà e distruggerà qualsiasi registrazione mnemonica e qualsiasi campione di tessuto del criminale giustiziato. Il genotipo del criminale viene pubblicato e dichiarato fuorilegge e se viene nuovamente scoperto, viene nuovamente condannato a morte, tutte le volte che ciò sia necessario.

(Lettura di II Classe, vedere volume collegato: Il crimine non rende. Fumetti e nastri disponibili su richiesta verbale.)


Vaffa mi fece uscire dalla cella. Mi spinse per corridoi deserti fino a un ascensore. Ero curiosa di vedere come avrebbero fatto a tirarmi fuori di lì; durante l’ultimo anno, il pensiero di come avrei potuto farcela da sola aveva occupato gran parte del mio tempo. Avevo studiato i possibili piani di fuga. Quasi tutti comportavano corruzione, aiuto dall’esterno e tenacia, nell’ordine. Non avevo niente con cui corrompere e nessuno all’esterno a cui poter rivolgermi. Riguardo alla tenacia, persino il Conte di Montecristo si sarebbe sentito impotente davanti all’Istituto Terminale. Era a tre chilometri di profondità; e, peggio ancora, era a cinquanta chilometri dalla più vicina stazione ferroviaria. Se ne poteva uscire solo a piedi o con il trasporto a induzione non pressurizzato. Una tuta sarebbe stata utile. Naturalmente il controllo delle tute era una delle cose sottoposte a maggiori precauzioni di sicurezza.

All’improvviso, mentre salivo, ricordai cosa faceva Tweed da quando non era più Presidente. Era stato nominato Commissario degli Istituti di Correzione.


L’ascensore si arrestò e Vaffa fece cenno a Lilo di uscire. Aveva fatto una decina di passi, quando la afferrò per un braccio e la spinse al di là di una porta. Il corridoio dall’altra. parte era buio e stretto. Vaffa non sembrava preoccupato. Evidentemente Tweed doveva avere molte persone fidate dentro l’Istituto.

Smise di pensarlo quando Vaffa la condusse verso una porta contrassegnata dalla scritta CAMERA STAGNA DI EMERGENZA. Entrò e notò con qualcosa di più di un semplice interesse che nella stanzetta non c’era nessuna tuta. Fissò la luce rossa sulla seconda porta. Al di là c’era il vuoto.

«Aspetta un momento,» disse bruscamente. «Cosa stai facendo?»

«Non c’era modo di far entrare una tuta non autorizzata nell’Istituto,» disse lui. «Le tute sono amministrate da un reparto che non controlliamo.»

«Sì, ma…»

«Il sensore di questa camera stagna è stato staccato. Il computer non saprà che è in funzione. Prendi questi e mettiteli.» Le passò un paio di grossi stivali flessibili.

«Aspetta un momento. Non posso.»

«Devi farlo.»

«Non posso! State cercando di uccidermi! Non avrei mai dovuto ascoltarvi. Fammi uscire!» Stava per essere vinta dal panico. Come tutti i Lunari, Lilo aveva una tremenda paura del vuoto. Era il nemico che combatteva dal giorno della nascita, spaventoso come lo era stato l’inferno per gli esseri umani precedenti. Si sentiva male fisicamente.

«Mettiteli,» disse Vaffa con calma. «Ne avrai bisogno per proteggerti i piedi.»

«Cosa… cosa devo fare?»

«Se fai in fretta, resterai nel vuoto solo cinque secondi. Vicino alla porta c’è un cingolato, a due metri di distanza, al massimo.»

«Che ore sono là fuori?»

«Siamo nell’ombra.»

Si sentì nuovamente prendere dal panico. «No. No, è impossibile.» Voleva aggiungere altre cose, ma lui le toccò la spalla e la tenne stretta per un momento.

«Se dovrò stordirti e trascinarti, ci vorrà molto di più.»

Lei capì che diceva sul serio. Vaffa fece un leggero sorriso nel vedere che Lilo si rendeva conto che lui era troppo grande per lottarci contro. Così aveva un solo modo per uscire dalla camera stagna. Si infilò gli stivali e si mise davanti alla porta. Vaffa aprì le serrature. La porta rimase ermeticamente chiusa, trattenuta da quattordicimila chili di pressione.

«Quando?» domandò lei.

«Il mezzo cingolato non deve fermarsi. La guardia sulla torretta deve essere distratta al momento giusto, perché non ci fidiamo di lei. Il veicolo sarà accessibile per dieci secondi, e dovrebbe arrivare fra un minuto.» Alzò gli occhi dall’orologio e sorrise. «Se tutto continua ad andare secondo i piani.» Lilo pensò che era la prima volta che aveva detto qualcosa che non gli fosse stato ordinato di dire. Uscì dalla camera stagna e chiuse la porta interna.

All’improvviso giunse il momento. Sentì un grido che conosceva bene, ma tutte le altre volte che l’aveva udito aveva avuto indosso una tuta. Era la valvola di svuotamento rapido. Stranamente non provò niente. Ruttava in continuazione. Il suono si spense in pochi secondi. Spalancò la porta e corse nel silenzio. C’era una forma scura che si stava muovendo, una mano che si protese per afferrarla e che la tirò dentro il veicolo. Lo sportello si chiuse, e un grido attraversò l’aria che entrava a riempire la cabina sigillata. Lilo cominciò d’improvviso a rabbrividire. «Ce l’ho fatta,» gridò roca, e svenne.


Una donna era china su di lei.

«Non ti muovere, per favore.» Lilo si sentiva il braccio sinistro intorpidito. Abbassò gli occhi. Era stato reciso al gomito.

«Ci vorrà solo un attimo,» disse la donna. Aveva un caduceo tatuato fra i seni: un medico. Lilo voltò la testa sull’altro braccio e osservò.

«A cosa serve?» domandò.

«Lasceremo il veicolo a una stazione a circa cento chilometri da qui. Questo è per farti superare la dogana.» Prese un avambraccio da una cassetta vitale metallica e lo collegò a una borsa nera. Il pezzo di carne bianca acquistò colore e le dita si contrassero. Infilò il braccio di Lilo nella cassetta vitale.

«Sono Mari,» disse, con la voce che si alzò leggermente di tono sull’ultima sillaba. Sulla faccia aveva un accenno di sorriso.

«Lilo,» rispose lei, e si toccarono le palme, la destra di Lilo con la sinistra di Mari, poiché al momento Lilo era equipaggiata per salutare in modo corretto.

«Sarà pronto in un minuto,» disse Mari indicando il braccio. Prese una borsa che era su uno scaffale alle sue spalle. Dentro c’erano due tuniche color porpora scuro. Si alzò per infilarsene una dalla testa. «Tu puoi mettertela quando avrò finito.»

«Dove mi porti?»

«A vedere il Capo.» Dal tono della sua voce si capiva che Mari aveva un gran rispetto per il Capo. Quindi era una Terrestre Libera. Be’, certo non era una malattia. Lilo poteva anche tollerarli, tranne quando si trattava di un fanatico come Tweed che voleva portare tutta la razza alla distruzione.

Mari ricominciò a lavorare, facendo combaciare le. giunture del gomito, attaccando tendini, collegando nervi e vasi sanguigni. La pelle si cicatrizzò in cinque minuti e non rimase che una debole linea rossa a indicare dove il braccio era stato innestato. Staccò una spina dalla presa dietro la testa di Lilo e il braccio non fu più solo un peso morto. Era pieno di aghi e spilli, ed era freddo.

«Non è un gran lavoro,» disse Mari, rimettendo a posto gli attrezzi. «Ti servirà solo per un’ora o poco più, così non aveva senso perderci troppo tempo, no? Non dovrai usarlo molto.»

«Non ti preoccupare. Non sono mancina.» Strinse il pugno. Il braccio era più corto di circa cinque centimetri.

«Oh, davvero? Anche mia madre.»

«Questo di chi è?»

«Di una che dovrebbe essere sulla Luna. Di tanto in tanto facciamo passare il genotipo dalla dogana, in modo che il computer possa registrarlo… ma non credo che dovrei dirti queste cose.»

«Come vuoi.» Lilo si era immaginata che si trattasse di una cosa del genere.

«Non sembri molto contenta per essere una donna appena evasa da una prigione a prova di fuga,» disse Mari. Il suo sorriso era aumentato gradatamente; adesso era largo e amichevole. A Lilo venne di ricambiarlo.

«Immagino di non aver avuto il tempo di reagire. È tanto che vivo da condannata a morte.»

Mari le si fece più vicina. «Vuoi cop?»

«No, grazie. Credo di voler ricominciare con un uomo, dopo tanto tempo.»

«Certo.» Il medico rivolse la sua attenzione al paesaggio piatto e butterato e alle ombre oblique fuori dal finestrino.

Lilo cercò di rendersi pienamente conto del fatto che adesso aveva la possibilità di sopravvivere. La situazione non aveva ancora un significato preciso. Continuava a pensare all’altra donna, al clone, che sarebbe morta al posto suo. Cominciò a piangere, arrendendosi alle confuse emozioni che dovevano avere uno sbocco. Solo quando Mari decise che Lilo aveva sopportato abbastanza e le toccò una spalla, si rese conto di quanto avesse bisogno di una faccia amica, del contatto con un altro essere umano. Si calmò quasi immediatamente. Mari fece per ritirare il braccio, ma Lilo la fermò con un tocco.

«Fra quanto arriveremo?»

Mari diede un’occhiata al cronometro che aveva sull’unghia del pollice. «Fra circa due ore. Vuoi cop, adesso? È probabile che sia la cosa migliore. So qualcosa di quello che stai passando.»

«Ah, perché no?» Così lo fecero. Mari aveva avuto ragione; servì ad allentare la tensione. Mari era abile e gentile, una brava partner, tranne che per la tendenza a parlare. Baciava qualcosa — il naso, l’ombelico, il ginocchio, le labia — e poi voleva sapere chi era stato a prendere l’iniziativa. Di solito la risposta era «è andata così».

Mari segnò la maggior parte dei punti. Lilo era troppo distratta per stare molto attenta a quello che facevano la sua bocca e le sue dita. Sapeva di essere stata una cattiva partner, ma Mari disse che non importava, e sembrava sincera. Era un bel gesto, ma non tanto da meritare il secondo attacco di lacrime che provocò in Lilo. Quando si arrestò, capì che il medico l’aveva tirata fuori dall’abisso emotivo nel quale era vissuta durante l’ultimo anno come non sarebbe riuscito a farlo la consapevolezza intellettuale di una sospensione della sentenza.

Sarebbe rimasta viva!


Il veicolo si fermò a Herschel, uno dei piccoli formicai al limitare degli Altipiani Centrali. Mari entrò in una camera stagna e parcheggiò, poi andarono direttamente in città a prendere la metropolitana locale per Panavision. Lilo teneva gli occhi aperti, pronta a scappare se se ne fosse presentata l’occasione, ma vennero subito raggiunte da un uomo e da una donna. Ridevano e scherzavano con Mari, ma era chiaro che stavano in guardia. L’occasione ci sarebbe stata, ne era sicura. Era meglio aspettare finché non avesse conosciuto un po’ meglio la situazione.

Infilò la mano nella macchina della dogana e sentì la sonda graffiarle la pelle secca del palmo. L’apparecchiatura emise qualche gorgoglio e si convinse che lei era qualcun altro. Peccato che non potesse tenere la nuova mano, rifletté. Avrebbe avuto un valore incalcolabile. Ma il rigetto dei tessuti lo impediva. In meno di una settimana sarebbe morta.

Panavision era una città di artisti, piena di attori e di registi. L’aspetto di molti era stato modificato in funzione di un ruolo; era un posto bizzarro. Si misero in fila ad aspettare il treno gravitazionale per Archimede. Salirono tutti e quattro, la vettura fu chiusa ermeticamente, e il peso di Lilo cominciò a diminuire mentre il treno scendeva per circa quattrocento chilometri lungo la galleria inclinata. A un certo punto, sotto gli Appennini, il treno cominciò a risalire, rallentando via via fino ad avanzare a passo d’uomo allorché la vettura entrò nell’ascensore che li riportò ai livelli abitati. Quando Lilo cominciò a stare comoda a sedere, il viaggio terminò.

Il Gran Concorso di Archimede era terrificante. Aveva dimenticato che ci fossero tante persone e tanto rumore. Non vi fu tempo per preoccuparsene; venne spinta attraverso la folla fino a una metropolitana privata. Appena ebbe riacquistato il controllo di sé, vide che nella capsula a otto posti era di nuovo sola con Mari.

«E adesso dove andiamo?»

«Non sono autorizzata a dirlo,» rispose Mari alzando le spalle.

Lilo non ci mise molto a capirlo. La maggior parte dei Lunari ha qualche nozione di selenografia. Spesso non escono in superficie più di una volta o due in diversi anni, probabilmente per un viaggio come quello che Lilo e Mari stavano facendo in quel momento: chiuse in una capsula, su una rotaia a induzione mentre il paesaggio sfrecciava davanti ai finestrini. Ma Lilo conosceva piuttosto bene le carte della superficie. Andavano a nord, attraverso le piane dell’Imbrium, e quando vide dei picchi ergersi all’orizzonte, sapeva che erano i monti Spitzbergen. Così il Capo viveva lì. Quell’informazione non era proprio un segreto di stato, però non veniva reclamizzata per il pericolo costante di un omicidio.

La casa di Tweed era in superficie — com’era logico, notò Lilo, per permettergli di vedere sempre la Terra. Tweed era ossessionato dalla Terra, e dagli Invasori. C’era un’enorme cupola geodetica, circondata da gruppetti di cupole più piccole. All’ombra di una di esse si levava un intricato telescopio con uno specchio di venti metri. Era puntato sulla Terra.


Mari recise l’avambraccio e lo sostituì con quello originale, poi disse che Tweed stava aspettando Lilo nella cupola principale. Le indicò il tragitto. Lilo fece con calma, guardando al di là delle porte aperte che incontrava. Ci doveva essere solo una stazione della metropolitana e le tute dovevano essere ben custodite. Si rendeva perfettamente conto che quella era una prigione così come lo era stato l’Istituto: era il momento di cominciare a mettere a punto un piano di fuga.

La strada di accesso era invasa dall’acqua. Ci passò in mezzo, finché il viottolo non diventò un ruscello che scorreva fra gli alberi, un’artistica, perfetta combinazione di olografie e piante reali. Il letto del ruscello era pavimentato di sassi levigati e di cristalli variopinti e i punti più profondi erano pieni di pesci. Dalla riva, una pantera la stava studiando; le venne vicino appena fu uscita dall’acqua, e le si strofinò contro dopo averle annusato i peli dei polpacci. Lilo la carezzò per un poco, poi la mandò via con una pacca sulla testa.

Il sentiero portava a uno spiazzo, e lì c’era Tweed, seduto su una poltrona con una donna nuda in piedi accanto. Fra gli alberi ai bordi dello spiazzo, vide un uomo, anch’esso nudo.

Lilo aveva cercato di non lasciarsi impressionare, ma era inutile. Non aveva idea di quanto denaro ci volesse per mantenere una disneyland tascabile come quella, ma sapeva che doveva essere molto.

«Si sieda, Lilo,» disse Tweed, e dall’erba alta apparve una poltrona. Lei lo fece, mettendo un piede sul sedile. Si frugò nelle tasche della tunica, trovò una spazzola, e cominciò a pettinarsi i riccioli dei peli bagnati sulle gambe.

«Ha già incontrato Vaffa,» disse Tweed, indicando la donna in piedi. Lilo la guardò, ne notò la posa e l’atteggiamento delle mani. Quella donna poteva ucciderla in un secondo, e l’avrebbe fatto. Le era sembrato che i suoi occhi avessero qualcosa di familiare.

«Quante ne ha?» chiese. C’era un boa constrictor, lungo almeno venti metri, avvolto nell’erba ai piedi della donna. «È uno strano animale da casa.»

«Non le piacciono i serpenti?»

«Non parlavo del serpente.»

Tweed fece una risatina. «Vaffa è molto utile, fedele, intelligente come può, e del tutto spietata. Vero, Vaffa?»

«Se lo dice lei, signore.» I suoi occhi non abbandonavano Lilo neppure per un attimo.

«Per rispondere alla sua domanda, ci sono molte Vaffa. Una qui, l’altra che l’ha aiutata a fuggire qualche ora fa. Altre in altri posti.» Lilo non aveva bisogno di chiedere perché Vaffa fosse tanto utile. Sebbene le due che aveva visto avessero corpo e faccia del tutto diversi, la sensazione era la stessa. Era un’assassina. Era possibile che fosse un soldato, sebbene Lilo non fosse esperta di malattie mentali.

«Mi parli degli Anelli,» disse Tweed, inaspettatamente.

«Se ne è discusso al processo,» balbettò Lilo. «Credevo che lo sapesse.»

«Lo sapevo, ma non sono convinto che abbia detto la verità Dov’è la capsula vitale?»

«Non lo so.»

«Abbiamo il modo di farla parlare.»

«Non dica sciocchezze.» Tweed aveva l’abitudine di parlare in quella maniera, come un attore di un giallo scadente. «Non è questione di non volerlo dire,» spiegò lei. «Ho ammesso di averla costruita. Se sapessi dov’è, non mi sarebbe molto utile, no?»

In quel momento Lilo capiva che avrebbe potuto esserle» dannoso, non certo utile. Tweed non appariva contento, e la cosa era spiacevole. Renderlo contento era improvvisamente diventato molto importante.

Cinque anni prima, allorché le sue ricerche l’avevano condotta in campi nei quali avrebbe incontrato problemi con la legge, aveva deciso di costruire la capsula. Aveva contatti con gli abitanti degli Anelli e il denaro per fare attuare il progetto. L’idea — le era parsa buona al momento — era stata questa: se fosse stata presa e imprigionata, il suo lavoro sarebbe continuato senza interruzioni. Ora non era sicura che le sue motivazioni fossero state così altruistiche. L’impulso a vivere era forte, come aveva appena scoperto.

«Mi hanno interrogato servendosi di droghe,» disse. «Ho un’amica laggiù. Quando lasciai la capsula, lei la spostò. Non posso portarci nessuno. Non so dove sia.»

«Questa complice,» disse lui. «Ha modo di mettersi in contatto con lei?»

«È mai stato laggiù?»

«No, non ne ho mai avuto il tempo.» Scrollò le spalle. Lilo gliel’aveva già visto fare, al cubo. Tweed era abile nel mettersi in disparte, nel mostrarsi sempre preso dagli interessi del popolo.

«Be’, gli Anelli sono grandi. Se non c’è mai stato, non può immaginarsi quanto. Potrei cercare di rintracciarla via radio, ma non riusciremmo mai a darle la certezza assoluta che non ci sono pericoli. Voglio dire, con la droga mi si potrebbe estorcere tutto, e lei non avrebbe nessun modo di sapere se c’è qualche tranello. È già stato abbastanza difficile convincerla ad aiutarmi. Agli abitanti degli Anelli piace la solitudine. Non si interessano molto dei problemi degli altri.»

«Ma può mettersi in contatto con lei?»

«Se vuol dire se posso trovarla, no. Posso lasciare un messaggio al centralino di Janus. Lo chiama ogni venti anni, come un orologio.»

Tweed allargò le braccia. «Non è molto efficiente.»

«L’idea era proprio questa. Se fosse stato facile per me bloccare il progetto, lo sarebbe stato per chiunque avesse saputo quello che sapevo io.»

Tweed si alzò e fece lentamente qualche passo, guardando in cielo. Il serpente si mosse e si avvolse intorno alla gamba di Vaffa, che si chinò per carezzarlo, senza perdere mai di vista Lilo.

«Come si chiama questa complice?»

«Parameter. Parameter/Solstizio.»

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